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29 luglio 2021
Chi mi condurrà - Vladimir Nabokov
Era di Maggio - Roberto Murolo
Bordone - Federico García Lorca
Sarei già andato davvero lontano - Johann Wolfgang Goethe
La danza immobile – Alejandra Pizarnik
Messaggeri nella notte annunciarono quello che non ascoltammo.
Cercammo sotto l’ululato della luce.
Arrestammo l’avanzamento di mani inguantate
che strangolavano l’innocenza.
Ma se si nascosero nella dimora del mio sangue,
perché non mi trascino fino all’amato
che muore dietro la mia tenerezza?
Perché non fuggo
e mi inseguo con coltelli
e deliro?
Di morte si è tessuto ogni istante.
Io divoro la furia come un angelo idiota
invaso di erbacce
che impediscono di ricordare il colore del cielo.
Ma loro ed io sappiamo
che il cielo ha il colore dell’infanzia morta.
Trad. Florinda Fusco
Abbiamo perso - Pablo Neruda
La signora Reece - Edgar Lee Masters
Sonata a solo per liuto - Saadi Youssef
L’orologio batté il decimo rintocco
batté le dieci l’orologio
scoccarono le dieci.
Oltre il campanile della chiesa una stella brillò e scomparve
un usignolo si dileguò tra i pini
nel verde miraggio della notte.
Entra nella mia casa ragazza
la casa è il mio santuario.
La chiesa è chiusa
i lumi spenti
i tovaglioli umidi di bevande.
2.
Nel sentiero del giardino
tacciono l’acqua, le foglie secche
e le ombre profonde.
Nel sentiero del giardino
non hanno cantato i passeri
il torrente sussurrante
non ha cantato per il giardino…
O Dio delle sillabe sommerse
dov’è, dov’è l’assonnata vibrazione dell’eco.
La sua mano nella mia
il giardino nel mio petto.
Trad. Fawzi El Delmi
William Shakespeare - Quante volte, o mia musica
28 luglio 2021
Ciò che ti offro - Jorge Luis Borges
Ti offro le amarezze di un uomo
che ha guardato a lungo la triste luna.
Ti offro i miei antenati, i miei morti,
i fantasmi a cui i viventi hanno reso onore col marmo:
il padre di mio padre ucciso sulla frontiera di Buenos Aires,
due pallottole attraverso i suoi polmoni, barbuto e morto,
avvolto dai soldati nella pelle di una mucca;
il nonno di mia madre – appena ventiquattrenne –
a capo di un cambio di trecento uomini in Perù,
ora fantasmi su cavalli svaniti.
Ti offro qualsiasi intuizione sia
nei miei libri, qualsiasi virilità o vita umana.
Ti offro la lealtà di un uomo
che non è mai stato leale.
Ti offro quel nocciolo di me stesso
che ho conservato, in qualche modo –
il centro del cuore che non tratta con le parole,
né coi sogni e non è toccato dal tempo,
dalla gioia, dalle avversità.
Ti offro il ricordo di una
rosa gialla al tramonto,
anni prima che tu nascessi.
Ti offro spiegazioni di te stessa,
teorie su di te, autentiche e sorprendenti notizie di te.
Ti posso dare la mia tristezza,
la mia oscurità, la fame del mio cuore;
cerco di corromperti con l’incertezza,
il pericolo, la sconfitta.
La luna - Jorge Luis Borges
Se mi chiamassi, sì - Pedro Salinas
Il corso di un particolare - Wallace Stevens
Sonetto dell'assenza - José Albi
Al risveglio - Rabindranath Tagore
Al risveglio ho trovato
con la luce una lettera.
Ma non posso sapere
che dice: non so leggere.
E non voglio distrarre
un sapiente dai libri:
ciò che c’è scritto forse
non lo saprebbe leggere.
La terrò sulla fronte,
la terrò stretta al cuore.
Quando scende la notte
ed escono le stelle,
la porterò sul grembo
e resterò in silenzio.
E me la leggeranno
le foglie che stormiscono,
e ne farà il ruscello
col suo scorrere un canto
che a me ripeterà
anche l’Orsa dal cielo.
Io non lo so trovare
quel che cerco, o capire
cosa dovrei imparare,
ma so che questa lettera
che non ho letto, ha reso
più lieve il mio fardello,
e tutti i miei pensieri
ha mutato in canzoni.
Ombra - Wisława Szymborska
La mia ombra è come un buffone
dietro la regina. Quando lei si alza,
il buffone sulla parete balza
e sbatte nel soffitto col testone.
Il che forse a suo modo duole
nel mondo bidimensionale.
Forse al buffone non va la mia corte
e preferirebbe un diverso ruolo.
La regina si sporge dal balcone
e dal balcone lui si butta giù.
Così hanno diviso ogni azione,
però a uno ne tocca assai di più.
Si è preso il merlo i gesti liberali,
il pathos con la sua impudenza
e tutto ciò per cui non ho la forza
- corona, scettro, mantello regale.
Lieve sarò, ah, nell´agitare il braccio,
ah, lieve nel voltare indietro il capo,
sire, nell´ora del nostro commiato,
sire, alla stazione ferroviaria.
Sire, in quel momento sarà il buffone
a sdraiarsi sui binari alla stazione.
Enzo Montano, ''Rămas-bun - Saluto'
Sunt amintiri care fug,
zadarnice-s încercările
de-a le opri
de-a le reține.
N-are rost a le urmări
durerea o să-înceteze
cum încetează memoria
amintirilor ce stau să fugă.
Amintiri lungi
cât o zi de martie lungă
sau cât o vară
care dansează cu vântul
și pleacă.
Și se risipesc
ca răsuflarea unui adio
într-o dimineață senină
de toamnă.
-traducere de Catalina Franco-
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Ci sono ricordi che fuggono,
vani sono i tentativi
di afferrarli
di trattenerli.
Inutile inseguirli
il dolore cesserà
come cessa la memoria
dei ricordi che vogliono fuggire.
Ricordi lunghi
quanto un giorno di marzo
o quanto l’estate
che danzano col vento
e si allontanano.
Si disperdono
come il fiato di un addio
in un bel mattino di sole
dell’autunno.
Enzo Montano
Grazie carissima Katy per quest'altra preziosa traduzione.
la lontananza - Juan Gelman
la lontananza - Juan Gelman
questo aroma di te/ sale?/scende?/
viene da te?/da me?/in che altro
mi dovrei trasformare?/che altro
di me/dovrei essere/
per sapere/vedere/i frammenti
di mondo che in silenzio unisci?/
così bruci distanze?/
mi restituisci al mio animale?/così
mi dai grandezza/o corpo
che invadi con la tua assenza?/
con il tuo sguardo che
non tornerà al tuo occhio/già febbre
senz’altro padrone che il cammino?/
sei qui/è come dire/tutto è qui/
il vuoto e l’unione/e tu/e la
disordinata solitudine/
la lejanía
este aroma de vos/¿sube?/¿baja?/
¿viene de vos?/¿de mí?/¿en qué otro
me debería convertir?/¿qué otro/
de mí/debiera ser/
para saber/ver/los pedazos
de mundo que en silencio juntás?/
¿así quemás distancias?/
¿me devolvés a mi animal?/¿así
me das grandeza/o cuerpo
que invadís con tu ausencia?/
¿con tu mirada que
a tu ojo no volverá/ya fiebre
sin otro dueño que el camino?/
estás aquí/es decir/todo está aquí/
el vacío y la unión/y vos/y la
desordenada soledad/
Notte - Juan Gelman
Notte - Juan Gelman
Fa freddo in questa zona del paese
dove non c’è il tuo corpo e c’è bisogno
del calore del tuo corpo e non mi sento
addolorato o pentito o triste ma
soltanto solo.
Sto seduto come un invalido nel deserto del
mio
desiderio di te.
Mi sono abituato a bere la notte lentamente,
perché so che la abiti, non importa dove, popolandola di sogni.
Il vento della notte abbatte stelle tremanti
fra le mie mani, che ancora non si adattano, vedove inconsolabili della tua
chioma.
Nel mio cuore si agitano gli uccellini che in
lui hai seminato e a volte gli darei la libertà che esigono per ritornare a te
con il gelido filo del coltello.
Ma non può essere. Perché sei tanto in me, tanto viva in me, che se morissi io, ti morirei.
da “Prima che tu dica” - Italo Calvino
da “Prima
che tu dica” - Italo Calvino
Vorrei portarti con me.
Resisteresti
poco, al freddo senza l’afa estiva ma sarebbe un’esperienza diversa, no? Poi ti
riporterei indietro, come è giusto che sia. Ma per un po’ ti porterei con me.
Ti
racconterei le cose che non avrò il tempo di finire di dirti. Solo per quello,
per trovare il modo che duri di più. Ti farei guardare il mare freddo, così
apprezzeresti il tuo. Ti farei una foto e la lascerei nel cassetto per le volte
che avrò voglia di guardarti con i capelli scompigliati e il sorriso accennato.
Mangeremmo e
dormiremmo poco perché non ci sarebbe il tempo; tutto quello che vorresti
cercherei di dartelo. Ti farei esprimere un desiderio e lo esaudirei. Solo uno,
perché tre non sarei capace.
Ti farei
almeno un paio di domande scomode, perché così ti fideresti di me; perché così,
se ti telefonassi almeno una volta, sussulteresti un pochino e quando deciderai
di andare via, ci sarà almeno una volta in cui vorrai tornare.
Vorrei che
ti fossi innamorata di me, per chiedermi di restare. Ma forse tu impieghi tanto
per innamorarti e allora è per questo che vorrei portarti con me: per farti
innamorare.
Verresti?
No, non
verrei. Perché dovrei?
Non credo
che mi riporteresti indietro, non voglio che tu faccia di tutto per me. Il
suono è simile a quello della tua voce, non della mia: vorrei che lo capissi e
te ne rendessi conto. Le tue parole sono esigenti e mi si stringono al cuore.
L’unisono tra di noi non funziona. Il moto di due anime in una non esiste. Non
vorrei foto di questo momento, né motivi per lasciare che non finisca. È
doloroso da ricordare. Cosa c’è di poetico in una sensazione moritura? Se lo
volessi, non farei in modo che arrivi la fine. Perché è questo il punto: io sto
facendo in modo che l’ultimo secondo di tutto accada, capisci? Permettimi di
dire di no. Permettimi di non esserti accanto. Permettimi di decidere di non
esserci come vuoi tu.
Pensare che
sia per due, per renderti i pensieri più facili; lo sai che mi stai raccontando
una bugia mentre mi chiedi ‘verresti?‘
Certo che lo
sai.
Venire? Cosa
potrebbe dire? Cosa saremmo?
La mia
automobile scivola da sola verso casa mentre rileggo le tue parole. Cerco di
trovare interpretazione, tentando di valicare le frasi così come sono – cunei –
e trovarci l’intenzione inespressa di dire dell’altro. Cerco titubanze,
virgole, mi soffermo sui dettagli. Ma io di dettagli non capisco nulla. Non so
come sono fatti, in verità.
Potrei
rimanere attaccato alla balaustra a due mani, mangiare tutte le merendine della
macchinetta accanto all’ingresso del gate pur di restare a guardare il fiume da
un lato e la strada dall’altro.
Fissare
l’asfalto fino a farmelo entrare negli occhi e bucarmeli per non vedere la via
di casa: questo dovrebbe accadere affinché io vada via da qui e mi rassegni
alle tue parole. Credevo di non essere capace di rimanere in silenzio a
guardare. Sono solito pensare di me cose molto positive: grande cuore, grande testa,
spirito d’iniziativa, forte indipendenza; pensavo di non essere capace di
restare a guardare inerme.
È una di
quelle circostanze che non si addicono agli spiriti vincenti. È come ammettere
di avere un buco scoperto e lasciare che qualcuno ci infili un dito dentro,
stracciando carne e tessuti, graffiando vasi, fino a tingere di rosso i vestiti
e non poter, così, celare l’affanno.
Eppure io
sono un tipo sveglio, non mi lascio abbindolare facilmente; ho sempre saputo
tenerle a distanza e prosciugarne il necessario. Ecco, sì: non sono mai andato
al di là del necessario con quasi nulla. Solo di foglie d’albero ne ho troppe,
perché ne faccio collezione.
Ne ho
mangiate molte di merendine della macchinetta ma adesso, alla guida, con le
mani poco convinte e smaniose, non ne ricordo il sapore singolo e anche gli
incartamenti mi paiono tutti uguali. Non posso distinguere il caramello dal
fiordilatte e questi dal cioccolato: ho un solo amalgama appiccicaticcio nella
bocca.
Mi sembra
strano sentirmi così sopra le righe. Mi sembra strano, ancora, sentire quegli
occhi addosso. I tuoi e i miei insieme, che erano altro, lo sono stato lo so,
lungo il fiume e poi sono irrimediabilmente scomparsi dopo un battito di
ciglia. Un movimento fisiologico ne ha decretato la fine ed io lo vado cercando,
adesso, mentre mi dirigo verso casa, seguo la scia per provare a seguirti.
Che pena.
Sperare, intendo. È la pena di chi non sa rinunciare.
Non so
raccontare una volta in cui tu mi avevi detto di essere felice, in effetti. E
nemmeno una volta in cui te l’ho detto io, d’altronde. Non credo minimamente di
esserti venuto incontro per davvero, con foga ed eccitazione, per abbracciarti
di sorpresa.
Non mi viene
in mente la prima volta che t’ho visto. So quand’è, con precisione, perché io
ero al bancone di un bar con una ragazza che mi piaceva molto. E che ho
abbracciato con slancio e voluto tante di quelle volte da essermene invaghito e
addirittura innamorato a un certo punto.
Ricordo
d’averti preso in consegna nella mia mente, ma non d’averti visto. Non so
nemmeno com’eri vestita. So solo che ti sei passata una mano tra i capelli, il
gesto più comune che si possa recuperare nella memoria. Eppure io l’ho
registrato. In realtà potrebbe essere falso. Potrei aver traslato la mano di un
altro sulla tua e adesso cucirti addosso un movimento che non t’è appartenuto.
Avevi un
braccialetto che si compra al mare, di quelli di cotone colorato, che dicono
porti fortuna e poi, un giorno, si spezzi per far avverare un desiderio. Di
quelli che hanno tutti, eccetto me, poiché io non li sopporto: rimangono
bagnati per ore, dopo la doccia, ed umidi sulla pelle.
Mi sono
chiesto quale potesse essere il tuo desiderio. È la prima cosa su cui mi sono
interrogato guardandoti quella volta e pensandoti i giorni successivi. Se tu
avessi un desiderio sopra tutti, se fosse legato a quel braccialetto o a un
sentimento. Ho sentito il bisogno di saperlo, come se fosse il tuo nome.
Avevi anche
un anello costoso. Sottile, ma prezioso. Un anello facile, che non sorprende se
lo regali. Non so perché l’avessi notato. Niente a che vedere coi tuoi occhi,
mi rendo conto. A chiunque avessi chiesto di te nei giorni seguenti, continuavo
a dire di non avere in mente i tuoi occhi: eppure sono meravigliosi. Non mi
viene un’altra parola in mente. Dovrei inventarla ma non sono capace, tu lo
sai. Posso fartelo intuire ma non so spiegarlo.
Non capisco
perché non me li sono incollati addosso. Avevo notato di te solo i dettagli
peggiori fra tutti gli altri; ciononostante ti cercavo già il giorno dopo.
Mentre passeggiavo sotto casa tua, nelle sere a seguire, speravo di notare i
tuoi movimenti alla finestra oppure con chi saresti uscita. Desideravo vederti
da sola, che, una volta sull’uscio, ti guardassi intorno e vedendomi rimanessi
piacevolmente compiaciuta.
Avrei voluto
essere io nei tuoi sogni, a ispirare i tuoi sonni e farti felice. Ma lo so di
non potere. Eppure questa consapevolezza non m’ha fatto smettere di volerti
portare via con me.
Non capisco.
Non capisco cosa vuoi dire. Mi pare assurdo che tu pensi di poter amarmi.
Quanto abbiamo passato insieme? Non capisco perché tu voglia portarmi con te.
Non sai nulla.
Ti ho rubato
anche un sorriso triste quella sera. È andata così: io ti ho guardata per un
momento, mentre ti passavi le mani nei capelli, e stavi sorridendo, ma non alla
persona con cui parlavi. Sorridevi, rivolta verso il basso come per un pensiero
veloce da far svanire. E, rivolto di nuovo il tuo volto verso l’alto, ti ho
sorpresa triste, come se quel pensiero felice andasse celato.
Sorridi solo
quando qualcuno o qualcosa ti fa ridere, ma non dovresti. A me piace, ma non
dovresti. La felicità pare si auguri a tinte pastello e così mi tocca fare, con
te, adesso: cercare di farti togliere dal viso i tuoi sorrisi tristi, come ho
sempre fatto, d’altronde.
Potremmo
essere in giro a passeggiare in una città qualunque, col caldo, mano nella mano
e io dovrei accorgermi del tuo sorriso triste e allora darti un bacio o
prenderti il viso e farti fare una smorfia che mimi la gioia. Sorrideresti e il
mio desiderio di felicità per te sarebbe compiuto. La verità è che i tuoi
sorrisi tristi a me piacciono, perché a te stanno bene, perché li sai trattare,
li sai adoperare e mettere in fila senza che rompano le righe. Se lo facessi io
sarei penoso.
Questo è il
punto: faccio pensieri e desidero cose nuove. Non importa cosa so. Per la prima
volta, non importa.
Non so da
dove vengono o come si chiamino e non potrei spiegarle a nessuno eccetto te,
con un po’ di tempo, con un po’ di pause, con quei silenzi che non saprei
riempire, all’inizio. Ma potrei imparare.
Sono un
pessimo romantico, lo ammetto. È per questo che non sono riuscito a farti
innamorare. Lo so che è così. Ho immaginato che potessi bastare io, con i miei
modi normali e l’aria spavalda. Fintamente sicura. E del tempo, per spiegarti
quello che manca, per farti vedere che ne sarebbe valsa la pena, alla fine.
Ho provato,
che dire, a farmi scegliere. Ho sperato. Dovevo. Era una possibilità, capisci?
Come fare a metterla via, a dimenticarla. Forse aspettando, forse non era il
momento. Forse io e te abbiamo un altro tempo. Sono sicuro che con qualche
giorno in più, ora in più, ti avrei portato via con me. È l’idea che almeno una
volta succeda, no? Hai presente? Quell’idea invasiva e sotterranea che si
inabissa o si palesa e lo fa una volta sola per tutte e se l’avverti non puoi
far finta di niente se hai un po’ di senno.
Come un
sibilo fluttuante e sinuoso.
A me è
successo questo: non sono riuscito a fare finta di niente, non volevo, in
fondo. Non potevo far altro che cercare di portarti con me, dal profondo, per
egoismo quasi, per farmi stare bene. Anche se sapevo di non potere. Anche se
era rischioso. Anche se tu non vuoi, anche se, infine, la tua felicità non dipende
da me.
E non posso
fare a meno di chiedertelo di nuovo. Solo per essere sicuro.
Verresti?
Bonaccia – Ernest Hemingway
Bonaccia – Ernest Hemingway
Il mare desidera scafi profondi…
Si gonfia e s’inarca.
L’elica pulsa e lo fa ribollire…
Spinge, vibra, s’avvita.
Il mare trabocca di passione,
Fluttuante, carezzevole,
Dimenando il gran ventre amoroso.
Antico e grande è il mare…
Le navi martellanti non ricambiano il suo amore.
Parigi, circa 1922
Spiegazione necessaria – Ghiannis Ritsos
Spiegazione necessaria – Ghiannis Ritsos
Ci sono
versi – a volte poesie intere –
che
neanch’io so cosa voglion dire.
Quello che
non so mi trattiene ancora.
E tu hai
ragione a chiedere.
Ma non
chiedere a me.
Ti ho detto
che non so.
Due luci
parallele
dallo stesso
centro. Il rumore dell’acqua
che cade,
d’inverno, dalla grondaia colma
o il rumore
di una goccia che stilla
da una rosa
nel giardino annaffiato
lentamente,
lentamente, una sera primaverile
come il
singhiozzo di un uccello.
Non so cosa
vuol dire questo rumore; e tuttavia l’accetto.
Le cose che
so te le spiego. Non mi dimentico.
Ma anche
queste cose aggiungono qualcosa
alla nostra
vita. La guardavo
mentre
dormiva, il ginocchio piegato ad angolo
sul lenzuolo
–
Non era solo
l’amore. Questo angolo
era il
crinale della tenerezza, e il profumo
del
lenzuolo, di pulito e di primavera completavano
quell’inspiegabile
che ho tentato, ancora
inutilmente,
di spiegarti.
La disperazione di Penelope – Ghiannis Ritsos
Non è che non lo riconobbe alla luce del focolare;
non erano
gli stracci da mendicante, il travestimento – no;
segni evidenti:
la cicatrice sul ginocchio, il vigore, l’astuzia nello
sguardo. Spaventata,
la schiena appoggiata alla parete, cercava una scusa,
un rinvio, ancora un po’ di tempo, per non rispondere,
per non tradirsi. Per lui, dunque, aveva speso vent’anni,
vent’anni di attesa e di sogni, per questo miserabile
lordo di sangue e dalla barba bianca? Si accasciò muta
su una sedia,
guardò lentamente i pretendenti uccisi al suolo, come
se guardasse
morti i suoi stessi desideri. E “Benvenuto” disse,
sentendo estranea, lontana la propria voce. Nell’angolo
il suo telaio
proiettava ombre di sbarre sul soffitto; e tutti gli uccelli
che aveva tessuto
con fili vermigli tra il fogliame verde, a un tratto,
in quella notte del ritorno, diventarono grigi e neri
e volarono bassi sul cielo piatto della sua ultima pazienza.
25 luglio 2021
Da Parola carnale – Ghiannis Ritsos
Da Parola carnale – Ghiannis Ritsos
Sei tornata
ridendo dal mercato, carica
di pane,
frutta e un’infinità di fiori. Sui tuoi capelli, vedo,
ha passato
le dita il vento. Non lo amo il vento;
te lo
ripeto. E poi, che te ne fai di tanti fiori? Quali fra tutti,
tra l’altro,
ti regalò il fiorista? E magari nello specchio
del suo
negozio è rimasta la tua immagine illuminata di lato
con una
macchia blu sul mento. Non li amo i fiori. Sul tuo seno
un fiore
grande quanto un giorno intero. Siedi dunque di fronte a me;
voglio
guardare tutto solo come pieghi il ginocchio, e star lì a fumare
Finché cada
la notte misteriosa e s’alzi magnetica sul nostro letto
una luna
popolare da sabato sera, col violino, il salterio e un clarinetto.
Non avevo da aggiungere - Ghiannis Ritsos
Non avevo da aggiungere - Ghiannis Ritsos
Non avevo da
aggiungere
altro verso,
altra
parola.
Nel tuo
corpo vivevo
tutta la
poesia
Parola Carnale 10 – Ghiannis Ritsos
Parola Carnale – Ghiannis Ritsos
10
Tutti i corpi che ho toccato, che ho visto, che ho preso, che ho
sognato, tutti
sono addensati nel tuo corpo. O, tu
carnale Diotima
nel gran simposio dei Greci. Se ne
sono andate le flautiste,
se ne sono andati filosofi e poeti. I
begli efebi dormono già
lontano, nei dormitori della luna. Tu
sei sola
nella preghiera che levo. Un sandalo
bianco
dai lunghi lacci bianchi è legato alla
gamba della sedia. Sei l’oblio assoluto;
sei il ricordo assoluto. Sei la non
incrinata fragilità. Fa giorno.
Fichi d’India carnosi scagliati dalle
rocce. Un sole rosa
immobile sul mare di Monemvasià. La
nostra duplice ombra
si dissolve alla luce sul pavimento di
marmo pieno di sigarette calpestate,
coi mazzetti di gelsomini infilati
negli aghi di pino. O, carnale Diotima,
tu che mi hai partorito e che ho
partorito, è ora
che partoriamo azioni e poesie, che
usciamo nel mondo. Davvero, non scordare
quando vai al mercato di comprare mele
in abbondanza,
non quelle d’oro delle Esperidi, ma
quelle grosse e rosse, che quando affondi
nella polpa croccante i tuoi splendidi
denti resta impresso,
come un’eternità sui libri, pieno di
vita il tuo sorriso.
Trad. Nicola Crocetti