dipinto di Douglas Gray
da “L’appetito
dell’imperatore” – Franco Cardini
(…)
Pranzammo quasi in silenzio, mentre dall’auto un dvd che lei
aveva alzato a tutto volume spandeva nell’aria vecchie canzoni nostalgiche alla
Midnight in Paris, tipo Ne me quitte pas di Brel, Santiano
di Aufrey e La bohème di Aznavour. Karen era invasa da una sorta
di tacita allegria, io ero inquieto e impaurito di tutto: che l’amazzone,
scolata la seconda bottiglia di Cristal, decidesse di mettersi a scassinare
perfino i cassonetti dei bouquinistes o volesse impadronirsi di uno dei
battelli alla fonda nel porticciolo sottostante, oppure che dalle finestre di
fronte partisse qualche colpo che alla fine ci avrebbe centrati. Gli spari si
erano fatti frequenti, anche se lontani; e con essi ovattati rumori di auto,
grida soffocate, ululati di sirene, segnali inequivocabili del fatto che quel deserto
megalopolitano, come qualunque deserto, era pieno di vita: e magari di vita
ostile, specie per sciacalli spregiudicati come noi.
E non era finita. Abbandonati impudicamente i resti del
festino e risaliti in auto, alla fine del ponte Karen girò di nuovo a sinistra
e percorse poche decine di metri lungo il quai François Mitterrand per poi
imboccare il passaggio a tre archi attiguo al Pavillon de Lesdiguières; sterzò
a destra entrando nella Cour Napoléon e inchiodò dritto davanti alla Grande
Pyramide. Scese dall’auto, si riempì i tasconi della giacca a vento di
minicariche esplosive, verificò la funzionalità del suo accendino a gas e per
precauzione prese anche dei fiammiferi; si munì di un rotolo di corda con tanto
di uncini, afferrò una grossa pila e un piccone e, senza dire una parola, si
avviò verso le grandi vetrate d’ingresso.
Davvero non ne potevo più. Purtroppo si era portata via la
chiave dell’auto, altrimenti a quel punto me ne sarei andato lasciando quella
pazza al suo destino. «Ma dove cazzo vai?» le chiesi fuori di me: e mi
vergognai per la ridicola voce chioccia, strozzata, che mi era uscita dalla
gola. Si voltò appena. «Voglio la Gioconda» mi rispose come se fosse la cosa
più naturale del mondo. «Sei fuori di testa!» replicai. «Ti rendi conto dei
segnali d’allarme? Lo vuoi capire che quasi di sicuro ci sarà ancora dentro
qualcuno e rischi di beccarti una smitragliata? E poi, ti pare che prima di
andarsene, una cosa come la Gioconda, non se la siano portata via, o che
qualcuno a fregarsela non ci abbia pensato prima di te?» Restò un attimo
incerta, poi mi gettò le chiavi dell’auto e mi disse: «Tieni acceso il
cellulare. Se entro una mezz’ora non mi vedi uscire e non ti chiamo, prova a chiamare
tu. Se non ti rispondo, puoi andartene».
«Ma ti dico che la Gioconda non c’è, perdinci!» gridai.
«E, se c’è, sta’ sicura che non ce la fai!» Era già arrivata alla prima porta a
vetri e aveva piazzato la carica. Si voltò di nuovo, si strinse nelle spalle
come al solito e risfoderò finalmente il suo sorriso a fossette, stile Scarlett
Johansson. «Be’, se va male mi accontenterò di un Rembrandt!» Dio, quant’era
carina; e io, pezzo d’idiota, me ne accorgevo solo adesso, dopo aver perso la giornata
a correrle dietro come un matto, a svaligiare negozi obbedendole come un automa
e a strafogarmi con lei, con la differenza che lei metabolizza anche i sassi e
io non digerisco nemmeno il semolino bollito. E tutto – dopo dieci anni di
cordialissima amicizia senza un solo, reciproco pensiero che fosse men che
fraterno, e dopo tre ore che mi ero accorto di essere perdutamente cotto di lei
– senza nemmeno cercare di rubarle un bacetto: non dico saltarle addosso, ma
insomma…
Intanto lei faceva alla grande il suo lavoro di terrorista
cleptomane. Uno scoppio e la vetrata esterna volò in pezzi che caddero a
pioggia tutto intorno, anche sul tetto dell’auto. L’incosciente amazzone,
miracolosamente illesa, si voltò a regalarmi un altro sorriso d’incanto, tra la
commiserazione e la sfida: e quindi sparì inghiottita dal gorgo mistico dalla
scala mobile in discesa, ovviamente fuori uso.
I colpi di arma da fuoco si erano fatti più frequenti: o
almeno così mi pareva. Mi sembrava anche di udire confusamente grida lontane e
più vicino, verso rue de Rivoli, il frastuono di un mezzo cingolato. “Sia quel
che sia” mi ripetei, “facciamola finita.”
M’infilai nel retro dell’auto, accesi il fornelletto elettrico
e cominciai con ritrovata calma a prepararmi una buona tazza di caffè.
Nota
Sia anzitutto chiaro agli sventurati che non hanno avuto lo
stratosferico piacere e l’esorbitante onore di conoscerlo, che Robert Cointepas
è sul serio una grande autentica presenza storica della Parigi del Novecento,
al pari di George Whitman, libraio storico della Shakespeare and Company: sono
personaggi degni del magico Midnight in Paris di Woody Allen, ai
quali amo dal canto mio accompagnare il ricordo del leggendario Leo, il barman
dello Harry’s Bar di Firenze.
Dedico Domani, forse… a Marina Montesano, che ama il
Pont Neuf e che, ne sono certo, non esiterebbe se ne avesse occasione a
saccheggiare Fauchon (e anche Hédiard).
Nessun commento:
Posta un commento