Orfeo e Eurídice - P.P. Rubens
Il ritorno di Euridice - Gesualdo Bufalino
Era stanca. Poiché c’era da aspettare, sedette su
una gobba dell’argine, in vista del palo dove il barcaiolo avrebbe legato
l’alzaia. L’aria era del solito colore sulfureo, come d’un vapore di marna o di
pozzolana, ma sulle sponde s’incanutiva in fiocchi laschi e sudici di bambagia.
Si vedeva poco, faceva freddo, lo stesso fiume non pareva scorrere ma
arrotolarsi su se stesso, nella sua pece pastosa, con una pigrizia di serpe. Un
guizzo d’ali inatteso, un lampo nero, sorse sul pelo dell’acqua e scomparve.
L’acqua gli si richiuse sopra all’istante, lo inghiottì come una gola. Chissà,
il volatile, com’era finito quaggiù, doveva essersi imbucato sottoterra dietro
i passi e la musica del poeta.
“Il poeta”... Era così che chiamava il marito
nell’intimità, quando voleva farlo arrabbiare, ovvero per carezza, svegliandosi
al suo fianco e vedendolo intento a solfeggiare con grandi manate nel vuoto una
nuova melodia. “Che fai, componi?” Lui non si sognava di rispondere, quante
arie si dava. Ma com’era rassicurante e cara cosa che si desse tante arie, che
si lasciasse crescere tanti capelli sul collo e li ravviasse continuamente col
calamo di giunco che gli serviva per scrivere; e che non sapesse cuocere un
uovo... Quando poi gli bastava pizzicare due corde e modulare a mezza voce
l’ultimo dei suoi successi per rendere tutti così pacificamente,
irremissibilmente felici...
“Poeta”... A maggior ragione, stavolta. Stavolta lei
sillabò fra le labbra la parola con una goccia di risentimento. Sventato d’un
poeta, adorabile buonannulla... Voltarsi a quel modo, dopo tante
raccomandazioni, a cinquanta metri dalla luce... Si guardò i piedi, le facevano
male. Se mai possa far male quel poco d’aria di cui sono fatte le ombre.
Non era delusione, la sua, bensì solo un quieto,
rassegnato rammarico. In fondo non aveva mai creduto sul serio di poterne
venire fuori. Già l’ingresso – un cul di sacco a senso unico, un passo dalle
pareti di ferro – le era parso decisivo. La morte era questo, né più né meno,
e, precipitandovi dentro, nell’attimo stesso che s’era aggricciata d’orrore
sotto il dente dello scorpione, aveva saputo ch’era per sempre, e che stava nascendo
di nuovo, ma alla tenebra e per sempre. Allora s’era avvinta agli uncini malfermi
della memoria, s’era aggrappata al proprio nome, pendulo per un filo all’estremità
della mente, e se lo ripeteva, Euridice, Euridice, nel mulinello vorticoso, mentre
cascava sempre più giù, Euridice, Euridice, come un ulteriore obolo di
soccorso, in aggiunta alla moneta piccina che la mano di lui le aveva nascosto
in bocca all’atto della sepoltura.
Tu se’
morta, mia vita, ed io respiro?
Tu se’ da
me partita
per mai
più non tornare ed io rimango?
Così aveva gorgheggiato lui con la cetra in mano e
lei da quella monodia s’era sentita rimescolare. Avrebbe voluto gridargli
grazie, riguardarselo ancora amorosamente, ma era ormai solo una statuina di
marmo freddo,con un agnello sgozzato ai piedi, coricata su una pira di fascine
insolenti. E nessun comando che si sforzasse di spedire alle palpebre, alle
livide labbra, riusciva a fargliele dissuggellare un momento. Della nuova vita,
che dire? E delle nuove membra che le avevano fatto indossare? Tenui, ondose,
evasive come veli...
Poteva andar meglio, poteva andar peggio. I giochi
con gli aliossi, le partite di carte a due, le ciarle donnesche con Persefone
al telaio; le reciproche confidenze a braccetto per i viali del regno, mentre
Ade dormiva col capo bendato da un casco di pelle di capro... Tutto era
servito, per metà dell’anno almeno, a lenire l’uggia della vita di guarnigione.
Ma domani, ma dopo?
[...]
Ricapitolò la sua storia, voleva capire.
A ripensarci, s’era innamorata di lui tardi e di
controvoglia. Non le garbava, all’inizio, che le altre donne gli corressero
dietro a quel modo, insieme alle bestie, alle belve. Doveva essere un mago, quell’uomo,
un seduttore d’orecchi, un accalappiatopi da non fidarsene. Con l’eterno
strumento a tracolla, la guardata indiscreta, la parola ciarlatana. Poi, una
sera di molta luna, trovandosi in un
boschetto ad andare, trasognata secondo il suo
costume, coi piedi che le passeggiavano qua e là, temerari con tante angui
latenti nell’erba, a un certo punto, dentro il fitto d’alberi dove s’era cercata
una cuccia di buio, un filo di musica s’era infilato, via via sempre più teso e
robusto, fino a diventare uno spago invisibile che la tirava, le circondava
le membra, gliele liquefaceva in un miele umido e
tiepido, in un rapimento e mancamento assai simile al morire. Né s’era svegliata
prima che le grosse labbra di lui,la potenza di lui, le si fossero ritirate lentamente
di dosso.
Lo amò, dunque. E le nozze furono di gala, con
portate a non finire e crateri di vino nero. Turbate da un solo allarme
irrisorio: quella torcia che, sebbene Imene l’agitasse con entrambe le mani,
non s’avvivava ma continuava a eruttare tutt’intorno pennacchi di brutto fumo.
Dopo di che c’erano stati giorni e notti celesti.
Lui sapeva parole che nessun altro sapeva e gliele soffiava fra i capelli, nei
due padiglioni di carne rosea, come un respiro recondito, quasi inudibile, che
però dentro di lei cresceva subito in tuono e rombo d’amore. Era un paese di
nuvole e fiori, la Tracia dove abitavano, e lei non ne ricordava nient’altro,
nessuna sodaglia o radura o petraia, solo nuvole in corsa sulla sua fronte e manciate
di petali, quando li strappava dal terreno coi pugni, nel momento del piacere. Giaceva
con lui sotto un’ampia coppa di cielo, su un letto di foglie e di vento,
mirando fra le ciglia in lacrime profili d’alberi vacillare, udendo un frangente
lontano battere la scogliera, una cerva bramire nel sottobosco. Si asciugava
gli occhi col dorso della mano, li riapriva. Lui glieli chiudeva con un dito e
cantava. Ecco già si fa sera, ora negli orti l’oro dei vespri s’imbruna, la
luna s’elargisce dai monti, palpita intirizzita fra le dita verdi dell’araucaria...
Euridice, Euridice! E lei gli posava la guancia sul petto, vi origliava uno
stormire di radici, e battiti, anche, battiti lunghi d’un cuore d’animale o di dio.
Lo aveva amato. Anche se presto aveva dubitato
d’esserne amata altrettanto. Troppe volte lui s’eclissava su per i gioghi del
Rodope in compagnia d’un popolo di fanciulli che portavano al polso una
fettuccia rossa; o scendeva giù a valle, verso la marina, pavoneggiandosi del
suo corteo d’usignoli stregati, stregato lui stesso dalle cantilene che gli
nascevano. Senza dire mai dove andava, senza preoccuparsi di lasciarla a corto di
provviste, deserta d’affetto, esposta ai salaci approcci di un mandriano del
vicinato. Si fosse degnato di adontarsene, almeno, di fare una scenata. Macché.
Si limitava, tanto per la forma, a intonare un lamento dell’amor geloso, di
cui, dopo un minuto, s’era già scordato. Quand’è così, una si disamora, si lascia
andare, sicché, negli ultimi tempi, lei s’era trascurata, si faceva vedere in
giro con le chiome secche, ma
le truccata, con la pelle indurita dai rovi, dalle
tramontane. E sebbene ad Aristeo rispondesse sempre no e poi no, non lo diceva
con la protervia di prima, ma blandamente, accettandone, addirittura, ora una
focaccia di farro, ora un rustico mazzolino. Salvo a scappare, appena quello
dimostrasse cupamente nei pomelli qualche porpora di vino o di desiderio.
Finché era morta così, mentre gli scappava davanti, pestando con piante veloci
la mala striscia nell’erba.
Maledetta erba... Il pensiero le si volse di nuovo
a Persefone. Un fiore di ragazza, ma sfortunata. Che anche lei s’era messa nei
guai per volere andare a spasso nei prati. Un’amica a mezzo servizio,
purtroppo, ma così bella quando tornava dalle ferie, abbronzata, con le braccia
colme di primavera, di ligustri e fasci, di giacinti, amaranti, garofani... E
se li metteva fra i capelli, quell’ora o due che duravano; indi nei portafiori,
dove s’ostinava a innaffiarli con acqua di Stige, figurarsi; decidendosi a buttarli
nell’immondizia solo quando decisamente puzzavano...
Sfortunata ragazza. Cara, tuttavia, a uno sposo, a
una madre. E che poteva permettersi di viaggiare, di alternare gli asfodeli con
i narcisi, i coniugali granelli di melagrana con le focose arance terrene, di
essere a un tempo gelo e vampa, orbita cieca e raggiante pupilla, femmina una e
dea trina!... Un clamore la riscosse. La barca era apparsa di colpo, correva
sulla cima dei flutti come per il repentino puntiglio di un conducente in
ritardo. E dalla riva le anime applaudivano,
squittivano, tendevano le mani, qualcuno lanciava segnali impugnando un tizzone
acceso. Euridice si levò in piedi a guardare. La scena era, come dire, infernale.
Con quella prora in arrivo sulle onde bigie, e questi riverberi di fuoco nebbioso,
sotto cui la folla sembrava torcersi, moltiplicarsi. E si protendevano tutti, pronti
a balzare. La chiatta fu subito piena, straripava di passeggeri, stretti
stretti, con le braccia in alto per fare più spazio. Un grappolo di esclusi
tentò ancora un assalto,
afferrandosi a una gomena. Ricaddero in acqua,
riemersero a fatica, fangosamente. Un posto solo era rimasto vuoto, proibito,
uno stallo di legno accanto al vecchio nocchiero.
“Euridice, Euridice!” chiamò il vecchio nocchiero. Riaprì
gli occhi. Una lingua d’acqua fredda le lambiva le caviglie. La barca era immobile,
ora, beccheggiava a metà della corrente. Vide davanti a sé la schiena nuda e curva
del vecchio, ispida di peli bianchi. Da un buco del fasciame una lingua d’acqua
era entrata e il vecchio era curvo a vuotarla e ad incerare la falla. Che barca
vecchia. Quante cicatrici, sulla vela, e
rammendi d’ago maldestro. “Ero più brava io, a cucire”, pensò. “Sono stata una
buona moglie. Lo amavo, il poeta. E lui, dopotutto, mi amava. Non avrebbe, se
no, pianto tanto, rischiato tanto per voragini e dirupi, fra Mani tenebrosi e
turbe di sogni dalle unghie nere. Non avrebbe guadato acque, scalato erte, ammansito
mostri e Moire, avendo per so la armatura una clamide di lino, e una semplice
fettuccia rossa legata al polso. Né avrebbe saputo spremere tanta dolcezza di suoni
davanti al trono dell’invisibile Ade...”
Il peso contro il costato doleva, ora, ma lei non
ne aveva più paura, sapeva cos’era. Era una smemoratezza che le doleva, di un
particolare dell’avventura recente, una minuzia che aveva o visto o intuito o
capito in un baleno e che il Lete s’era provvisoriamente portato via. Come una
rivelazione da mettere in serbo per ricordarsene dopo. Se ne sarebbe ricordata
a momenti, certo, appena la sorsata di Lete avesse finito di sciogliersi, innocua
ormai, nel dedalo delle sue vene. Era questa la legge, anche se lei avrebbe
preferito un oblio di tutto e per sempre, al posto
di questa vicenda di veglie e stupori, di queste temporanee vacanze della
coscienza: come chi, sonnambulo, lascia il suo capezzale e si ritrova sull’orlo
d’un cornicione...
Ripensò al suo uomo, al loro ultimo incontro. Ci ripensò
con fierezza. Poiché il poeta, era venuto qui per lei, e aveva sforzato le porte
con passo conquistatore, e aveva piegato tutti alla fatalità del suo canto.
Perfino Menippeo, quel buffone, quel fool, aveva smesso di sogghignare, s’era
preso il calvo capo fra le mani e piangeva, fra le sue bisacce di fave e
lupini. E Tantalo aveva cessato di cercare con la bocca le linfe fuggiasche,
Sisifo di spingere il macigno per forza di poppa... E la ventosa ruota di Issione,
eccola inerte in aria, come un cerchio d’inutile piombo. Un eroe, un eroe
padrone era parso. E Cerbero gli s’era accucciato
ai piedi, a leccargli con tre lingue i sandali stanchi... Ade dalla sua nube
aveva detto di sì. Rivide il sèguito: la corsa in salita dietro di lui, per un
tragitto di sassi e spine, arrancando col piede ancora zoppo del veleno
viperino. Felice di poterlo vedere solo di spalle, felice del divieto che
avrebbe fatto più grande la gioia di riabbracciarlo fra poco...
Quale Erinni, quale ape funesta gli aveva punto la
mente, perché, perché s’era irriflessivamente voltato?
“Addio!” aveva dovuto gridargli dietro, “Addio!”,
sentendosi la verga d’oro di Ermete picchiare piano sopra la spalla . E così,
risucchiata dal buio, lo aveva visto allontanarsi verso la fessura del giorno,
svanire in un pulviscolo biondo... Ma non sì da non sorprenderlo, in
quell’istante di strazio, nel gesto di correre con dita urgenti alla cetra e di
tentarne le corde con entusiasmo professionale... L’aria non li aveva ancora
divisi che già la sua voce baldamente intonava “Che farò senza Euridice?”, e
non sembrava che improvvisasse, ma che a lungo avesse studiato davanti a uno
specchio quei vocalizzi e filature, tutto già bell’e pronto, da esibire al
pubblico, ai battimani, ai riflettori della ribalta...
La barca era tornata ad andare, già l’attraccos’intravedeva
fra fiocchi laschi e sporchi di bruma. Le anime stavano zitte, appiccicate fra
loro come nottole di caverna. Non s’udiva altro rumore che il colpo uguale e solenne
dei remi nell’acqua. Allora Euridice si sentì d’un tratto sciogliere
quell’ingorgo nel petto, e trionfalmente, dolorosamente capì: Orfeo s’era
voltato apposta.
Nessun commento:
Posta un commento