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11 luglio 2017

da Elena – Ghiannis Ritsos

foto di Andre Govia
da Elena – Ghiannis Ritsos

(…)
In questa casa il vento si è fatto impetuoso e inspiegabile, forse
per la presenza così naturale dei morti. Un baule
si apre da solo, ne escono vecchi abiti da donna, frusciano, assumono posizione eretta,
passeggiano in silenzio; due frange dorate restano sul tappeto; una tenda
si scosta; – non si vede nessuno – eppure c’è; una sigaretta
brucia da sola nel posacenere con brevi intermittenze; – chi
ve l’ha messa si trova nell’altra stanza, ha l’aspetto un po’ goffo,
è voltato di spalle, guarda verso il muro, probabilmente una ragnatela
o una macchia d’umidità – così, verso il muro, perché non si noti
l’incavo oscuro sotto gli zigomi rilevati.

I morti non ci danno più pena ormai – ed è strano – non è vero? –
non tanto per loro, quanto per noi – questa loro neutrale familiarità
nei confronti di uno spazio che li ha respinti e per cui non contribuiscono più
né alle spese di manutenzione né all’ansia per il suo sfacelo,
loro, realizzati e immutabili, solo appena un po’ più grandi.

È questo che ci sorprende a volte – l’ipertrofia dell’immutabile
e la silenziosa autosufficienza dei morti – per niente altera; non si adoperano
per importi il loro ricordo, per piacerti. Le donne
lasciano che il ventre si afflosci, che le calze cadano alle caviglie; prendono
gli spilli dalla scatola d’argento; li appuntano a uno a uno
in due file regolari sul velluto del divano; poi li raccolgono
e ricominciano di nuovo con la stessa cura gentile. Qualcuno arriva
dal corridoio; è altissimo; – batte la fronte sullo stipite;
non fa una smorfia – né si è sentito il colpo.
Sì, anche i morti insensati quanto noi; soltanto più tranquilli. Un altro
leva la mano con solennità, come per benedire qualcuno,
coglie un cristallo dal lampadario, se lo porta alla bocca
con naturalezza, come un frutto di vetro – ti sembra stia per addentarlo, che stia per  ridare vita
a una funzione umana; – no; lo tiene tra i denti
perché il cristallo scintilli di bagliori vani. Una donna
prende dal vasetto rotondo e bianco la crema per il viso
col gesto esperto delle due dita, e scrive
sul vetro della finestra due grosse maiuscole – una sorta di E e di T; –
il sole scalda il vetro, la crema si scioglie, gocciola sul muro –
e tutto ciò non significa niente – due piccoli solchi unti.

Non so perché i morti restino qua dentro, senza la compassione di nessuno; non so che cosa vogliano
e perché si aggirino per le stanze vestiti a festa, con le scarpe buone
lustrate e lisce, eppure senza far rumore, quasi senza posare i piedi a terra.
Occupano posto, si sdraiano dove capita, sulle due sedie a dondolo,
sul pavimento o in bagno; si scordano il rubinetto che gocciola;
si scordano le saponette profumate che si squagliano nell’acqua. Le domestiche,
passando in mezzo a loro e spazzando con la grande scopa,
non ne avvertono la presenza. Soltanto, a volte, il riso di un’ancella
appare un po’ forzato – non vola in alto, non fugge dalla finestra,
come un uccello legato per una zampa con lo spago, che qualcuno trattiene in basso.

Allora  le ancelle si infuriano con me senza ragione, gettano la scopa
qui, in mezzo alla mia stanza, se ne vanno in cucina; – sento che
preparano grandi bricchi di caffè, rovesciano lo zucchero per terra –
lo zucchero scricchia sotto le loro scarpe; l’odore del caffè
attraversa il corridoio, inonda la casa, si riflette nello specchio
come un viso sciocco, bruno, impudente, dai ciuffi spettinati,
con due orecchini azzurri falsi; alita sullo specchio,
appanna il vetro. Sento la mia lingua frugare in bocca;
sento che ho ancora saliva. “Un caffè anche per me”, grido alle ancelle;
“un caffè” (chiedo solo un caffè, nient’altro). Quelle
fingono di non sentire. Grido un’altra volta e un’altra ancora
senza collera o amarezza. Non rispondono. Le sento bere il caffè
nelle mie tazzine di porcellana con il bordo dorato
e gli esili fiorellini viola. Taccio e guardo
quella scopa gettata sul pavimento come il cadavere irrigidito
di quel garzone dell’ortolano, alto e magro, che molti anni fa
mi mostrava dall’inferriata del giardino il suo grosso fallo.
(…)

da Elena - Traduzione di Nicola Crocetti - Quarta dimensione

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