Jacques-Louis David - Elena e Paride
da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood
(…)
11
Elena mi rovina la
vita
Col passare del tempo mi abituai alla mia nuova casa, per
quanto avessi ben poca autorità nella vita domestica. Euriclea e mia suocera si
occupavano di tutto e prendevano giorno per giorno le decisioni necessarie.
Odisseo aveva la responsabilità del regno, naturalmente, insieme a suo padre,
Laerte, che s’intrometteva sia per discutere le decisioni del figlio sia per
approvarle. In altre parole c’era, nell’amministrazione familiare, un’alternanza
prestabilita oltre la quale non si poteva andare. Io, e su questo punto tutti erano
d’accordo, non ne feci mai parte.
Le cene erano particolarmente estenuanti. Tra gli uomini
erano troppe le correnti sotterranee, i risentimenti e le proteste trattenute,
ma ancor di più pesavano i silenzi rancorosi che aleggiavano intorno a mia
suocera. Se cercavo di parlarle, mi rispondeva senza guardarmi, ma si rivolgeva
a uno sgabello o al tavolo. Parole adatte ai mobili, legnose e dure.
Mi accorsi subito che, per stare tranquilla, dovevo
estraniarmi e rifugiarmi nell’accudire Telemaco, quando Euriclea me lo
permetteva. «Sei poco più che una bambina anche tu» diceva strappandomi mio
figlio dalle braccia. «Mi occuperò io di questo tesoruccio. Tu esci,
divertiti.»
Ma era difficile seguire il suo consiglio. Passeggiare
tra gli scogli o in riva al mare, come una contadina o una schiava, era fuori
questione: ogni volta che uscivo dovevo portare con me due ancelle - avevo una
reputazione da mantenere e la reputazione della moglie di un re è soggetta a un
esame continuo - e le ancelle mi seguivano a qualche passo di distanza. Mentre
camminavo, con indosso i miei bei vestiti, mi sentivo come un cavallo premiato
che sfila in corteo, e i marinai mi guardavano e le donne dell’isola
bisbigliavano tra loro. Senza amiche della mia età e del mio rango, quelle
passeggiate non erano molto
piacevoli e diventarono via via più rare.
Qualche volta andavo a sedermi nel cortile a filare la
lana e ad ascoltare le ancelle ridere, scherzare, cantare, mentre attendevano
ai propri compiti nei fabbricati intorno alla reggia. Era un modo per avere un
po’ di compagnia, perché c’era sempre qualche schiava che lavorava al telaio.
Mi piaceva tessere, anche se non particolarmente; mi rassicurava quel movimento
ritmico e lento, e il pensiero che mia suocera non avrebbe potuto accusarmi di
stare in ozio. Non aveva mai detto una parola in proposito ma, lo so bene, esiste
anche l’accusa silenziosa.
Passavo molto tempo nella nostra camera - la camera che
dividevo con Odisseo. Era abbastanza bella, si vedeva il mare, ma nulla in
confronto a quella che avevo a Sparta. Il letto, costruito da Odisseo, era
molto particolare, perché una delle colonne era intagliata in un albero di
ulivo che aveva le radici ancora interrate. Così, diceva, nessuno avrebbe mai potuto
portar via o spostare quel letto, un felice presagio per i figli che vi
sarebbero stati concepiti. La colonna d’ulivo era un gran segreto, nessuno lo
sapeva eccetto noi due e la mia ancella Attoride - che morì quasi subito. Se
fosse circolata la voce, mi ammoniva Odisseo con una finta aria di minaccia,
avrebbe capito che ero stata in quel letto con un altro e allora - aggrottava
la fronte in un modo che credeva scherzoso - si sarebbe arrabbiato moltissimo e
mi avrebbe tagliato in tanti pezzettini, oppure mi avrebbe appesa a
una trave del soffitto.
Io mostravo di aver paura e lo rassicuravo che mai, mai
avrei pensato di tradire il segreto della colonna d’ulivo.
Ridevo, ma avevo paura davvero.
In quel letto passammo i nostri momenti più belli. Dopo
l’amore, Odisseo amava chiacchierare con me di molte cose, cose che
riguardavano lui, le sue avventure di caccia,
le sue spedizioni ladresche, le virtù del suo arco che
nessun altro riusciva a tendere, i favori ricevuti dalla dea Atena come premio
per il suo ingegno e l’abilità d’inventare travestimenti e stratagemmi. Ma mi
raccontò anche tante altre storie - mi spiegò che cosa aveva causato la
maledizione della casa di Atreo e come Perseo, ottenuto da Ade l’Elmo dell’Invisibilità,
fosse riuscito a tagliare la testa della Gorgone; poi mi parlò di Teseo e del suo
amico Piritoo, che avevano rapito mia cugina Elena quando non aveva ancora
dodici anni e l’avevano nascosta con l’intenzione di tirare a sorte chi dei due
l’avrebbe sposata quando fosse stata abbastanza grande. Teseo, anche se gli
sarebbe stato possibile, non l’aveva stuprata, perché era ancora una bambina, o
almeno così si diceva. Elena era stata
salvata dai suoi due fratelli, Castore e Polluce, che per
riaverla avevano dovuto combattere e vincere una guerra contro Atene.
Conoscevo già quest’ultima storia, me la riferì Elena.
Era solo un po’ diversa. Secondo Elena, Teseo e Piritoo erano in un tale stato
di soggezione di fronte alla sua bellezza che svenivano solo a guardarla e non
riuscivano ad avvicinarsi per abbracciarle le ginocchia e chiederle perdono per
la loro audacia. L’aspetto della storia che a Elena piaceva di più era che
fossero morti tanti uomini nella guerra contro Atene, lo considerava un tributo
rivolto a lei. È triste pensare che in così tanti l’avessero ammirata,
colmandola di doni e di apprezzamenti lusinghieri, al punto da farle perdere la
testa. Credeva di poter avere tutto ciò che voleva, come gli dèi dai quali - ne
era convinta - discendeva.
Spesso ripetei a me stessa che forse, se Elena non fosse stata
accecata dalla vanità, saremmo stati risparmiati dai dolori e dalle sofferenze
che il suo egoismo e la sua folle bramosia scaraventarono sulle nostre teste.
Non avrebbe potuto condurre una vita normale? No, le vite normali sono noiose
ed Elena aveva troppe ambizioni. Voleva essere celebre, non far parte del
gregge.
Telemaco aveva un anno quando la sciagura si abbatté su
di noi. Per colpa di Elena, come tutto il mondo conosce.
Il primo che recò notizia della catastrofe incombente fu
il capitano di una nave spartana attraccata nel nostro porto. Scopo del
viaggio, che si sarebbe svolto nelle isole vicine, era il commercio degli
schiavi. Come sempre, quando si trattava di persone di condizione sociale
elevata, invitammo il capitano a cena e a passare la notte da noi. Gli ospiti
erano una preziosa fonte di informazione - sapevano chi era nato, chi era morto
e chi si era appena sposato, chi aveva perso la vita in duello, chi aveva
sacrificato il proprio figlioletto a una divinità o a un’altra -, ma in quell’occasione
le notizie si rivelarono molto più importanti del solito.
Elena, ci raccontò il capitano, era fuggita con un
principe troiano, Paride, figlio minore del re Priamo, famoso per la sua
bellezza. Un vero colpo di fulmine. Durante i nove giorni di festeggiamenti
indetti da Menelao in onore dell’alto rango dell’ospite, Elena e Paride non
avevano fatto che guardarsi negli occhi dietro le spalle di Menelao, che non si
era accorto di niente. Non mi meravigliai, Elena aveva lo spessore di un sasso
e la sensibilità di un tronco d’albero. Paride non aveva mai lusingato la
vanità di Elena, che era diventata via via più disponibile a cedere a chiunque
sapesse assecondarla. E così, quando Menelao si era allontanato da palazzo per
assistere a un funerale, i due amanti avevano caricato sulla nave di Paride
tutto l’oro e l’argento che erano riusciti a prendere ed erano fuggiti.
Menelao, proseguì l’ospite, era in preda a una collera
furibonda, come anche suo fratello Agamennone, per l’affronto recato all’onore
della famiglia. Avevano mandato messaggeri a Troia, chiedendo la restituzione
di Elena e del bottino, ma li avevano visti tornare a mani vuote. E intanto
Paride ed Elena, la peccatrice, se la ridevano nascosti dietro le alte mura di
Troia. Brutto affare, concluse soddisfatto, come capita spesso quando si vedono
gli arroganti sbattere il volto a terra. Quella storia infamante era sulla
bocca di tutti.
Mentre ascoltavamo, notai che Odisseo era molto pallido,
silenzioso. Quella notte mi rivelò la causa della sua preoccupazione. «Abbiamo
giurato aiuto a Menelao davanti al corpo fatto a pezzi di un cavallo sacro, è
un giuramento che non ammette deroghe. Ciascuno di noi, ora, verrà chiamato a
muover guerra a Troia per riavere Elena.» Non sarebbe stato facile, mi spiegò.
Troia era potente, era un nocciolo più duro da schiacciare di quanto non fosse
Atene, quando i fratelli di Elena, per la stessa ragione, l’avevano sfidata e
sconfitta.
Mi trattenni dal commentare che Elena era un veleno
pericoloso e andava messa in cantina dentro un baule ben chiuso, chiesi
soltanto: «Devi andare anche tu?». Ero sconvolta al pensiero di dover restare a
Itaca senza Odisseo. Che gioia avrei potuto provare da sola in quel palazzo?
Senza amici, senza nessuno che fosse solidale con me?
Non ci sarebbero più stati i piaceri della notte a
compensare la prepotenza di Euriclea e i silenzi raggelanti di mia suocera.
«Ho giurato anch’io» mormorò Odisseo. «Sono stato io a
proporre quel giuramento. Sarebbe strano se non partecipassi.»
Eppure ci provò. Quando Agamennone e Menelao si
presentarono a palazzo, insieme a un terzo uomo, Palamede, che si rivelò poi
decisivo - non era uno sciocco come gli altri - Odisseo era pronto a riceverli.
Aveva fatto credere a molti di essere impazzito, e per risultare plausibile,
con un cappello da contadino in testa, aveva attaccato a un aratro un bue e un
asino e si disponeva a seminare nei solchi manciate di sale. Mi sentii molto
furba quando proposi ai tre visitatori di accompagnarli al campo perché assistessero
a quel penoso spettacolo. «Vedrete» parlai tra le lacrime «non mi riconosce
più, non riconosce nemmeno il suo bambino!» E per dimostrarlo presi in braccio
Telemaco e lo portai con me.
Fu Palamede a smascherare Odisseo: afferrò Telemaco dalle
mie braccia e lo depose davanti all’aratro in modo che, se non si fosse
fermato, Odisseo avrebbe schiacciato il bambino.
E così dovette partire.
Gli altri tre lo blandirono con lusinghe, sostenendo che
un oracolo aveva decretato che Troia non sarebbe caduta senza il suo aiuto,
cosa che, com’era prevedibile, favorì la sua decisione di lasciare Itaca. Chi
di noi può resistere alla tentazione di essere giudicato indispensabile?
traduzione di G.
Aurelio Privitera
Nessun commento:
Posta un commento