13 luglio 2018

da “L’appetito dell’imperatore” – Franco Cardini

dipinto di Douglas Gray
da “L’appetito dell’imperatore” – Franco Cardini
(…)
Pranzammo quasi in silenzio, mentre dall’auto un dvd che lei aveva alzato a tutto volume spandeva nell’aria vecchie canzoni nostalgiche alla Midnight in Paris, tipo Ne me quitte pas di Brel, Santiano di Aufrey e La bohème di Aznavour. Karen era invasa da una sorta di tacita allegria, io ero inquieto e impaurito di tutto: che l’amazzone, scolata la seconda bottiglia di Cristal, decidesse di mettersi a scassinare perfino i cassonetti dei bouquinistes o volesse impadronirsi di uno dei battelli alla fonda nel porticciolo sottostante, oppure che dalle finestre di fronte partisse qualche colpo che alla fine ci avrebbe centrati. Gli spari si erano fatti frequenti, anche se lontani; e con essi ovattati rumori di auto, grida soffocate, ululati di sirene, segnali inequivocabili del fatto che quel deserto megalopolitano, come qualunque deserto, era pieno di vita: e magari di vita ostile, specie per sciacalli spregiudicati come noi.
E non era finita. Abbandonati impudicamente i resti del festino e risaliti in auto, alla fine del ponte Karen girò di nuovo a sinistra e percorse poche decine di metri lungo il quai François Mitterrand per poi imboccare il passaggio a tre archi attiguo al Pavillon de Lesdiguières; sterzò a destra entrando nella Cour Napoléon e inchiodò dritto davanti alla Grande Pyramide. Scese dall’auto, si riempì i tasconi della giacca a vento di minicariche esplosive, verificò la funzionalità del suo accendino a gas e per precauzione prese anche dei fiammiferi; si munì di un rotolo di corda con tanto di uncini, afferrò una grossa pila e un piccone e, senza dire una parola, si avviò verso le grandi vetrate d’ingresso.
Davvero non ne potevo più. Purtroppo si era portata via la chiave dell’auto, altrimenti a quel punto me ne sarei andato lasciando quella pazza al suo destino. «Ma dove cazzo vai?» le chiesi fuori di me: e mi vergognai per la ridicola voce chioccia, strozzata, che mi era uscita dalla gola. Si voltò appena. «Voglio la Gioconda» mi rispose come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Sei fuori di testa!» replicai. «Ti rendi conto dei segnali d’allarme? Lo vuoi capire che quasi di sicuro ci sarà ancora dentro qualcuno e rischi di beccarti una smitragliata? E poi, ti pare che prima di andarsene, una cosa come la Gioconda, non se la siano portata via, o che qualcuno a fregarsela non ci abbia pensato prima di te?» Restò un attimo incerta, poi mi gettò le chiavi dell’auto e mi disse: «Tieni acceso il cellulare. Se entro una mezz’ora non mi vedi uscire e non ti chiamo, prova a chiamare tu. Se non ti rispondo, puoi andartene».
«Ma ti dico che la Gioconda non c’è, perdinci!» gridai. «E, se c’è, sta’ sicura che non ce la fai!» Era già arrivata alla prima porta a vetri e aveva piazzato la carica. Si voltò di nuovo, si strinse nelle spalle come al solito e risfoderò finalmente il suo sorriso a fossette, stile Scarlett Johansson. «Be’, se va male mi accontenterò di un Rembrandt!» Dio, quant’era carina; e io, pezzo d’idiota, me ne accorgevo solo adesso, dopo aver perso la giornata a correrle dietro come un matto, a svaligiare negozi obbedendole come un automa e a strafogarmi con lei, con la differenza che lei metabolizza anche i sassi e io non digerisco nemmeno il semolino bollito. E tutto – dopo dieci anni di cordialissima amicizia senza un solo, reciproco pensiero che fosse men che fraterno, e dopo tre ore che mi ero accorto di essere perdutamente cotto di lei – senza nemmeno cercare di rubarle un bacetto: non dico saltarle addosso, ma insomma…
Intanto lei faceva alla grande il suo lavoro di terrorista cleptomane. Uno scoppio e la vetrata esterna volò in pezzi che caddero a pioggia tutto intorno, anche sul tetto dell’auto. L’incosciente amazzone, miracolosamente illesa, si voltò a regalarmi un altro sorriso d’incanto, tra la commiserazione e la sfida: e quindi sparì inghiottita dal gorgo mistico dalla scala mobile in discesa, ovviamente fuori uso.
I colpi di arma da fuoco si erano fatti più frequenti: o almeno così mi pareva. Mi sembrava anche di udire confusamente grida lontane e più vicino, verso rue de Rivoli, il frastuono di un mezzo cingolato. “Sia quel che sia” mi ripetei, “facciamola finita.”
M’infilai nel retro dell’auto, accesi il fornelletto elettrico e cominciai con ritrovata calma a prepararmi una buona tazza di caffè.
Nota
Sia anzitutto chiaro agli sventurati che non hanno avuto lo stratosferico piacere e l’esorbitante onore di conoscerlo, che Robert Cointepas è sul serio una grande autentica presenza storica della Parigi del Novecento, al pari di George Whitman, libraio storico della Shakespeare and Company: sono personaggi degni del magico Midnight in Paris di Woody Allen, ai quali amo dal canto mio accompagnare il ricordo del leggendario Leo, il barman dello Harry’s Bar di Firenze.
Dedico Domani, forse… a Marina Montesano, che ama il Pont Neuf e che, ne sono certo, non esiterebbe se ne avesse occasione a saccheggiare Fauchon (e anche Hédiard).

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