12 luglio 2018

da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood

John William Waterhouse - Lady of Shalott
da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood
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Il sudario
Passavano i mesi e la mia angoscia aumentava. Restavo chiusa nella mia stanza – non quella che avevo diviso con Odisseo, no, sarebbe stato troppo per me, la mia stanza adesso era negli appartamenti delle ancelle. Piangevo, distesa sul letto, e mi chiedevo che cos’avrei potuto fare. Ero decisa a non sposare nessuno di quei nobili, screanzati rampolli. Ma mio figlio Telemaco stava crescendo - aveva più o meno la loro età - e aveva iniziato a guardarmi in un modo strano, come se volesse farmi capire che era colpa mia se il patrimonio di famiglia veniva letteralmente inghiottito dai pretendenti.
Sarebbe stato molto meglio per lui se avessi deciso di tornare da mio padre, il re Icario, a Sparta. In realtà, era l’ultimo dei miei desideri: non volevo essere gettata in mare per la seconda volta. Telemaco, quando gliene avevo parlato, aveva visto nel mio ritorno a casa una soluzione che gli sarebbe stata favorevole, ma poi - fatti i conti - aveva capito che buona parte dell’oro e dell’argento che erano nel palazzo sarebbero venuti via con me, perché erano la mia dote. Se però fossi rimasta e avessi sposato uno di quei nobili giovinastri, il prescelto sarebbe diventato re e contemporaneamente il suo patrigno, con piena autorità sulle sue azioni. Ricevere ordini da un ragazzo poco più grande di lui non era una prospettiva allettante. La verità è che gli sarebbe stata utile la mia morte, anche se non posso accusarlo di averlo mai pensato. Ma se avesse fatto come Oreste e - senza giustificazione, a differenza di Oreste - avesse ucciso sua madre, avrebbe attirato su di sé le Erinni - le Furie vendicatrici, dai capelli intrecciati a serpenti, le teste di cane e le ali di pipistrello - che lo avrebbero perseguitato abbaiando e strillando, con fruste e flagelli, fino a farlo impazzire. E poiché se mi avesse ucciso lo avrebbe fatto a sangue freddo e per il più vile degli scopi, ovvero il possesso della ricchezza, per lui non ci sarebbe stato un tempio dove ottenere la purificazione e avrebbe subito la contaminazione del mio sangue fino a trovare la morte in uno stato di delirante follia.
La vita di una madre è sacra. Anche la vita di una cattiva madre - ne è la prova la mia spregevole cugina Clitennestra, l’adultera, che ha massacrato suo marito e ha perseguitato i suoi figli -, tanto che nessuno mi ha mai accusata di non essere stata una buona madre. Comunque fosse, ero infastidita dalle imprecazioni a mezza voce e dagli sguardi risentiti di mio figlio.
Ricordai ai pretendenti, quando avevano iniziato la loro manovra di accerchiamento, che un oracolo aveva predetto il ritorno di Odisseo. Man mano, però, che gli anni passavano e Odisseo non compariva, anche la fede nell’oracolo si andava affievolendo. Forse era stato male interpretato, tagliavano corto i pretendenti, gli oracoli erano spesso ambigui. Anch’io cominciavo a nutrire dubbi e infine avevo dovuto convenire - almeno in pubblico - che Odisseo era probabilmente morto. Il suo spettro, però, non mi era mai apparso in sogno, come sarebbe stato giusto aspettarsi. Non riuscivo a credere che non mi avesse inviato una parola dall’Ade, se veramente si trovava nel regno delle ombre.
Pensavo continuamente al modo migliore per rimandare il giorno della decisione, senza correre il rischio di sbagliare. Infine mi venne un’idea. Nel parlarne, in seguito, ho sempre dichiarato di essere stata ispirata da Pallade Atena, protettrice della tessitura, e per quanto ne so potrebbe anche essere vero, in ogni caso attribuire una decisione a un suggerimento divino evita l’accusa di orgoglio se il progetto va a buon fine e, in caso contrario, il biasimo.
Ecco cosa escogitai. Montai un grande ordito sul telaio, rendendo nota l’intenzione di tessere un sudario per Laerte, mio suocero, poiché consideravo irriverente da parte mia non preparare un ricco lenzuolo per avvolgere le sue membra quando fosse morto. Solo al termine di questo sacro lavoro avrei indicato il nome del mio nuovo marito, senza più esitare nella scelta. (Laerte non si mostrò entusiasta del mio pensiero gentile e da quel momento si tenne lontano da palazzo ancora più di prima. Avrà pensato che qualche pretendente troppo sollecito avrebbe potuto affrettare la sua fine, costringendomi a seppellirlo nel sudario prima che fosse finito, per anticipare le nozze.) Nessuno osò opporsi a un simile desiderio, mosso da tanta pietà filiale. Passavo tutto il giorno al telaio, tessendo con diligenza e mormorando frasi malinconiche del genere «Questo sudario non dovrebbe essere per Laerte ma per me, povera sventurata, costretta dagli dèi a una vita che è un desiderio di morte». Ma poi, la notte, disfacevo quel che avevo fatto di giorno e così il sudario restava sempre troppo piccolo.
Ad aiutarmi in questo compito laborioso avevo scelto dodici ancelle - le più giovani, perché erano cresciute sotto i miei occhi. Le avevo comprate o me le ero fatte regalare da piccole, come compagne di gioco per Telemaco, e le avevo istruite personalmente affinché imparassero tutto quello che dovevano sapere sulla vita che si svolgeva a palazzo. Erano cordiali, piene di energia, qualche volta parlavano o ridevano troppo forte, come tutte le ancelle più giovani, ma mi rallegrava sentirle chiacchierare o cantare. Avevano imparato a
usare bene le loro belle voci. Erano gli occhi e le orecchie di cui mi potevo fidare a palazzo; per più di tre anni mi aiutarono a disfare la trama, nel cuore della notte, con le porte chiuse, alla luce di una torcia. Dovevamo fare attenzione, parlare sottovoce, eppure sembrava una festa, ridevamo spesso. Melanto dalle belle gote ci portava di nascosto qualcosa da mangiare - fichi, quando era la stagione, pane inzuppato nel miele, vino caldo d’inverno. Ci raccontavamo delle storie, scherzavamo, e intanto distruggevamo il lavoro fatto. Nella luce tremolante delle torce, i nostri lineamenti diventavano più lievi, più morbidi, ci comportavamo in un modo diverso che durante il giorno. Eravamo quasi sorelle. La mattina, con gli occhi cerchiati di scuro per la mancanza di sonno, ci scambiavamo sorrisi complici, ogni tanto ci sfioravamo la mano. I «sissignora» e i «nossignore» delle ancelle acquistavano una sottile, ironica gaiezza, come se nessuna di noi credesse all’esistenza di un rapporto servile.
Purtroppo un’ancella tradì il segreto di quel mio tessere senza fine. Sono sicura che accadde per errore: le ragazze sono spesso sventate, le dev’essere sfuggito un accenno, una parola. Ancora adesso non so chi fu tra loro a tradirmi, quaggiù le loro ombre procedono in gruppo e, quando mi avvicino, scappano. Mi evitano, come se le avessi orribilmente, materialmente colpite. Ma io non le ho mai toccate, non ho acconsentito a niente. Se il mio segreto cessò di essere tale, a rigor di logica, fu solo per colpa mia. Avevo chiesto a dodici giovani ancelle, le più graziose, le più seducenti, di girellare attorno ai pretendenti e di spiarli, con tutte le lusinghe che riuscivano a escogitare. Nessun altro lo sapeva, solo io e loro; non avevo voluto dividere il mio segreto con Euriclea e mi accorsi poi di aver commesso un grave errore.
Il progetto fallì malamente. Tra le ragazze, alcune vennero stuprate, altre sedotte, o meglio, circuite con tanta insistenza da indurle a pensare che fosse più opportuno cedere che resistere.
Non capitava di rado, a quel tempo, che gli ospiti di una grande famiglia o del palazzo reale passassero la notte con le ancelle. Offrire questo genere di svaghi rientrava nelle regole dell’ospitalità, agli invitati veniva proposta la scelta, mai però senza il permesso del padrone di casa. Altrimenti sarebbe stata una colpa paragonabile a un furto. Da noi, però, il padrone di casa mancava da tempo e i pretendenti si servivano delle ancelle non diversamente da come si servivano di un arrosto di pecora, di maiale, di capra o di mucca. Probabilmente non pensavano di far niente di male.
Confortavo le ragazze meglio che potevo. Molte si sentivano in colpa e quelle che erano state stuprate andavano accudite, mai lasciate a se stesse. Avevo affidato questo compito a Euriclea, che imprecava contro i vili pretendenti, preparava il bagno alle ragazze e le frizionava con il mio olio d’oliva personale, cercando di compensarle con un trattamento di bellezza sopraffino. Intanto non smetteva di borbottare. Forse il mio affetto per le ancelle la infastidiva. Era dell’opinione che le viziassi, e di questo passo si sarebbero montate la testa. Io le spronavo: «Lasciate correre… Fingete di amarli, se penseranno che siete dalla loro parte si fideranno di voi e sapremo che intenzioni hanno. È anche questo un modo per servire il vostro padrone che, al suo ritorno, vi ringrazierà». E loro si sentivano più tranquille. Cercavo di convincerle a diffondere cattiverie e volgarità su di me, su Telemaco e anche su Odisseo, perché la finzione fosse più credibile e loro ci si mettevano d’impegno: Melanto dalle belle gote era più brava delle altre e si divertiva moltissimo a inventare malignità sul nostro conto. C’è un aspetto sicuramente piacevole nel mescolare obbedienza e trasgressione. Era un trucco, ma poteva diventare un gioco rischioso. Le ancelle spesso s’innamoravano degli uomini che approfittavano di loro con tanta prepotenza. Credo che fosse inevitabile. Pensavano che non capissi, ma io lo sapevo. Le perdonavo. Erano giovani, inesperte e non erano molte, a Itaca, le schiave che potessero vantarsi di avere per amante un uomo che apparteneva alla nobiltà.
Ma, amore o non amore, incontri notturni o meno, le ancelle non mancavano mai di riferirmi tutto ciò che erano riuscite a sapere. Credevo così, stupidamente, di essere saggia e accorta. A ripensarci, mi rendo conto di essermi comportata in modo sconsiderato e pericoloso. Ma lottavo contro il tempo, ero disperata, dovevo usare ogni astuzia e ogni inganno possibili.
Quando scoprirono lo stratagemma del sudario, i pretendenti fecero irruzione nei miei appartamenti, di notte, e mi videro disfare la tela. Erano furenti, essere presi in giro da una donna non era l’ultima ragione della loro rabbia. Dopo una scenata spaventosa, fui messa con le spalle al muro: avrei dovuto finire il sudario al più presto e, subito dopo, scegliere uno di loro come marito.
La vicenda del sudario è divenuta quasi immediatamente leggenda. Di un lavoro che non finisce mai si dice che è «la tela di Penelope». Non amo che si usi la parola tela. Se il sudario fosse stato una tela, io sarei stata un ragno, ma il mio scopo non era catturare gli uomini come fossero mosche, al contrario, non volevo farmi catturare.

traduzione di G. Aurelio Privitera

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