12 luglio 2018

da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood

da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood
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L’attesa
Che dire dei dieci anni successivi? Odisseo aveva preso il mare ed era partito per Troia, io ero rimasta a Itaca. Il sole sorgeva, attraversava il cielo e tramontava. Solo di rado pensavo che fosse il carro di fuoco guidato da Elio. La luna cambiava da una fase all’altra e soltanto con un certo sforzo mi convincevo che fosse la nave argentea di Artemide.
Primavera, estate, autunno, inverno si susseguivano nel loro preordinato avvicendarsi. Spesso soffiava un vento forte. Telemaco cresceva di anno in anno, mangiava molta carne, era vezzeggiato da tutti.
Arrivavano notizie sul proseguimento della guerra di Troia: qualche volta buone, qualche volta cattive. Gli aedi cantavano le gesta degli eroi - Achille, Agamennone, Aiace, Menelao, Ettore, Enea e tutti gli altri: io aspettavo che si parlasse di Odisseo. Quando sarebbe arrivato ad alleviare la mia noia? Anche di lui cantavano gli aedi e io godevo profondamente nell’ascoltarli. Ora aveva pronunciato un discorso entusiasmante, ora riappacificato due fazioni in lotta, o dato un saggio consiglio, o escogitato un trucco sorprendente. Si diceva addirittura che fosse riuscito a penetrare entro le mura di Troia, travestito da schiavo errante, e a parlare con Elena che - così narrava l’aedo - gli aveva preparato il bagno e lo aveva unto con le sue mani.
Era la parte che sopportavo di meno.
Infine, aveva inventato lo stratagemma del cavallo di legno pieno di soldati. E Troia – le notizie si accendevano come lampi - era caduta. C’erano stati saccheggi e stragi. Nelle strade della città erano scorsi fiumi di sangue; il cielo sul palazzo era di fuoco; bambini innocenti erano stati gettati da una rupe; le donne troiane erano state divise tra i vincitori come preda di guerra, e tra loro anche le figlie del re Priamo. Finalmente ecco arrivare la notizia tanto desiderata: le navi greche avevano preso la via del ritorno.
Poi, più nulla.
Ogni giorno salivo all’ultimo piano del palazzo e guardavo verso il porto. Il tempo passava. Qualche volta vedevo una nave, ma non era quella che aspettavo. Arrivavano notizie portate da altre navi. Odisseo e i suoi uomini si erano ubriacati, al primo scalo, e c’era stato un ammutinamento, dicevano alcuni; no, ribattevano altri, gli uomini avevano mangiato una pianta magica che aveva fatto perdere loro la memoria e Odisseo aveva dovuto legarli per riportarli a bordo. Secondo qualcuno, Odisseo si era scontrato con il Ciclope, un gigante che aveva un occhio solo, ma, secondo qualcun altro, quello con un occhio solo era il padrone di una taverna che aveva protestato per un conto non pagato. C’era chi raccontava che alcuni compagni di Odisseo erano stati divorati dai cannibali, e chi obiettava che si era trattato semplicemente di una rissa, con morsi alle
orecchie, nasi sanguinanti, coltellate ed eviscerazioni. Odisseo era ospite, su un’isola incantata, di una dea che aveva trasformato i suoi compagni in porci - un’impresa non molto difficile, a mio parere - per poi farli ridiventare uomini perché si era innamorata di lui; lo nutriva di squisiti, inimmaginabili cibi preparati con le sue mani immortali e facevano l’amore tutte le notti fino al delirio. No, protestavano altri, si trattava soltanto di una prostituta d’alto bordo e Odisseo era solo uno scroccone.
Inutile dire che i cantori s’impossessavano di tali argomenti e ci ricamavano sopra.
Davanti a me, sceglievano sempre le versioni più nobili, quelle in cui Odisseo appariva intelligente, coraggioso, ingegnoso, impegnato in una lotta contro mostri soprannaturali e prediletto dalle dèe. Se non aveva fatto ancora ritorno a casa era perché un dio – secondo alcuni Poseidone, signore del mare - gli era nemico da quando aveva reso cieco il Ciclope, suo figlio. O forse molti dèi gli erano contro. O il Fato. O qualcos’altro. Perché certamente, suggeriva l’aedo per lodarmi, solo un forte potere divino poteva trattenere mio marito dal tornare tra le mie braccia.
Più elaborata era la galanteria e più costosi erano i doni che l’aedo si aspettava da me. E io non mancavo di soddisfare l’attesa. Anche una bugia evidente riesce a consolare chi non ha altro.
Inaridita come fango secco, intossicata dalla lunghezza dell’attesa, la madre di Odisseo era morta nella convinzione che lui non sarebbe più tornato. Pensava che la colpa fosse mia, non di Elena: se solo non avessi portato il bambino dove stava arando il campo! La vecchia Euriclea era diventata ancora più vecchia. E anche mio suocero, Laerte, aveva perso ogni interesse per la vita di palazzo e stava sempre in campagna, a trafficare in una delle sue fattorie, dove lo si vedeva aggirarsi qua e là, strascicando i piedi, con gli abiti sporchi, borbottando qualcosa sugli alberi di pere. Credo che la sua mente si stesse indebolendo.
Ora toccava a me, da sola, amministrare le vaste proprietà di Odisseo. Nessuno mi aveva preparata a questo genere di lavoro durante la mia giovinezza a Sparta. Ero una principessa, il lavoro riguardava gli altri. Mia madre, anche se aveva avuto il ruolo di regina, non era mai stata un buon esempio. Non le importava che cosa venisse servito a tavola, perché si trattava soprattutto di grossi pezzi di carne, mentre lei preferiva - a dir tanto - un pesciolino o due, con contorno di alghe marine. Aveva un modo particolare di mangiare il pesce crudo, cominciando dalla testa. Io la guardavo, agghiacciata e attratta. Forse ho dimenticato di dire che aveva i denti molto piccoli e appuntiti. Non le piaceva dare ordini agli schiavi o punirli, anche se non avrebbe esitato a farli uccidere se l’avessero infastidita - non riusciva a capire che avevano un valore perché costituivano una proprietà -, inoltre non sapeva né filare né tessere. «Troppi nodi. È un lavoro adatto a un ragno. Lasciamo che lo faccia Aracne» commentava. Quanto a occuparsi delle riserve alimentari, del vino in cantina e del «giocattolo d’oro dei mortali» come lei chiamava il danaro che veniva custodito nei magazzini del palazzo, rideva solo a pensarci. «Le naiadi sanno contare solo fino a tre» diceva. «I pesci nuotano in banchi, non in fila. Noi li contiamo così: un pesce, due pesci, tre pesci e poi ricominciamo, un altro pesce, un altro pesce, un altro pesce!» Faceva una della sue risatine gorgoglianti. «Noi immortali non siamo meschini come voi, non ammassiamo scorte di provviste!» e scivolava via, a tuffarsi nella fontana del palazzo o se ne andava per giorni e giorni a raccontare sciocchezze ai delfini o a fare scherzi alle vongole.
Perciò, nel palazzo di Itaca dovetti imparare tutto dall’inizio. Euriclea in un primo tempo volle sbrigarsela da sola, poi si rese conto che anche per un’intrigante come lei il lavoro era troppo. Con il passare degli anni, mi ritrovai a compilare gli inventari – quando si è attorniati da schiavi è facile essere derubati, se non si tengono gli occhi bene aperti -, a controllare il cibo e il vestiario. Gli indumenti degli schiavi erano fatti di stoffa grezza e resistente, si consumavano e andavano sostituiti, perciò dovevo far filare e tessere per tempo tutto il necessario. Gli schiavi che macinavano il grano occupavano il livello più basso della gerarchia, e venivano tenuti chiusi in un fabbricato esterno al palazzo – erano scelti tra i più ribelli e capitava che scoppiassero delle risse, quindi dovevo stare attenta che non nascessero ostilità o faide.
Gli schiavi non dovevano dormire con le schiave, a meno che non ne avessero il permesso. Era una questione spinosa. Qualche volta s’innamoravano, diventavano gelosi, esattamente come chi viveva in condizioni migliori della loro, ma nascevano complicazioni a non finire. Se la situazione minacciava di sfuggirmi di mano, ero costretta a venderli. Ma se da una coppia nasceva un bel bambino, lo tenevo, lo allevavo e gli insegnavo a diventare un servo gentile e raffinato. Forse li viziavo troppo, quei bambini. Euriclea lo ripeteva spesso. Melanto dalle belle gote era una di loro.
Mi servivo del sovrintendente per provvedere al necessario, e presto guadagnai una certa reputazione come mercante. Controllavo i poderi e i pascoli, imparavo tutto il possibile sull’allevamento degli agnelli e dei vitelli e su come intervenire perché una scrofa non mangiasse i maialini appena partoriti. Diventai sempre più esperta, discutere di questi argomenti rozzi e sporchi iniziava a piacermi. Provavo un orgoglio profondo quando il guardiano del porcile veniva a chiedermi un consiglio.
Mi ero prefissata lo scopo di accrescere le proprietà di Odisseo, perché al suo ritorno si trovasse più ricco di quando era partito - più pecore, più mucche, più maiali, più campi di grano, più schiavi. Avevo un quadro ben chiaro nella mente: Odisseo tornato a casa e io - con femminile modestia - che gli dimostro come sono stata brava nel dedicarmi a un lavoro che di solito è riservato agli uomini. Per conto suo, naturalmente. Per lui soltanto. Il suo viso si sarebbe illuminato di gioia! Come sarebbe stato contento di me! «Vali mille Elene» mi avrebbe detto. C’era da dubitarne? E mi avrebbe teneramente abbracciata.
Nonostante il lavoro e le tante responsabilità, mi sentivo più sola che mai. A chi potevo rivolgermi per avere un suggerimento sensato? Su chi potevo contare se non su me stessa?
Spesso, la notte, piangevo fino ad addormentarmi o pregavo gli dèi che riportassero a casa mio marito o mi dessero una rapida morte. Euriclea mi immergeva in bagni calmanti, mi preparava delle tisane prima che mi ritirassi per la notte, ma c’era un prezzo da pagare: aveva la fastidiosa abitudine di recitare proverbi, allo scopo di rinvigorirmi e di incoraggiare la mia dedizione al lavoro. Un esempio:
Chi tutta la giornata sta a patire
soltanto piatti vuoti potrà offrire.

O ancora:
Chi a smettere di piangere non riesce
non mangerà il vitello quando cresce.

Oppure:
Padroni pigri fan schiavi indolenti,
non vi obbediscon se siete indulgenti:
siano ladri, prostitute o furfanti
prendi il bastone o si fan tracotanti!

E via di questo passo.
Se fosse stata più giovane, l’avrei presa a schiaffi. Ma le sue esortazioni sortivano qualche effetto, perché di giorno riuscivo ad apparire allegra e fiduciosa e se non serviva a me, era almeno utile a Telemaco. Gli parlavo di Odisseo, lo dipingevo come un eroico guerriero, intelligente e bello e gli assicuravo che, al suo ritorno a casa, tutto sarebbe stato meraviglioso.
Intorno a me cresceva la curiosità della gente, com’era prevedibile, visto che ero la moglie - o la vedova? - di un uomo così famoso; navi straniere si fermavano al porto più spesso di un tempo, e portavano notizie. Portavano anche, talvolta, qualcuno che intendeva saggiare il terreno: se per caso si fosse avuta la prova che Odisseo era morto, allontanassero gli dèi questa sciagura, non sarei stata disponibile ad accogliere altre proposte? Io, insieme alle mie proprietà? Non ascoltavo queste insinuazioni, perché le notizie di mio marito - incerte, ma pur sempre presenti - continuavano ad arrivare.
Qualcuno raccontava che Odisseo era stato sull’Isola dei Morti per consultare gli spiriti. No, intervenivano altri, aveva solo passato una notte in una vecchia grotta cupa, piena di pipistrelli. Aveva voluto che i suoi uomini si tappassero le orecchie con la cera perché non cedessero agli allettamenti delle sirene - creature per metà uccello e per metà donna – che attiravano i marinai sulla loro isola per poi divorarli; lui, invece, si era fatto legare all’albero maestro per poter ascoltare il loro canto irresistibile senza gettarsi dalla nave. Macché sirene, dicevano altri ancora, si trattava di un raffinato bordello siciliano, dove le cortigiane erano famose per il loro talento musicale e i loro eleganti ornamenti di piume. Non si sapeva a chi credere. Qualche volta pensavo che inventassero delle bugie per spaventarmi, solo per vedermi piangere. Si deve provare un gusto speciale nel tormentare
chi è vulnerabile. Ma qualsiasi notizia era meglio del silenzio, e io ascoltavo tutti, con avidità. Passato qualche anno ancora, però, le notizie cessarono di arrivare: sembrava che Odisseo fosse scomparso dalla faccia della terra.

traduzione di G. Aurelio Privitera

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