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2 novembre 2017

da Inno a Demetra – Callimaco

Bernini, Ratto di Proserpina
da Inno a Demetra – Callimaco

Quando passa il canestro, dite, o donne:
Salve Demetra, molte volte salve,
generosa di cibo, ricca a staia.
Il canestro che passa contemplate
da terra e non guardatelo dal tetto,
né da un luogo elevato, estranei al rito,
né bambino né donna né fanciulla
con i capelli sciolti né chi sputa
a bocca asciutta, senza prender cibo.
Espero guardò fuori dalle nubi
(ma quando arriva?), Espero fu il solo
che convinse Demetra a dissetarsi,
quando correva sulle ignote tracce
della figlia rapita. In quale modo
ti portarono fino all'occidente
i tuoi passi, signora, fino ai neri,
fino alla terra dalle mele d'oro?
Non bevesti in quel tempo, non mangiasti
e non facesti il bagno e per tre volte
attraversasti il vortice d'argento
dell'Achelòo ed altrettante il corso
di ciascuno dei fiumi oltrepassasti,
che scorrono perenni, e per tre volte
presso il pozzo Callìcoro sedesti,
assetata, per terra, senza bere,
senza mangiare e senza fare il bagno.
No, non dobbiamo dire queste cose
che portarono lacrime a Deò,
piuttosto come diede usanze accette
alle città, piuttosto come il fusto
e i manipoli sacri delle spighe
tagliò per prima e portò dentro i buoi
a pestarli, nel tempo in cui apprendeva
l'arte buona Trittòlemo, piuttosto
(perché si tenga fuori l'arroganza)
come...
Abitavano ancora la regione
sacra di Dotio, non la terra Cnidia
e un bel bosco ti offrirono i Pelasgi
d'alberi folto, per il quale a stento
una freccia passava. C'era il pino,
grandi olmi e peri e frutti dolci e belli,
e fuori dai rigagnoli sgorgava
un'acqua come l'ambra. Di quel luogo
era amante la dea, quanto di Eleusi,
come di Triopa, tanto quanto d'Enna.
Ma quando si adirò il demone buono
con i Triopidi, un perfido consiglio
prevalse nella mente di Erisíttone.
In fretta si avviò con venti servi,
tutti nel primo fiore, tutti grandi
come giganti e buoni a devastare
un'intera città, con i due attrezzi,
le asce e le scuri e corsero impudenti
al bosco di Demetra. C'era un pioppo,
albero grande, che toccava il cielo,
presso il quale venivano a scherzare
le ninfe a mezzogiorno. Il primo colpo
cadde su questo e un grido doloroso
mandava agli altri. Percepì Demetra
la sofferenza della pianta sacra
e disse piena d'ira: Chi mi taglia
gli alberi belli? Sùbito divenne
identica a Nicippe, nominata
sacerdotessa pubblica al suo culto
dalla città. Le bende prese in mano
e il papavero e aveva dalla spalla
una chiave pendente. Per calmare
quel malvagio impudente gli parlava:
Figlio, chiunque tu sia che tagli gli alberi
consacrati agli dèi, fèrmati, figlio,
figlio molto diletto ai genitori,
fèrmati ed allontana i servi tuoi,
se non vuoi che ti mostri la sua ira
la dea Demetra, di cui ciò che è sacro
stai devastando. Le lanciò uno sguardo
più feroce di come una leonessa,
fresca di parto, guarda un cacciatore
sui monti Tmari, l'occhio più terribile
che esista, a quanto dicono, e rispose:
Sta' indietro e bada che la mia gran scure
io non ti pianti in corpo. Con questi alberi
una solida casa voglio farmi,
dentro la quale sempre ai miei compagni
darò lieti banchetti in abbondanza.
Disse il ragazzo e Némesi si scrisse
la cattiva risposta. Ma Demetra,
in maniera indicibile adirata,
ridiventò la dea. Coi passi il suolo,
con la testa l'Olimpo raggiungeva.
Ed essi, quando videro la dea,
balzarono di colpo mezzi morti,
la scure abbandonando nelle querce.
(…)

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