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12 aprile 2018

Ernest Hemingway – In un altro paese

Ernest HemingwayIn un altro paese
Da I quarantanove racconti, 1938

In autunno c'era ancora la guerra, ma noi non ci andavamo più. Faceva freddo in autunno, a Milano, e il buio calava molto presto. Allora si accendevano le luci elettriche, ed era divertente camminare per le strade guardando le vetrine.
C'era molta selvaggina appesa davanti ai negozi, e la neve spolverava la pelliccia delle volpi e il vento ne gonfiava la coda. I cervi penzolavano rigidi e vuoti e pesanti, e gli uccellini si gonfiavano al vento e il vento ne scompigliava le piume. Era un autunno freddo, il vento veniva giù dalle montagne.
Ogni pomeriggio andavamo tutti all'ospedale, e c'erano vari modi di arrivarci, nel crepuscolo, attraverso la città. Due di questi modi erano seguendo i canali, ma la strada era lunga. Sempre, però, per entrare nell'ospedale, si attraversava un ponte su un canale. Si poteva scegliere fra tre ponti. Su uno di essi una donna vendeva caldarroste. Si stava al calduccio, davanti al fuoco della sua carbonella, e dopo le castagne erano calde nella tua tasca. L'ospedale era molto vecchio e molto bello, e si entrava da un cancello, si attraversava un cortile e si usciva da un cancello dalla parte opposta. Di solito c'erano dei funerali che partivano dal cortile. Oltre il vecchio ospedale c'erano i nuovi padiglioni in muratura, e là c'incontravamo ogni pomeriggio, eravamo tutti molto gentili e molto interessati a quello che affliggeva tizio o caio, e stavamo seduti nelle macchine che dovevano cambiare ogni cosa, o quasi.
Il dottore si avvicinò alla macchina dove stavo seduto io e disse: - Cosa le piaceva fare di più, prima della guerra? Praticava uno sport?
Dissi: - Si, il football.
- Bene, - disse lui. - Potrà tornare a giocare a football meglio che mai.
Il mio ginocchio non si piegava e la gamba pendeva irrigidita dal ginocchio alla caviglia, senza polpaccio, e la macchina doveva piegare il ginocchio e farlo muovere come se andassi in bicicletta. Ancora non si piegava, però, e quando veniva il momento di piegarlo, era la macchina, invece, a incepparsi. Il dottore disse: - Tutto questo passerà. Lei è un giovanotto fortunato. Tornerà a giocare a football come un campione.
Nella macchina vicina c'era un maggiore che aveva una mano piccola come quella di un bambino. Mi strizzò l'occhio quando il dottore gli visitò la mano, che era tra due cinghie di cuoio che saltavano su e giù e facevano muovere le dita irrigidite, e disse: - E giocherò anch'io a football, capitano medico? - Era stato un grandissimo schermitore, e prima della guerra il più grande schermitore italiano.
Il dottore andò nel suo ufficio, in una stanza in fondo alla sala, e ci portò una fotografia che mostrava una mano che, prima della cura, era piccola quasi come quella del maggiore, e che dopo era un po' più grande. Il maggiore tenne la fotografia con la mano buona e la studiò molto attentamente.
- Una ferita? - chiese.
- Un infortunio sul lavoro, - disse il dottore.
- Molto interessante, molto interessante, - disse il maggiore, e la restituì al dottore.
- Ha fiducia?
- No, - disse il maggiore.
C'erano tre ragazzi che venivano ogni giorno e avevano circa la mia età. Erano di Milano, tutt'e tre, e uno doveva fare l'avvocato, uno il pittore, e uno avrebbe voluto fare la carriera militare, e quando avevamo finito con le macchine a volte tornavamo insieme al Caffè Cova, che era vicino alla Scala. Poiché eravamo in quattro, prendevamo la via più breve attraverso il quartiere comunista perché eravamo in quattro. La gente ci odiava perché eravamo ufficiali, e da un'osteria, mentre passavamo, qualcuno gridava: - Abbasso gli ufficiali! - Un altro ragazzo che qualche volta veniva con noi, portando così a cinque il numero dei componenti la comitiva, aveva sulla faccia un fazzoletto di seta nera perché allora era senza naso e dovevano rifargli il viso. Era andato al fronte direttamente dall'accademia militare e lo avevano ferito meno di un'ora dopo il suo arrivo in prima linea. Gli ricostruirono la faccia, ma lui veniva da un'antichissima famiglia e così non riuscivano mai a fargli il naso giusto. Poi andò in Sudamerica a lavorare in una banca. Ma quello di cui racconto accadde tanto tempo fa, e allora non sapevamo, nessuno di noi lo sapeva, come sarebbero andate, dopo, le cose. Allora sapevamo soltanto che c'era ancora la guerra, ma che noi non ci saremmo più andati.
Avevamo tutti le stesse medaglie, tranne il ragazzo con la benda di seta nera sul viso, lui non era stato al fronte abbastanza tempo per guadagnarsi una medaglia. Il ragazzo alto dalla faccia pallidissima che doveva fare l'avvocato era stato tenente degli arditi e aveva tre medaglie del tipo di cui noi ne avevamo una sola. Per molto tempo era vissuto fianco a fianco alla morte e aveva un'aria piuttosto distaccata. Avevamo tutti un'aria piuttosto distaccata, e non c'era nulla che ci unisse tranne il fatto che ogni pomeriggio c'incontravamo all'ospedale. Anche se, mentre andavamo al Cova attraverso la parte meno raccomandabile della città, camminando nel buio, con luci e canti che uscivano dalle osterie, e dovendo certe volte imboccare una strada dove gli uomini e le donne si affollavano sul marciapiede, cosa che ci costringeva a urtarli per passare, ci sentivamo uniti dal fatto che era successo qualcosa che loro, le persone che ci avevano in uggia, non potevano capire.
Quanto a noi, capivamo bene il Cova, che era comodo e caldo e non troppo vivamente illuminato, e rumoroso e pieno di fumo a certe ore, e c'erano sempre ragazze ai tavoli e giornali illustrati su una rastrelliera appesa al muro. Le ragazze del Cova erano molto patriottiche, e io scoprii che in Italia le persone più patriottiche erano le ragazze dei caffè,  e credo che lo siano ancora.
All'inizio i ragazzi furono assai gentili, s'interessarono alle mie medaglie e mi chiesero cos'avevo fatto per guadagnarmele. Mostrai loro i documenti, che erano scritti in uno stile bellissimo e pieno di fratellanza e abnegazione, ma che in realtà dicevano, tolti tutti i fronzoli, che mi avevano assegnato le medaglie perché ero americano. Dopodiché il loro atteggiamento verso di me cambia un tantino, anche se, di fronte agli estranei, ero sempre un amico. Ero un amico, ma non più veramente uno di loro, quand'ebbero letto le citazioni, perché per loro era stato diverso, per guadagnarsi le medaglie, avevano fatto cose ben diverse. Io ero stato ferito, questo è vero; ma tutti sapevamo che essere feriti, dopo tutto, dipendeva solo dal caso. Non mi vergognai mai dei nastrini, però, e qualche volta, dopo l'ora del cocktail, immaginavo di aver fatto, per guadagnarmi le medaglie, tutte le cose che avevano fatto loro; ma la sera, tornando a casa per le strade vuote col vento freddo e tutti i negozi chiusi, cercando di tenermi vicino ai lampioni, sapevo che quelle cose non le avrei fatte mai, e avevo una gran paura di morire, e spesso stavo a letto, di notte, tutto solo, chiedendomi come mi sarei comportato quando fossi tornato al fronte.
I tre con le medaglie erano come falchi cacciatori; e io non ero un falco, anche se un falco potevo sembrare a coloro che non avevano mai cacciato; loro, i tre, la sapevano più lunga, e per questo le nostre vie si separarono. Ma rimasi buon amico del ragazzo che era stato ferito il suo primo giorno al fronte, perché ora non avrebbe mai saputo come si sarebbe comportato; così neanche lui poteva essere accettato, e mi piaceva perché pensavo che forse neanche lui sarebbe diventato un vero falco.
II maggiore, che era stato un grande schermitore, non credeva nel coraggio, e quando stavamo seduti nelle macchine passava molto tempo a correggermi gli errori di grammatica. Mi aveva fatto i complimenti per come parlavo l'italiano, e insieme conversavamo con molta disinvoltura. Un giorno avevo detto che l'italiano mi sembrava così facile che non riuscivo a provare un particolare interesse per questa lingua: tutto era così semplice da dire... - Ah, si, - disse il maggiore. - Perché, allora, non comincia a studiare la grammatica? - Cominciammo dunque a studiare la grammatica, e subito l'italiano diventò così difficile che non ebbi più il coraggio di rivolgergli la parola finché non ebbi la grammatica sulla punta delle dita.
Il maggiore veniva all'ospedale con molta regolarità. Penso che non avesse saltato un giorno, anche se sono certo che non credeva nelle macchine. Ci fu un periodo in cui nessuno dei due credeva nelle macchine, e un giorno il maggiore disse che erano tutte sciocchezze. Allora le macchine erano nuove ed eravamo noi che dovevamo provarle. Era un'idea idiota, disse lui, una teoria come un'altra. Io non avevo imparato la grammatica, e lui disse che ero uno stupido, una persona impossibile, e che mi dovevo vergognare, e che lui era stato uno sciocco a disturbarsi per me. Era un uomo piccino, sedeva impettito sulla seggiola con la destra ficcata nella macchina e guardava il muro, diritto davanti a sé, mentre le cinghie andavano rumorosamente su e giù facendogli muovere le dita.
- Che farà quando la guerra finirà, se finirà? - mi chiese. - Attento alla grammatica!
Andrò negli Stati Uniti.
E’ sposato ?
- No, ma spero di sposarmi.
- Tanto peggio per lei, - disse. Pareva arrabbiatissimo. - Un uomo non deve sposarsi.
- Perché, signor maggiore ?
- Non mi chiami «signor maggiore».
- Perché un uomo non deve sposarsi?
- Non può sposarsi. Non può sposarsi, - disse rabbiosamente. - Se non vuol perdere tutto, non dovrebbe mettersi nella condizione di perderlo. Non dovrebbe mettersi nella condizione di perdere. Dovrebbe trovare delle cose che non si possono perdere.
Parlava rabbiosamente e con grande asprezza, e parlando teneva lo sguardo fisso davanti a sé.
- Ma perché dovrebbe necessariamente perderlo?
- Lo perderà, - disse il maggiore. Stava guardando il muro. Poi abbassò gli occhi alla macchina e strappò via la manina dalle cinghie e se la batté con forza sulla coscia.
- Lo perderà, - disse, quasi urlando. - Non discuta con me! - Poi chiamò l'assistente che badava alle macchine. - Venga a spegnere quest'ordigno maledetto.
Tornò nell'altra stanza per la cura con la luce e il massaggio. Poi lo sentii chiedere al dottore se poteva usare il suo telefono e chiuse la porta. Quando rientrò nella stanza, io ero seduto in un'altra macchina. Lui indossava la mantella e aveva il berretto in testa, venne dritto verso la mia macchina e mi mise una mano sulla spalla.
- Sono veramente desolato, - disse, e con la mano buona mi diede un colpetto sulla spalla. - Non volevo essere scortese. Mia moglie è appena morta. Deve perdonarmi.
- Oh... - dissi, sentendomi male per lui. - Mi dispiace tanto.
Rimase là mordendosi il labbro inferiore. - E’ molto difficile, - disse. - Non riesco a rassegnarmi.
Il suo sguardo mi attraversava e si perdeva alle mie spalle fuori dalla finestra. Poi il maggiore si mise a piangere. - Sono assolutamente incapace di rassegnarmi, - disse con voce strozzata, e poi, piangendo, a testa alta, con lo sguardo vuoto, con un'andatura rigida e marziale, con le guance rigate di lacrime e mordendosi le labbra, passò davanti alle macchine e uscì dalla porta.
Il dottore mi disse che la moglie del maggiore, che era giovanissima e che lui aveva sposato soltanto dopo essere stato esentato dal servizio per invalidità, era morta di polmonite. Si era ammalata solo qualche giorno prima. Nessuno si aspettava che morisse.
Il maggiore non venne all'ospedale per tre giorni. Poi arrivò alla solita ora, portava una benda nera sulla manica dell'uniforme. Quando tornò, appese al muro c'erano delle grandi. fotografie in cornice di lesioni di ogni genere, prima e dopo la cura con le macchine. Davanti alla macchina usata dal maggiore c'erano tre fotografie di mani come la sua che erano completamente guarite. Non so dove il dottore fosse andato a pescarle. Da quello che avevo sempre sentito dire, noi eravamo i primi a usare quelle macchine. Le fotografie non contarono granché per il maggiore, che ora si limitava a guardar fuori dalla finestra.

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