Jean-Jacques Lagrenée - Telemaco incontra Menelao ed Elena a Sparta
da “Il canto di
Penelope” - Margaret Atwood
(…)
16
Brutti sogni
E così iniziarono i
giorni più difficili. Piangevo tanto da pensare che mi sarei trasformata in un
fiume o in una fontana, come nelle antiche leggende. Pregavo, offrivo sacrifici,
consultavo gli auguri, ma mio marito non tornava. Ad aggravare la mia condizione,
Telemaco era ormai abbastanza grande da potermi tiranneggiare. Avevo amministrato
la casa quasi completamente da sola per vent’anni, ma ora lui si sentiva in grado
di affermare la propria autorità, come figlio di Odisseo, e voleva occuparsi di
tutto. Spesso affrontava i pretendenti nell’atrio, con tanta imprudenza da
farmi temere che potessero ucciderlo. Lo vedevo pronto a gettarsi con
temerarietà in qualsiasi avventura, come fanno i giovani. Fu così che un giorno
allestì una nave e salpò per andare in cerca di suo padre senza nemmeno
chiedermi consiglio. Fu un’offesa gravissima, ma non ebbi nemmeno la possibilità
di soffermarmi a riflettere poiché le mie ancelle predilette mi avvisarono che
i pretendenti, appena venuti a conoscenza dell’audace fuga di Telemaco, avevano
inviato una nave a tendergli un agguato e ucciderlo sulla via del ritorno.
Gli aedi narrano il
vero, quando dicono che fu l’araldo Medonte ad avvertirmi del complotto; io
l’avevo saputo dalle ancelle, ma finsi di essere colta di sorpresa, altrimenti Medonte
- che manteneva una posizione neutrale - avrebbe scoperto la mia fonte d’informazione.
Mi incamminai verso
la porta, barcollando, e mi lasciai cadere sulla soglia, gridando e gemendo, e
tutte le mie ancelle - le dodici che mi erano più care e anche le altre – si unirono
ai miei lamenti. Le rimproverai per non avermi avvertita della partenza di mio figlio
e di non aver cercato di fermarlo, finché quella vecchia gallina di Euriclea
non confessò di aver aiutato lei stessa Telemaco a imbarcarsi. E se me
l’avevano tenuto nascosto era solo perché non mi agitassi. Ma ogni cosa sarebbe
andata per il meglio, concluse, perché gli dèi erano giusti. Mi trattenni dal
farle notare che fino a quel momento non ne avevo avuto molte prove.
Quando mi sentivo
abbattuta e dopo avere pianto fin quasi a trasformarmi in un lago, ecco che,
finalmente, riuscivo sempre a prendere sonno. E quando dormivo, sognavo. Anche
quella notte fui visitata da un succedersi di sogni dei quali non è rimasta
traccia perché non li raccontai ad anima viva. In uno di essi, la testa di
Odisseo andava in pezzi mentre i Ciclopi gli divoravano il cervello; in un
altro, lui si tuffava in acqua dalla nave e nuotava verso le sirene, che
cantavano con una dolcezza ammaliante, proprio come le mie ancelle, ma avevano
già proteso i loro artigli da uccello per dilaniarlo; in un altro ancora, Odisseo
faceva l’amore con una bellissima dea e ne era estasiato. Poi la dea si
trasformava in Elena che, al di sopra della spalla nuda di mio marito, mi
guardava con un sorriso malizioso. Quest’ultimo sogno mi agitò al punto da
svegliarmi, così pregai che non fosse veritiero, ma uscito dalla grotta di
Morfeo attraverso la porta d’avorio e non, come i sogni che corrispondono alla
realtà, attraverso la porta di corno.
Ripresi a dormire e
finalmente ebbi un sogno consolante. Quest’ultimo l’ho raccontato, forse
qualcuno ne avrà sentito parlare. Mia sorella Iftima - era tanto più vecchia di
me che avevo appena avuto il tempo di conoscerla, perché si era sposata ed era
andata lontano da palazzo - entrò nella mia camera, si avvicinò al mio letto e
riferì di essere stata mandata da Atena perché gli dèi non volevano vedermi
soffrire, e mi annunciavano che Telemaco sarebbe tornato sano e salvo. Ma
quando le chiesi notizie di Odisseo - era vivo o morto? - non ottenni risposta,
poi svanì.
Non mi si dica più
che gli dèi non volevano vedermi soffrire. Sono dei provocatori. Ero come un
cane randagio, preso a sassate o con il fuoco attaccato alla coda per farli divertire.
Né la carne né le ossa degli animali li interessavano; soltanto la nostra sofferenza.
traduzione
di G. Aurelio Privitera
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