11 luglio 2018

da “I quaderni di Malte Laurids Brigge” – Rainer Maria Rilke

da “I quaderni di Malte Laurids Brigge” – Rainer Maria Rilke

Urnekloster
Avrò avuto allora dodici, al massimo tredici anni. Mio padre aveva voluto portarmi con sé a Urnekloster. Non so che cosa lo avesse indotto a visitare suo suocero; per molti anni, dalla morte di mia madre, i due uomini non si erano più visti, e mio padre non era neppure mai stato nel vecchio castello in cui il conte Brahe si era ritirato solo tardi. Poi non vidi più quella casa singolare, che alla morte di mio nonno passò in mano di estranei. Così come la ritrovo ora nei miei elaborati ricordi d’infanzia non è più un edificio; è tutta divisa dentro di me: là una stanza, là un’altra stanza, e qui un pezzo di corridoio che non congiunge le due stanze ma si sostiene da sé, come un frammento. E tutto è frazionato in questo modo: le camere, le scale che scendono solenni e altre rampe strette e tortuose nella cui oscurità ci si inoltra come il sangue nelle vene; il solaio, i balconi sospesi in alto, le altane in cui si sbucava improvvisamente da una piccola porta: tutto questo è ancora dentro di me e non
si cancellerà più. È come se l’immagine di quella casa fosse precipitata in me da un’altezza incredibile e si fosse frantumata sul fondo.
Tutta intera nel mio cuore, almeno così mi sembra, è soltanto la sala in cui ci si riuniva ogni sera alle sette per la cena. Non ho mai visto quella stanza di giorno, non mi ricordo neanche se avesse finestre e dove guardassero; sempre, al momento in cui la famiglia entrava, le torce ardevano in pesanti candelabri, e in pochi minuti si scordava la luce del giorno e quello che si era visto fuori. La stanza alta, col soffitto, mi pare, a volta, era più forte di tutto; con il buio dei muri, con i suoi angoli sempre un poco in ombra, sembrava assorbire le immagini che ciascuno portava con sé senza restituire nulla in compenso. Ci si sedeva come disfatti senza più volontà, senza conoscenza, senza coraggio. Si aveva l’impressione che il posto fosse vuoto. Mi ricordo che questo stato di avvilimento in principio mi procurò un certo malessere, una specie di mal di mare che riuscivo a vincere solo stirando una gamba fino a toccare col piede il ginocchio di mio padre seduto di fronte a me. Solo più tardi mi resi conto che egli aveva capito o almeno indovinato questa strana reazione, benché i rapporti quasi freddi che esistevano fra noi rendessero inspiegabile il mio contegno. Tuttavia fu quel leggero contatto che mi diede la forza di sopportare le prime lunghe cene. Ma dopo qualche settimana di sofferenze spasmodiche, con la facoltà
di adattamento quasi illimitata dei bambini, mi abituai così bene all’angoscia di quelle riunioni che non mi costava più la minima fatica passar due ore a tavola; il tempo scorreva anzi relativamente presto mentre io m’interessavo a osservare i presenti.
(…)

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