13 luglio 2018

da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood

Jean-Jacques Lagrenée - Telemaco incontra Menelao ed Elena a Sparta
da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood
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16
Brutti sogni
E così iniziarono i giorni più difficili. Piangevo tanto da pensare che mi sarei trasformata in un fiume o in una fontana, come nelle antiche leggende. Pregavo, offrivo sacrifici, consultavo gli auguri, ma mio marito non tornava. Ad aggravare la mia condizione, Telemaco era ormai abbastanza grande da potermi tiranneggiare. Avevo amministrato la casa quasi completamente da sola per vent’anni, ma ora lui si sentiva in grado di affermare la propria autorità, come figlio di Odisseo, e voleva occuparsi di tutto. Spesso affrontava i pretendenti nell’atrio, con tanta imprudenza da farmi temere che potessero ucciderlo. Lo vedevo pronto a gettarsi con temerarietà in qualsiasi avventura, come fanno i giovani. Fu così che un giorno allestì una nave e salpò per andare in cerca di suo padre senza nemmeno chiedermi consiglio. Fu un’offesa gravissima, ma non ebbi nemmeno la possibilità di soffermarmi a riflettere poiché le mie ancelle predilette mi avvisarono che i pretendenti, appena venuti a conoscenza dell’audace fuga di Telemaco, avevano inviato una nave a tendergli un agguato e ucciderlo sulla via del ritorno.
Gli aedi narrano il vero, quando dicono che fu l’araldo Medonte ad avvertirmi del complotto; io l’avevo saputo dalle ancelle, ma finsi di essere colta di sorpresa, altrimenti Medonte - che manteneva una posizione neutrale - avrebbe scoperto la mia fonte d’informazione.
Mi incamminai verso la porta, barcollando, e mi lasciai cadere sulla soglia, gridando e gemendo, e tutte le mie ancelle - le dodici che mi erano più care e anche le altre – si unirono ai miei lamenti. Le rimproverai per non avermi avvertita della partenza di mio figlio e di non aver cercato di fermarlo, finché quella vecchia gallina di Euriclea non confessò di aver aiutato lei stessa Telemaco a imbarcarsi. E se me l’avevano tenuto nascosto era solo perché non mi agitassi. Ma ogni cosa sarebbe andata per il meglio, concluse, perché gli dèi erano giusti. Mi trattenni dal farle notare che fino a quel momento non ne avevo avuto molte prove.
Quando mi sentivo abbattuta e dopo avere pianto fin quasi a trasformarmi in un lago, ecco che, finalmente, riuscivo sempre a prendere sonno. E quando dormivo, sognavo. Anche quella notte fui visitata da un succedersi di sogni dei quali non è rimasta traccia perché non li raccontai ad anima viva. In uno di essi, la testa di Odisseo andava in pezzi mentre i Ciclopi gli divoravano il cervello; in un altro, lui si tuffava in acqua dalla nave e nuotava verso le sirene, che cantavano con una dolcezza ammaliante, proprio come le mie ancelle, ma avevano già proteso i loro artigli da uccello per dilaniarlo; in un altro ancora, Odisseo faceva l’amore con una bellissima dea e ne era estasiato. Poi la dea si trasformava in Elena che, al di sopra della spalla nuda di mio marito, mi guardava con un sorriso malizioso. Quest’ultimo sogno mi agitò al punto da svegliarmi, così pregai che non fosse veritiero, ma uscito dalla grotta di Morfeo attraverso la porta d’avorio e non, come i sogni che corrispondono alla realtà, attraverso la porta di corno.
Ripresi a dormire e finalmente ebbi un sogno consolante. Quest’ultimo l’ho raccontato, forse qualcuno ne avrà sentito parlare. Mia sorella Iftima - era tanto più vecchia di me che avevo appena avuto il tempo di conoscerla, perché si era sposata ed era andata lontano da palazzo - entrò nella mia camera, si avvicinò al mio letto e riferì di essere stata mandata da Atena perché gli dèi non volevano vedermi soffrire, e mi annunciavano che Telemaco sarebbe tornato sano e salvo. Ma quando le chiesi notizie di Odisseo - era vivo o morto? - non ottenni risposta, poi svanì.
Non mi si dica più che gli dèi non volevano vedermi soffrire. Sono dei provocatori. Ero come un cane randagio, preso a sassate o con il fuoco attaccato alla coda per farli divertire. Né la carne né le ossa degli animali li interessavano; soltanto la nostra sofferenza.

traduzione di G. Aurelio Privitera

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