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31 marzo 2020

Fabo – Enzo Montano

Theseus and Minotauros, Paris 1936, aris, Tuileries

Fabo – Enzo Montano

E per la forza di una parola
Io ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per nominarti
Libertà.
Paul Eluard - Libertà

Finita quella sera maledetta la mia vita
assieme a tutte le mie passioni
disegnate sulla pelle
ogni giorno sfiorisce la mia dolce compagna
ogni giorno vivo una perenne morte
senza i miei colori e senza l’aria
ogni giorno vivo senza la musica,
magia della mia vita.
Ogni giorno sono prigioniero di una morale
che dispensa sofferenza,
vittima di una falsa morale che incatena.

Ogni giorno interminabile
porta la sua immane sofferenza,
la prospettiva è una lunghissima
catena di questi giorni senza fine
crocifisso nel mio piccolo mondo
che ha i confini del mio letto
nella dolorosa immobilità che
attanaglia anche la mente;
inutile a me stesso e prigionia per chi mi ama,
fino alla liberazione “da questa vita,
un inferno di dolore, di dolore, di dolore”.

Dal tuo letto sei stato condottiero
strenuo per la civiltà, ovvia e difficile.
Poi hai salutato tutti col sorriso pigiando
con i denti sulla porta della libertà
finalmente aperta sulla musica e l’India.
Grazie Fabo.
Perdonami se
ti sei sentito estraneo
nel paese che è il tuo e il mio,
perdonami l’esilio della tua ultima ora.

Ciao Fabo, tu sei libero e noi
come troppo spesso accade
ancora una volta abbiamo perso.

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da La biblioteca di Babele - Jorge Luis Borges.

La sala degli specchi di Maria Carolina, Reggia . Caserta
da La biblioteca di Babele - Jorge Luis Borges.

All’Hotel de Adrogué, tra i caprifogli effusivi e il fondo illusorio degli specchi, sussiste ancora un qualche ricordo limitato e decrescente di Herbert Ashe, ingegnere dei Ferrocarriles del Sur. In vita, come tanti inglesi, aveva patito d’irrealtà; morto, non è nemmeno più il fantasma che era stato. Alto, disincantato, la sua stanca barba rettangolare era stata rossa. Pare che fosse vedovo, senza figli. Ogni anno o due andava in Inghilterra: per visitare (a quanto giudico da fotografie che ci mostrò) una meridiana e alcuni roveri.
Mio padre aveva stretto con lui (ma il verbo è eccessivo) una di quelle amicizie inglesi che cominciano con l’escludere la confidenza e prestissimo omettono la conversazione; solevano scambiarsi libri, e periodici; solevano affrontarsi, taciturnamente, agli scacchi… Lo ricordo nell’atrio dell’albergo, con un libro di matematica in mano, guardando a volte i colori irrecuperabili del cielo. Una sera, stavamo parlando del sistema di numerazione duodecimale (in cui il dodici si scrive dieci); Ashe mi disse che stava traducendo non so che tavole duodecimali in tavole sessagesimali (in cui sessanta si scrive dieci). Aggiunse che questo lavoro gli era stato affidato da un norvegese a Rio Grande do Sul. Otto anni che lo conoscevamo, e non ci aveva mai detto di essere stato laggiù… Parlammo di vita pastorale, di capangas, dell’etimologia brasiliana della parola gaucho (che alcuni vecchi dell’est pronunciano ancora gaúcho), e non fu più questione - Dio mi perdoni - di funzioni duodecimali. Nel settembre 1937 (noi non eravamo in albergo), Herbert Ashe morì della rottura di un aneurisma. Giorni prima aveva ricevuto dal Brasile un pacchetto sigillato e raccomandato. Era un libro in ottavo grande. Ashe l’aveva lasciato al bar, dove - mesi dopo - lo ritrovai. Mi misi a sfogliarlo e provai una vertigine stupita e leggera, che non descriverò, perché questa non è la storia delle mie emozioni ma la storia di Uqbar, di Tlön e dell’Orbis Tertius. In una notte dell’Islam che chiamano la Notte delle Notti, si spalancano le porte del cielo e l’acqua si fa più dolce nelle brocche; se queste porte, allora, si fossero aperte, non avrei provato quello che provai. Il libro era scritto in inglese ed era di 1001 pagine. Sulla gialla sua costola di cuoio lessi queste parole, che il frontespizio ripeteva: A First Encyclopaedia of Tlön. Vol. XI Hlaer to Jangr. Non v’era data né luogo di pubblicazione. La prima pagina e la velina d’una delle tavole portavano un timbro ovale, turchino, con questa iscrizione: Orbis Tertius.
Due anni prima, nelle pagine d’una enciclopedia plagiaria, avevo scoperto la sommaria descrizione d’un falso paese; ora il caso mi recava qualcosa di più prezioso e più arduo. Avevo tra mano, ora, un frammento vasto e metodico della storia totale d’un pianeta sconosciuto, con le sue architetture e le sue guerre, col terrore delle sue mitologie e il rumore delle sue lingue, con i suoi imperatori e i suoi mari, con i suoi minerali e i suoi uccelli e i suoi pesci, con la sua algebra e il suo fuoco, con le sue controversie teologiche e metafisiche. E tutto ciò articolato, coerente. senza visibile intenzione dottrinale o parodica.

da La biblioteca di Babele - Jorge Luis Borges.

Roma, Musei Vaticani
da La biblioteca di Babele - Jorge Luis Borges.

Secoli e secoli di idealismo non hanno mancato di influire sulla realtà. Non è infrequente, nelle regioni più antiche di Tlön, la duplicazione degli oggetti perduti. Due persone cercano una matita; la prima la trova, e non dice nulla; la seconda trova una seconda matita, non meno reale, ma meno attagliata alla sua aspettativa. Questi oggetti secondari si chiamano hrönir, e sono, sebbene di forma sgraziata, un poco più lunghi. Fino a non molto tempo fai i hrönir furono creature casuali della dimenticanza e della distrazione. Alla loro produzione metodica - sembra impossibile, ma così afferma l’“undicesimo volume” - non s’è giunti che da cento anni. I primi tentativi furono sterili. Il modus operandi merita d’essere ricordato. I1 direttore di una delle carceri dello stato comunicò ai detenuti che nell’antico letto d’un fiume v’erano certi sepolcri, e promise la libertà a chi facesse un ritrovamento importante. Durante i mesi che precedettero gli scavi, furono mostrate ai detenuti fotografie di ciò che dovevano ritrovare. Questo primo tentativo mostrò che la speranza e l’avidità possono costituire una inibizione; in una settimana di lavoro con la pala e con il piccone, non si riuscì ad esumare altro hrön che una ruota rugginita, di data anteriore all’esperimento. La cosa fu mantenuta segreta e fu poi ripetuta in quattro istituti di educazione. In tre l’insuccesso fu quasi completo, nel quarto (il cui direttore morì casualmente durante i primi scavi) gli scolari esumarono - o produssero - una maschera d’oro, una spada arcaica, due o tre anfore di coccio, e il torso verdastro e mutilato d’un re, recante sul petto un’iscrizione che non s’è ancora potuta decifrare. Si scoprì in tal modo come la presenza di testimoni, a conoscenza del carattere sperimentale della ricerca, costituisca una controindicazione… Le investigazioni in massa producono oggetti contraddittori; oggi si preferiscono i lavori individuali e quasi improvvisati. La produzione metodica (dice l’“undicesimo volume”) ha reso servizi prodigiosi agli archeologi. Essa ha permesso di interrogare e perfino di modificare il passato, divenuto non meno plastico e docile dell’avvenire. Fatto curioso: i hrönir di secondo e di terzo grado,- i hrönir derivati da un altro hrön; quelli derivati dal hrön di un hrön - esagerano le aberrazioni del hrön iniziale; quelli di quinto ne sono quasi privi; quelli di nono si confondono con quelli di secondo; quelli di undicesimo hanno una purezza di linee non posseduta neppure dall’originale. Il processo è periodico: il hrön di dodicesimo grado comincia già di nuovo a decadere. Più strano e più puro di ogni hrön è talvolta l’ur la cosa prodotta per suggestione, l’oggetto evocato dalla speranza. La gran maschera d’oro cui ho accennato ne è un illustre esempio.
Le cose, su Tlön, si duplicano; ma tendono anche a cancellarsi e a perdere i dettagli quando la gente le dimentichi. È classico l’esempio di un’antica soglia, che perdurò finché un mendicante venne a visitarla, e che alla morte di colui fu perduta di vista. Talvolta pochi uccelli, un cavallo, salvarono le rovine di un anfiteatro.
Salto Oriental, 1940

Rubens il partigiano e altri racconti – Enzo Montano


Rubens il partigiano e altri racconti – Enzo Montano
da “L’incontro”

[…]
Dopo un tratto di strada percorso in silenzio, ognuno con i propri pensieri, Angela cominciò a raccontare un episodio della vita di suo padre.
«Qualche mese fa» esordì «mi ha raccontato di un tale, Gabriele si chiamava. Erano amici da sempre poiché le loro case erano vicine. Abitavano in una zona che allora era campagna, erano entrambi figli di contadini. Avevano condiviso tutti i momenti della loro vita, erano diventati più che fratelli. Gabriele aveva un talento incredibile nella coltivazione dei vigneti e dall’uva era capace di estrarre il vino più buono. Per questo era famoso in tutta la zona al punto che tutti i contadini si rivolgevano a lui nel periodo della vendemmia, della pigiatura e delle fasi successive, fino alla maturazione del vino. Lui e mio padre avevano costruito una cantina e facevano assieme la vendemmia delle vigne di famiglia. Il vino che portavano a tavola era, a detta di tutti, il migliore della contrada. Gabriele era meticoloso e attento a ogni particolare che sapeva leggere e interpretare, calibrare quegli interventi tecnici che gli consentivano di vendemmiare l’uva adatta al vino che aveva in mente. Era infallibile. Poi passava ogni sera da casa dei mie nonni per scambiare due chiacchiere, per un bicchiere di vino e per un saluto. Una sera non andò. Neanche quella seguente, né l’altra ancora. Semplicemente svanì, come svanisce il fiato nei giorni di freddo. E assieme a lui scomparve l’intera famiglia: i genitori, le due sorelle e il fratello. “Pensammo a un trasferimento improvviso, racconta mio padre, “pensammo fossero andati in qualche luogo lontano per sfuggire alla guerra. Ma non era da lui, e poi, perché non dirlo. Perché non dirlo a me?”.Col tempo, e con la scomparsa improvvisa di altre famiglie, capirono. Tutti capirono, anche se nessuno lo diceva apertamente perché sarebbe stato doloroso ammettere la deportazione di persone innocenti, di brave persone. “Perché non me lo ha detto” si tormentava papà “io non lo sapevo, poteva confidarsi con me... o forse ha taciuto per metterci al riparo da rappresaglie?”. Il dubbio lo ha tormentato a lungo.
[…]
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30 marzo 2020

Rubens il partigiano e altri racconti – Enzo Montano

dipinto di Susan Ruiter
Rubens il partigiano e altri racconti – Enzo Montano
da “La biancheria”

[…]
La trentaduenne Immacolata Assunta e il marito che di qualche anno la sopravanzava, come ho avuto modo di sottolineare, appartenevano a famiglie dalle nobilissime origini. Avevano, per di più, grandi disponibilità economiche accumulatesi nei secoli e che continuavano a produrre instancabilmente altre ricchezze più che considerevoli, costituite da capacissime capienze degli svariati conti bancari, depositi fruttiferi, titoli di varia natura, azioni delle maggiori aziende italiane e straniere, immobili sparpagliati nell’intero territorio nazionale comprendenti un gran numero di tenute agricole ognuna di considerevole entità per estensione e produttività. Insomma, nessuno poteva dire che non se la passassero bene.
Immacolata Assunta aveva, come si è potuto desumere, un portamento fiero tale da esaltare le sue forme statuarie ben distribuite dall’inarrivabile sapienza della natura che, com’e noto, quando ci si mette e capace di realizzare la bellezza nella sua massima rappresentazione o anche, allorquando e in vena di dispetti, di concretizzare forme estetiche e caratteriali di rara bruttezza. Nel caso di Immacolata era stata prodiga oltre ogni immaginazione. Figura slanciata, capelli riccioluti nerissimi come il carbone, occhi come due perle preziosissime e nere col dono della profondità dell’oceano. Sopra a ognuno di essi poi la natura aveva posto delle ciglia lunghissime che quando si rialzavano gli occhi baluginavano, anche quando il sole era celato da molteplici strati di pesanti nuvole grigie, di una luce tagliente come la più affilata lama di spada giapponese, capace di infilarsi nel corpo nel cervello e nel cuore di colui a cui lo sguardo era indirizzato. Il collo levigato sottile e bianco d’avorio poggiava su spalle dritte ben proporzionate e flessuose come di una pantera. Il seno, monumento mirabile alla prosperità, si presentava sodo come i fianchi notevoli esaltati dalla vita sottile, le gambe lunghe potevano paragonarsi all’opera di Antonio Canova o di Gian Lorenzo Bernini e porsi, se possibile, a un livello estetico ancora più elevato. La pelle, bianca nei mesi invernali, assumeva un colore dorato come quello del miele appena il sole stazionava stabilmente nel cielo e Immacolata Assunta le si off riva con voluttà; baciata dai caldi raggi costituiva un inarrivabile esempio di quel tipo di bellezza denominata ‘mediterranea’ ma che poteva benissimo rappresentare
quella nordica, americana, dell’Est o dell’Ovest o di qualsiasi remoto angolo della Terra, del sistema solare e di tutti gli altri sistemi planetari conosciuti e non conosciuti
che concorrono a formare l’universo infinito.
[…]
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Rubens il partigiano e altri racconti – Enzo Montano


Rubens il partigiano e altri racconti – Enzo Montano
da “La rivista”

[…]
La piazza, nella sua centenaria immobilità faceva da contrasto alla volatilità dei fatti e delle persone del cui passaggio era stata testimone incorruttibile. Di tutte le vite passate in quel rettangolo, le speranze, gli amori, le separazioni, era rimasta una qualche traccia, o tutto era passato come immagini riflesse in uno specchio quando ci si allontana?
Le lunghe giornate, fatte di vaghi discorsi o da una bibita al tavolo del bar o dalle partite proiettate su grandi schermi, erano solo attimi fugaci, anche lo scorrere della vita, dalla nascita sino alla fine, altro non era che rapida apparizione che si dissolveva contro la solida staticità dei vecchi edifici intorno al lastricato bianco su cui vegliava la torre campanaria.
Giuseppe si apprestò ad attraversare la grande piazza per andare all’edicola.
Osservava il lastricato bianco che catturava i riflessi del sole per riverberarli addosso alle persone quando le due campane della torre annunciarono l’ora. Non si girò verso la torre ma vide benissimo il percussore esterno della campana più grande, quella delle ore, mosso da un meccanismo che lo faceva alzare per poi farlo abbattere come un martello sull’incudine.
Al terzo rintocco sordo incrociò una conoscente, una signora bella come la Primavera rappresentata nei dipinti del Rinascimento, che lo salutò con un elegante movimento
della testa e un accenno di sorriso capace di rapire.
... Quattro, cinque...
Mentre la donna attraversava la piazza nel senso opposto a quello di Giuseppe, sul suo leggero ancheggiare, avvolto da un abitino blu che aderiva alla sua prorompenza, erano sincronizzati gli occhi dei presenti di tutte le età rapiti da quella oscillazione naturalmente sensuale non ostentata, ma evidente come la luna piena in una notte d’estate. Era come se tutti la accompagnassero nel suo cammino. E lo fecero finché la bella signora non svolto dietro l’angolo della chiesa. Ma gli occhi continuarono a guardare in quella direzione nella speranza che lo svolgersi degli eventi contemplasse un rapido ritorno della bella donna fasciata dall’aderente vestito blu.
... Sei, sette...
Un signore, forse il più avanti di età, continuò a seguirla anche quando non era più possibile scorgerla. Dietro l’ancheggiare delle forme degne di una scultura neoclassica incedeva, forse, il giovane uomo che era stato, con i desideri pruriginosi ancora non spenti. Nella mente dell’anziano balenavano pensieri e supposizioni oppure esili ricordi di momenti persi nelle sedimentazioni del tempo vissuti con una donna che le somigliava. Tracce di appuntamenti e momenti felici, di gelosie e litigi, di affanni e rimostranze, di ammiccamenti e complicità. Chissà quanti accadimenti erano custoditi nella memoria del vecchio dal viso solcato dalle rughe e dagli occhi limpidi come una sorgente.
... Otto...
Incrociò una ragazzina, figlia di un caro amico, bellissima come una cascata di petali di rose, dallo sguardo luminoso da far invidia al sole. Un saluto affettuoso.
«Come stai, Giuseppe?» sapeva dei recenti problemi di salute «come sta Marta?».
«Va bene, anche Marta sta bene. Una di queste sere veniamo a trovarvi. Salutami mamma e papà. Ciao Elena.»
«Ciao Giuseppe.»
... Nove.
I rintocchi sembravano stendere una invisibile coperta sotto la quale scomparivano le voci delle persone e il rumore delle rare automobili in transito nella strada adiacente alla piazza.
Si chiese se esistevano ancora i campanari e se le campane delle chiese fossero anch’esse mosse da meccanismi elettronici oppure se la chiamata a raccolta dei fedeli o l’annuncio delle liturgie non fossero delle semplici e fredde registrazioni.
Cessati i rintocchi della campana grande, mentre ancora non si era completamente disperso il suono del nono rintocco, fu la campana più piccola a esordire con un rintocco meno forte ma sordo, come se la campana su cui batteva il martello avesse una piccolissima incrinatura, invisibile, che sfuggiva a chi era incaricato della manutenzione.
Tre colpi sordi delle frazioni delle ore stabilirono che erano le nove e tre quarti. Il giorno doveva ancora dire molto.
Alzò gli occhi verso il cielo limpido di un azzurro vivace e uniforme. Che sciocco!
Per un attimo aveva pensato di vedere contro l’azzurro le onde sonore propagarsi intorno alla torre, allargarsi verso l’orizzonte, fino a sovrapporsi; quasi come se ogni rintocco fosse stato un sasso lanciato in uno stagno.
[…]
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