foto di Andre Govia
da Elena – Ghiannis Ritsos
(…)
Ora
dimentico i nomi più familiari o li confondo tra loro –
Paride,
Menelao, Achille, Proteo, Teoclímeno, Tèucro,
Càstore e
Polluce – i miei fratelli moralisti; loro, credo,
divennero
stelle – così dicono – e guidano le navi; – Teseo, Pirítoo,
Andromaca,
Cassandra, Agamennone – suoni, soltanto suoni
privi di rappresentazione,
privi della loro immagine tracciata sopra un vetro,
sopra uno
specchio di metallo o sui bassi fondali, sulla spiaggia, come quella volta,
un giorno
calmo e assolato, con molte alberature, quando la battaglia
s’era
placata, e il cigolio delle cime fradice sulle pulegge
teneva il
mondo in alto, come il nodo di un singhiozzo arrestato
in una gola
di cristallo – e lo vedevi, il nodo, scintillare, tremare
senza
riuscire a farsi grido, e d’improvviso tutto il paesaggio con le navi,
i marinai e
i carri, sprofondava nella luce e nell’anonimato.
Un naufragio
diverso adesso, più profondo, più oscuro – da lì
salgono di
tanto in tanto certi suoni – quando battevano i martelli sul legno
inchiodando
una nuova trireme nel piccolo cantiere navale; quando passava
una grande
quadriga sull’acciottolato, prolungando su un altro ritmo
i battiti
dell’orologio della Cattedrale, quasi che le ore
fossero
assai più di dodici e i cavalli
girassero
dentro l’orologio fino ad esser stanchi; o quella notte
che due bei
giovani cantavano sotto le mie finestre
una canzone
dedicata a me, senza parole; – uno era cieco da un occhio; l’altro
aveva una
grossa fibbia alla cintura – brillava al chiar di luna.
Ora non mi
vengono più da sole le parole; – le cerco, come se traducessi
da una
lingua a me ignota – e tuttavia traduco. Tra le parole,
o dentro le
parole stesse, restano fori profondi; guardo attraverso questi fori
come se
guardassi attraverso i nocchi caduti dalle assi di una porta
sbarrata,
inchiodata da secoli. Non vedo niente.
Non più
parole e nomi; distinguo soltanto certi suoni; – un candelabro d’argento
o un vaso di
cristallo risuona da solo e all’improvviso tace
fingendo
indifferenza, come se non avesse risuonato, come se nessuno
l’avesse
toccato né gli fosse passato accanto. Un abito da donna
si accascia
mollemente dalla sedia sul pavimento, spostando
l’attenzione
dal suono precedente alla semplicità del nulla. Intanto
l’idea di
una congiura silenziosa, benché dissolta nell’aria,
aleggia addensata
a un livello superiore, quasi ponderabile,
tanto che
senti il solco delle rughe di fianco alle labbra farsi più profondo
proprio a
causa di questo intruso che prende il tuo posto
trasformando
in intruso te, qui sul tuo letto, nella tua stanza.
Oh, questo
esilio dentro i nostri stessi abiti che invecchiano,
dentro la
nostra stessa pelle che avvizzisce; mentre le nostre dita
non riescono
più a stringere, a reggere intorno al nostro corpo
neppure la
coperta, che si solleva da sola, si disfa, scompare, lasciandoci
scoperti di
fronte al vuoto. Allora la chitarra appesa al muro,
dimenticata
da anni, le corde arrugginite, comincia a tremare
come trema
il mento di una vecchia per il freddo o la paura, e devi
mettere la
mano sulle corde per arrestarne
il tremito
contagioso. Ma non trovi la mano, non hai più mano,
e dentro di
te senti che è il tuo mento che trema.
(…)
da Elena -
Traduzione di Nicola Crocetti - Quarta dimensione
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