foto di Andre Govia
da Elena – Ghiannis Ritsos
(…)
In questa
casa il vento si è fatto impetuoso e inspiegabile, forse
per la
presenza così naturale dei morti. Un baule
si apre da
solo, ne escono vecchi abiti da donna, frusciano, assumono posizione eretta,
passeggiano
in silenzio; due frange dorate restano sul tappeto; una tenda
si scosta; –
non si vede nessuno – eppure c’è; una sigaretta
brucia da
sola nel posacenere con brevi intermittenze; – chi
ve l’ha
messa si trova nell’altra stanza, ha l’aspetto un po’ goffo,
è voltato di
spalle, guarda verso il muro, probabilmente una ragnatela
o una
macchia d’umidità – così, verso il muro, perché non si noti
l’incavo
oscuro sotto gli zigomi rilevati.
I morti non
ci danno più pena ormai – ed è strano – non è vero? –
non tanto
per loro, quanto per noi – questa loro neutrale familiarità
nei
confronti di uno spazio che li ha respinti e per cui non contribuiscono più
né alle
spese di manutenzione né all’ansia per il suo sfacelo,
loro,
realizzati e immutabili, solo appena un po’ più grandi.
È questo che
ci sorprende a volte – l’ipertrofia dell’immutabile
e la
silenziosa autosufficienza dei morti – per niente altera; non si adoperano
per importi
il loro ricordo, per piacerti. Le donne
lasciano che
il ventre si afflosci, che le calze cadano alle caviglie; prendono
gli spilli
dalla scatola d’argento; li appuntano a uno a uno
in due file
regolari sul velluto del divano; poi li raccolgono
e
ricominciano di nuovo con la stessa cura gentile. Qualcuno arriva
dal
corridoio; è altissimo; – batte la fronte sullo stipite;
non fa una
smorfia – né si è sentito il colpo.
Sì, anche i
morti insensati quanto noi; soltanto più tranquilli. Un altro
leva la mano
con solennità, come per benedire qualcuno,
coglie un
cristallo dal lampadario, se lo porta alla bocca
con
naturalezza, come un frutto di vetro – ti sembra stia per addentarlo, che stia
per ridare vita
a una
funzione umana; – no; lo tiene tra i denti
perché il
cristallo scintilli di bagliori vani. Una donna
prende dal
vasetto rotondo e bianco la crema per il viso
col gesto
esperto delle due dita, e scrive
sul vetro
della finestra due grosse maiuscole – una sorta di E e di T; –
il sole scalda
il vetro, la crema si scioglie, gocciola sul muro –
e tutto ciò
non significa niente – due piccoli solchi unti.
Non so
perché i morti restino qua dentro, senza la compassione di nessuno; non so che
cosa vogliano
e perché si
aggirino per le stanze vestiti a festa, con le scarpe buone
lustrate e
lisce, eppure senza far rumore, quasi senza posare i piedi a terra.
Occupano
posto, si sdraiano dove capita, sulle due sedie a dondolo,
sul
pavimento o in bagno; si scordano il rubinetto che gocciola;
si scordano
le saponette profumate che si squagliano nell’acqua. Le domestiche,
passando in
mezzo a loro e spazzando con la grande scopa,
non ne
avvertono la presenza. Soltanto, a volte, il riso di un’ancella
appare un
po’ forzato – non vola in alto, non fugge dalla finestra,
come un
uccello legato per una zampa con lo spago, che qualcuno trattiene in basso.
Allora le ancelle si infuriano con me senza ragione,
gettano la scopa
qui, in
mezzo alla mia stanza, se ne vanno in cucina; – sento che
preparano
grandi bricchi di caffè, rovesciano lo zucchero per terra –
lo zucchero
scricchia sotto le loro scarpe; l’odore del caffè
attraversa
il corridoio, inonda la casa, si riflette nello specchio
come un viso
sciocco, bruno, impudente, dai ciuffi spettinati,
con due
orecchini azzurri falsi; alita sullo specchio,
appanna il
vetro. Sento la mia lingua frugare in bocca;
sento che ho
ancora saliva. “Un caffè anche per me”, grido alle ancelle;
“un caffè”
(chiedo solo un caffè, nient’altro). Quelle
fingono di
non sentire. Grido un’altra volta e un’altra ancora
senza
collera o amarezza. Non rispondono. Le sento bere il caffè
nelle mie
tazzine di porcellana con il bordo dorato
e gli esili
fiorellini viola. Taccio e guardo
quella scopa
gettata sul pavimento come il cadavere irrigidito
di quel
garzone dell’ortolano, alto e magro, che molti anni fa
mi mostrava
dall’inferriata del giardino il suo grosso fallo.
(…)
da Elena -
Traduzione di Nicola Crocetti - Quarta dimensione
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