da “Instambul” - Orhan Pamuk
(…)
Flaubert, giunto a Istanbul centodue anni prima della mia nascita, fu colpito dalla quantità di gente e dalla sua diversità: in una lettera scrisse che Costantinopoli, un secolo dopo, sarebbe stata la capitale del mondo. Quando l’impero ottomano crollò e scomparve, si realizzò proprio il contrario. E quando nacqui io, Istanbul viveva i giorni più deboli, più poveri, più miseri e più isolati della sua storia di duemila anni. Il senso di fallimento dell’impero ottomano la desolazione e la tristezza generate dalle rovine che occupavano la città, sono stati per me, per tutta la vita, la caratteristica principale di Istanbul. Ho trascorso la mia esistenza combattendo contro questa tristezza, oppure abituandomi a lei come tutti gli altri.
Coloro che si preoccupano di dare un significato alla vita si interrogano almeno una volta sul senso dello spazio e del tempo in cui sono nati. Che cosa vuol dire la nostra nascita in quest’angolo del mondo, nella tal data? Questa famiglia, questo paese, questa città che ci sono stati donati quasi fossero usciti alla lotteria, che dobbiamo amare e che alla fine riusciamo ad amare, sono state scelte giuste? Qualche volta mi sento sfortunato a essere nato a Istanbul, città logorata e decaduta, in preda alla miseria e alla tristezza, rimasta sotto le rovine che sprofondano sempre di più, fra le ceneri di un impero crollato. (Tuttavia una voce dentro di me dice che questa, in realtà, è una benedizione). Se la ricchezza è importante, qualche volta penso anche di essere stato fortunato perché sono nato in una famiglia benestante di Istanbul. (Qualcuno pensa pure il contrario). E spesso capisco che, proprio come il mio corpo di cui non posso lamentarmi (avrei forse voluto avere le ossa più grosse ed essere più avvenente) e il mio sesso (se fossi stato donna, la sessualità sarebbe stata un problema minore?), anche Istanbul, città in cui sono nato e dove ho passato tutta la vita, per me è un destino inesorabile. Questo libro parla di questo destino…
Sono nato il 7 giugno 1952, poco dopo mezzanotte, a Istanbul, in una piccola clinica privata di Moda. Di notte i corridoi erano tranquilli, così come il mondo. Nel nostro pianeta non c’era nulla di sconvolgente oltre alle fiamme e le ceneri che il vulcano Stromboli, in Italia, aveva cominciato a eruttare improvvisamente due giorni prima. Sui quotidiani comparivano alcuni trafiletti sui soldati turchi che combattevano nella Corea del Nord, e brevi articoli su voci di fonte americana che i nordcoreani si preparassero a usare armi biologiche. Le vere notizie erano quelle che riguardavano «la nostra città», e, come tutti gli abitanti di Istanbul, anche mia madre le aveva lette attentamente prima del parto: un negoziante di tessuti, il giorno precedente, aveva identificato il cadavere di un ladro che, due notti prima, aveva cercato, con una maschera orribile in faccia, di entrare in una casa a Langa forzando la finestra del bagno, ma era stato notato e inseguito dalle guardie e dai
«coraggiosi» pensionanti della Casa dello studente di Konya, che l’avevano poi sorpreso in un deposito di legna. Dopo aver imprecato contro i poliziotti si era suicidato, e il negoziante aveva ricordato che l’anno prima sempre questo bandito aveva compiuto, in pieno giorno, una rapina a mano armata nel suo negozio a Harbiye. Mia madre leggeva queste notizie da sola all’ospedale perché, secondo quanto mi ha raccontato anni dopo in un miscuglio di rabbia e tristezza, mio padre, dopo averla accompagnata in clinica, si era annoiato a stare lì ad aspettare la mia nascita che sembrava non arrivare mai ed era uscito a incontrare gli amici. Vicino a mia madre, nella sala dell’ospedale c’era soltanto mia zia, che era entrata in quella clinica in piena notte, scavalcando il muro del giardino. Mia madre, quando mi vide per la prima volta, pensò che io fossi più magro; più fragile e più esile rispetto a mio fratello, due anni più grande di me.
In realtà dovevo dire «aveva pensato». Questo tempo che usiamo per raccontare i sogni, le fiabe e le vite che non abbiamo vissuto direttamente, è molto adatto per raccontare le situazioni che abbiamo affrontato nella culla, nel passeggino, oppure quando abbiamo compiuto i primi passi. Perché i nostri genitori solo dopo tanti anni ci raccontano queste nostre prime esperienze di vita, e noi godiamo, rabbrividendo, ad ascoltare la nostra storia, quasi sentissimo le prime parole e contemplassimo i primi passi di un altro. Questo dolce sentimento, che ricorda il piacere di rivederci nei sogni, ci fa nascere dentro anche un’abitudine destinata ad avvelenarci per tutta la vita: la sensazione di imparare il significato delle situazioni che abbiamo vissuto - persino dei piaceri più profondi - dagli altri. Così, proprio come questi «ricordi» della prima infanzia, che assimiliamo di buon grado e poi raccontiamo con convinzione perché cominciamo a credere di ricordarli noi stessi, alla fine quello che dicono gli altri su diverse azioni che abbiamo compiuto nella vita non solo diventa dopo un po’ la nostra opinione, ma si trasforma anche in un ricordo più importante di quanto abbiamo vissuto. Molte volte impariamo dagli altri il significato della città in cui abitiamo, come la vita che viviamo.
Nei momenti in cui assimilo ciò che gli altri raccontano su di me e su Istanbul, quasi il ricordo fosse mio, mi viene da dire: «Una volta disegnavo, io che nacqui a Istanbul e crebbi a Istanbul, ed ero un bambino curioso; poi a ventidue anni, non si sa perché, iniziai a scrivere romanzi». Avrei voluto scrivere il libro con questo linguaggio, sia perché racconta tutta una vita come un’esperienza vissuta da un altro, sia perché la fa diventare un dolce sogno in cui la voce e la volontà della persona si indeboliscono. Ma questo bel linguaggio di fiaba non mi pare credibile, perché fa vedere questa vita come una preparazione a una seconda esistenza più reale, più luminosa, in cui ci si potrà svegliare come da un sogno. E la seconda esistenza che può vivere gente come me non è altro che il libro che si ha tra le mani. Questo dipende dalla tua attenzione, caro lettore. Io ti offro onestà, e tu dimostrami affetto.
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Flaubert, giunto a Istanbul centodue anni prima della mia nascita, fu colpito dalla quantità di gente e dalla sua diversità: in una lettera scrisse che Costantinopoli, un secolo dopo, sarebbe stata la capitale del mondo. Quando l’impero ottomano crollò e scomparve, si realizzò proprio il contrario. E quando nacqui io, Istanbul viveva i giorni più deboli, più poveri, più miseri e più isolati della sua storia di duemila anni. Il senso di fallimento dell’impero ottomano la desolazione e la tristezza generate dalle rovine che occupavano la città, sono stati per me, per tutta la vita, la caratteristica principale di Istanbul. Ho trascorso la mia esistenza combattendo contro questa tristezza, oppure abituandomi a lei come tutti gli altri.
Coloro che si preoccupano di dare un significato alla vita si interrogano almeno una volta sul senso dello spazio e del tempo in cui sono nati. Che cosa vuol dire la nostra nascita in quest’angolo del mondo, nella tal data? Questa famiglia, questo paese, questa città che ci sono stati donati quasi fossero usciti alla lotteria, che dobbiamo amare e che alla fine riusciamo ad amare, sono state scelte giuste? Qualche volta mi sento sfortunato a essere nato a Istanbul, città logorata e decaduta, in preda alla miseria e alla tristezza, rimasta sotto le rovine che sprofondano sempre di più, fra le ceneri di un impero crollato. (Tuttavia una voce dentro di me dice che questa, in realtà, è una benedizione). Se la ricchezza è importante, qualche volta penso anche di essere stato fortunato perché sono nato in una famiglia benestante di Istanbul. (Qualcuno pensa pure il contrario). E spesso capisco che, proprio come il mio corpo di cui non posso lamentarmi (avrei forse voluto avere le ossa più grosse ed essere più avvenente) e il mio sesso (se fossi stato donna, la sessualità sarebbe stata un problema minore?), anche Istanbul, città in cui sono nato e dove ho passato tutta la vita, per me è un destino inesorabile. Questo libro parla di questo destino…
Sono nato il 7 giugno 1952, poco dopo mezzanotte, a Istanbul, in una piccola clinica privata di Moda. Di notte i corridoi erano tranquilli, così come il mondo. Nel nostro pianeta non c’era nulla di sconvolgente oltre alle fiamme e le ceneri che il vulcano Stromboli, in Italia, aveva cominciato a eruttare improvvisamente due giorni prima. Sui quotidiani comparivano alcuni trafiletti sui soldati turchi che combattevano nella Corea del Nord, e brevi articoli su voci di fonte americana che i nordcoreani si preparassero a usare armi biologiche. Le vere notizie erano quelle che riguardavano «la nostra città», e, come tutti gli abitanti di Istanbul, anche mia madre le aveva lette attentamente prima del parto: un negoziante di tessuti, il giorno precedente, aveva identificato il cadavere di un ladro che, due notti prima, aveva cercato, con una maschera orribile in faccia, di entrare in una casa a Langa forzando la finestra del bagno, ma era stato notato e inseguito dalle guardie e dai
«coraggiosi» pensionanti della Casa dello studente di Konya, che l’avevano poi sorpreso in un deposito di legna. Dopo aver imprecato contro i poliziotti si era suicidato, e il negoziante aveva ricordato che l’anno prima sempre questo bandito aveva compiuto, in pieno giorno, una rapina a mano armata nel suo negozio a Harbiye. Mia madre leggeva queste notizie da sola all’ospedale perché, secondo quanto mi ha raccontato anni dopo in un miscuglio di rabbia e tristezza, mio padre, dopo averla accompagnata in clinica, si era annoiato a stare lì ad aspettare la mia nascita che sembrava non arrivare mai ed era uscito a incontrare gli amici. Vicino a mia madre, nella sala dell’ospedale c’era soltanto mia zia, che era entrata in quella clinica in piena notte, scavalcando il muro del giardino. Mia madre, quando mi vide per la prima volta, pensò che io fossi più magro; più fragile e più esile rispetto a mio fratello, due anni più grande di me.
In realtà dovevo dire «aveva pensato». Questo tempo che usiamo per raccontare i sogni, le fiabe e le vite che non abbiamo vissuto direttamente, è molto adatto per raccontare le situazioni che abbiamo affrontato nella culla, nel passeggino, oppure quando abbiamo compiuto i primi passi. Perché i nostri genitori solo dopo tanti anni ci raccontano queste nostre prime esperienze di vita, e noi godiamo, rabbrividendo, ad ascoltare la nostra storia, quasi sentissimo le prime parole e contemplassimo i primi passi di un altro. Questo dolce sentimento, che ricorda il piacere di rivederci nei sogni, ci fa nascere dentro anche un’abitudine destinata ad avvelenarci per tutta la vita: la sensazione di imparare il significato delle situazioni che abbiamo vissuto - persino dei piaceri più profondi - dagli altri. Così, proprio come questi «ricordi» della prima infanzia, che assimiliamo di buon grado e poi raccontiamo con convinzione perché cominciamo a credere di ricordarli noi stessi, alla fine quello che dicono gli altri su diverse azioni che abbiamo compiuto nella vita non solo diventa dopo un po’ la nostra opinione, ma si trasforma anche in un ricordo più importante di quanto abbiamo vissuto. Molte volte impariamo dagli altri il significato della città in cui abitiamo, come la vita che viviamo.
Nei momenti in cui assimilo ciò che gli altri raccontano su di me e su Istanbul, quasi il ricordo fosse mio, mi viene da dire: «Una volta disegnavo, io che nacqui a Istanbul e crebbi a Istanbul, ed ero un bambino curioso; poi a ventidue anni, non si sa perché, iniziai a scrivere romanzi». Avrei voluto scrivere il libro con questo linguaggio, sia perché racconta tutta una vita come un’esperienza vissuta da un altro, sia perché la fa diventare un dolce sogno in cui la voce e la volontà della persona si indeboliscono. Ma questo bel linguaggio di fiaba non mi pare credibile, perché fa vedere questa vita come una preparazione a una seconda esistenza più reale, più luminosa, in cui ci si potrà svegliare come da un sogno. E la seconda esistenza che può vivere gente come me non è altro che il libro che si ha tra le mani. Questo dipende dalla tua attenzione, caro lettore. Io ti offro onestà, e tu dimostrami affetto.
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