13 luglio 2018

da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood

Jacques-Louis David - Elena e Paride
da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood
(…)
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Elena mi rovina la vita
Col passare del tempo mi abituai alla mia nuova casa, per quanto avessi ben poca autorità nella vita domestica. Euriclea e mia suocera si occupavano di tutto e prendevano giorno per giorno le decisioni necessarie. Odisseo aveva la responsabilità del regno, naturalmente, insieme a suo padre, Laerte, che s’intrometteva sia per discutere le decisioni del figlio sia per approvarle. In altre parole c’era, nell’amministrazione familiare, un’alternanza prestabilita oltre la quale non si poteva andare. Io, e su questo punto tutti erano d’accordo, non ne feci mai parte.
Le cene erano particolarmente estenuanti. Tra gli uomini erano troppe le correnti sotterranee, i risentimenti e le proteste trattenute, ma ancor di più pesavano i silenzi rancorosi che aleggiavano intorno a mia suocera. Se cercavo di parlarle, mi rispondeva senza guardarmi, ma si rivolgeva a uno sgabello o al tavolo. Parole adatte ai mobili, legnose e dure.
Mi accorsi subito che, per stare tranquilla, dovevo estraniarmi e rifugiarmi nell’accudire Telemaco, quando Euriclea me lo permetteva. «Sei poco più che una bambina anche tu» diceva strappandomi mio figlio dalle braccia. «Mi occuperò io di questo tesoruccio. Tu esci, divertiti.»
Ma era difficile seguire il suo consiglio. Passeggiare tra gli scogli o in riva al mare, come una contadina o una schiava, era fuori questione: ogni volta che uscivo dovevo portare con me due ancelle - avevo una reputazione da mantenere e la reputazione della moglie di un re è soggetta a un esame continuo - e le ancelle mi seguivano a qualche passo di distanza. Mentre camminavo, con indosso i miei bei vestiti, mi sentivo come un cavallo premiato che sfila in corteo, e i marinai mi guardavano e le donne dell’isola bisbigliavano tra loro. Senza amiche della mia età e del mio rango, quelle passeggiate non erano molto
piacevoli e diventarono via via più rare.
Qualche volta andavo a sedermi nel cortile a filare la lana e ad ascoltare le ancelle ridere, scherzare, cantare, mentre attendevano ai propri compiti nei fabbricati intorno alla reggia. Era un modo per avere un po’ di compagnia, perché c’era sempre qualche schiava che lavorava al telaio. Mi piaceva tessere, anche se non particolarmente; mi rassicurava quel movimento ritmico e lento, e il pensiero che mia suocera non avrebbe potuto accusarmi di stare in ozio. Non aveva mai detto una parola in proposito ma, lo so bene, esiste anche l’accusa silenziosa.
Passavo molto tempo nella nostra camera - la camera che dividevo con Odisseo. Era abbastanza bella, si vedeva il mare, ma nulla in confronto a quella che avevo a Sparta. Il letto, costruito da Odisseo, era molto particolare, perché una delle colonne era intagliata in un albero di ulivo che aveva le radici ancora interrate. Così, diceva, nessuno avrebbe mai potuto portar via o spostare quel letto, un felice presagio per i figli che vi sarebbero stati concepiti. La colonna d’ulivo era un gran segreto, nessuno lo sapeva eccetto noi due e la mia ancella Attoride - che morì quasi subito. Se fosse circolata la voce, mi ammoniva Odisseo con una finta aria di minaccia, avrebbe capito che ero stata in quel letto con un altro e allora - aggrottava la fronte in un modo che credeva scherzoso - si sarebbe arrabbiato moltissimo e mi avrebbe tagliato in tanti pezzettini, oppure mi avrebbe appesa a
una trave del soffitto.
Io mostravo di aver paura e lo rassicuravo che mai, mai avrei pensato di tradire il segreto della colonna d’ulivo.
Ridevo, ma avevo paura davvero.
In quel letto passammo i nostri momenti più belli. Dopo l’amore, Odisseo amava chiacchierare con me di molte cose, cose che riguardavano lui, le sue avventure di caccia,
le sue spedizioni ladresche, le virtù del suo arco che nessun altro riusciva a tendere, i favori ricevuti dalla dea Atena come premio per il suo ingegno e l’abilità d’inventare travestimenti e stratagemmi. Ma mi raccontò anche tante altre storie - mi spiegò che cosa aveva causato la maledizione della casa di Atreo e come Perseo, ottenuto da Ade l’Elmo dell’Invisibilità, fosse riuscito a tagliare la testa della Gorgone; poi mi parlò di Teseo e del suo amico Piritoo, che avevano rapito mia cugina Elena quando non aveva ancora dodici anni e l’avevano nascosta con l’intenzione di tirare a sorte chi dei due l’avrebbe sposata quando fosse stata abbastanza grande. Teseo, anche se gli sarebbe stato possibile, non l’aveva stuprata, perché era ancora una bambina, o almeno così si diceva. Elena era stata
salvata dai suoi due fratelli, Castore e Polluce, che per riaverla avevano dovuto combattere e vincere una guerra contro Atene.
Conoscevo già quest’ultima storia, me la riferì Elena. Era solo un po’ diversa. Secondo Elena, Teseo e Piritoo erano in un tale stato di soggezione di fronte alla sua bellezza che svenivano solo a guardarla e non riuscivano ad avvicinarsi per abbracciarle le ginocchia e chiederle perdono per la loro audacia. L’aspetto della storia che a Elena piaceva di più era che fossero morti tanti uomini nella guerra contro Atene, lo considerava un tributo rivolto a lei. È triste pensare che in così tanti l’avessero ammirata, colmandola di doni e di apprezzamenti lusinghieri, al punto da farle perdere la testa. Credeva di poter avere tutto ciò che voleva, come gli dèi dai quali - ne era convinta - discendeva.
Spesso ripetei a me stessa che forse, se Elena non fosse stata accecata dalla vanità, saremmo stati risparmiati dai dolori e dalle sofferenze che il suo egoismo e la sua folle bramosia scaraventarono sulle nostre teste. Non avrebbe potuto condurre una vita normale? No, le vite normali sono noiose ed Elena aveva troppe ambizioni. Voleva essere celebre, non far parte del gregge.
Telemaco aveva un anno quando la sciagura si abbatté su di noi. Per colpa di Elena, come tutto il mondo conosce.
Il primo che recò notizia della catastrofe incombente fu il capitano di una nave spartana attraccata nel nostro porto. Scopo del viaggio, che si sarebbe svolto nelle isole vicine, era il commercio degli schiavi. Come sempre, quando si trattava di persone di condizione sociale elevata, invitammo il capitano a cena e a passare la notte da noi. Gli ospiti erano una preziosa fonte di informazione - sapevano chi era nato, chi era morto e chi si era appena sposato, chi aveva perso la vita in duello, chi aveva sacrificato il proprio figlioletto a una divinità o a un’altra -, ma in quell’occasione le notizie si rivelarono molto più importanti del solito.
Elena, ci raccontò il capitano, era fuggita con un principe troiano, Paride, figlio minore del re Priamo, famoso per la sua bellezza. Un vero colpo di fulmine. Durante i nove giorni di festeggiamenti indetti da Menelao in onore dell’alto rango dell’ospite, Elena e Paride non avevano fatto che guardarsi negli occhi dietro le spalle di Menelao, che non si era accorto di niente. Non mi meravigliai, Elena aveva lo spessore di un sasso e la sensibilità di un tronco d’albero. Paride non aveva mai lusingato la vanità di Elena, che era diventata via via più disponibile a cedere a chiunque sapesse assecondarla. E così, quando Menelao si era allontanato da palazzo per assistere a un funerale, i due amanti avevano caricato sulla nave di Paride tutto l’oro e l’argento che erano riusciti a prendere ed erano fuggiti.
Menelao, proseguì l’ospite, era in preda a una collera furibonda, come anche suo fratello Agamennone, per l’affronto recato all’onore della famiglia. Avevano mandato messaggeri a Troia, chiedendo la restituzione di Elena e del bottino, ma li avevano visti tornare a mani vuote. E intanto Paride ed Elena, la peccatrice, se la ridevano nascosti dietro le alte mura di Troia. Brutto affare, concluse soddisfatto, come capita spesso quando si vedono gli arroganti sbattere il volto a terra. Quella storia infamante era sulla bocca di tutti.
Mentre ascoltavamo, notai che Odisseo era molto pallido, silenzioso. Quella notte mi rivelò la causa della sua preoccupazione. «Abbiamo giurato aiuto a Menelao davanti al corpo fatto a pezzi di un cavallo sacro, è un giuramento che non ammette deroghe. Ciascuno di noi, ora, verrà chiamato a muover guerra a Troia per riavere Elena.» Non sarebbe stato facile, mi spiegò. Troia era potente, era un nocciolo più duro da schiacciare di quanto non fosse Atene, quando i fratelli di Elena, per la stessa ragione, l’avevano sfidata e sconfitta.
Mi trattenni dal commentare che Elena era un veleno pericoloso e andava messa in cantina dentro un baule ben chiuso, chiesi soltanto: «Devi andare anche tu?». Ero sconvolta al pensiero di dover restare a Itaca senza Odisseo. Che gioia avrei potuto provare da sola in quel palazzo? Senza amici, senza nessuno che fosse solidale con me?
Non ci sarebbero più stati i piaceri della notte a compensare la prepotenza di Euriclea e i silenzi raggelanti di mia suocera.
«Ho giurato anch’io» mormorò Odisseo. «Sono stato io a proporre quel giuramento. Sarebbe strano se non partecipassi.»
Eppure ci provò. Quando Agamennone e Menelao si presentarono a palazzo, insieme a un terzo uomo, Palamede, che si rivelò poi decisivo - non era uno sciocco come gli altri - Odisseo era pronto a riceverli. Aveva fatto credere a molti di essere impazzito, e per risultare plausibile, con un cappello da contadino in testa, aveva attaccato a un aratro un bue e un asino e si disponeva a seminare nei solchi manciate di sale. Mi sentii molto furba quando proposi ai tre visitatori di accompagnarli al campo perché assistessero a quel penoso spettacolo. «Vedrete» parlai tra le lacrime «non mi riconosce più, non riconosce nemmeno il suo bambino!» E per dimostrarlo presi in braccio Telemaco e lo portai con me.
Fu Palamede a smascherare Odisseo: afferrò Telemaco dalle mie braccia e lo depose davanti all’aratro in modo che, se non si fosse fermato, Odisseo avrebbe schiacciato il bambino.
E così dovette partire.
Gli altri tre lo blandirono con lusinghe, sostenendo che un oracolo aveva decretato che Troia non sarebbe caduta senza il suo aiuto, cosa che, com’era prevedibile, favorì la sua decisione di lasciare Itaca. Chi di noi può resistere alla tentazione di essere giudicato indispensabile?


traduzione di G. Aurelio Privitera

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