Sir Lawrence Alma Tadema - A Coign of Vantage, detail
da “Il canto di Penelope” - Margaret Atwood
(…)
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Un urlo di gioia
Chi può dire che le preghiere servano a qualcosa? D’altra parte, chi può dire che non servano a niente? Me li vedo gli dèi gironzolare per l’Olimpo, crogiolandosi tra nettare, ambrosia e profumo di ossa e grasso alla fiamma, come una banda di ragazzini di dieci anni che molestano un gatto malconcio e non sanno come passare il tempo. «A quale preghiera rispondiamo oggi?» si chiedono l’un l’altro. «Tiriamo i dadi! Per questa c’è speranza, per quest’altra no e, intanto, perché uno di noi, magari sotto forma di aragosta, non va a distruggere la vita di quella donna laggiù, con un po’ di sesso veloce?» Credo che facciano un mucchio di scherzi perché si annoiano.
Per vent’anni le mie preghiere non sono state esaudite, ma quel giorno avevo appena celebrato il solito rito e mi ero asciugata le solite lacrime, quando Odisseo entrò nel cortile trascinando i piedi.
Quel modo di camminare faceva parte del travestimento. Da lui non c’era da aspettarsi di meno. Si era già reso conto di quello che era successo a palazzo - i pretendenti, lo scempio che avevano fatto delle sue proprietà, il progetto di uccidere Telemaco, gli abusi sessuali sulle ancelle, l’intenzione di portargli via la moglie - e aveva saggiamente deciso di non entrare annunciandosi e ordinando loro di levarsi di torno. Se l’avesse fatto, in pochi minuti sarebbe morto. Aveva preso l’aspetto di un mendicante vecchio e sporco. Era favorito dalla circostanza che molti dei pretendenti non l’avevano mai visto, perché erano troppo giovani quando era partito. Il travestimento era ben riuscito, speravo solo che le rughe e la calvizie fossero parte della finzione. Nel vedere quel torace sporgente e quelle gambe corte avevo avuto un lampo, poi, sentendo che aveva spezzato il collo a un altro rissoso mendicante, non avevo più avuto dubbi. Era il suo stile: cauto, quando necessario, ma senza rinunciare all’attacco diretto se aveva la certezza di vincere. Non gli mostrai di avere capito. Sarebbe stato pericoloso per lui. E poi, quando un uomo è orgoglioso della propria bravura nel travestirsi, è sciocco che la moglie palesi di averlo riconosciuto: è sempre imprudente mettersi tra un uomo e la dimostrazione delle sue capacità.
Telemaco sapeva, me ne accorsi subito. Era per natura un tessitore d’inganni come suo padre, ma non altrettanto bravo. Quando ha condotto davanti a me il finto mendicante era impacciato, balbettava, non mi guardava in faccia e si è tradito.
Ma questo accadde più tardi. Odisseo trascorse le prime ore girando per il palazzo, insultato dai pretendenti, che lo schernivano e gli tiravano addosso delle immondizie. Non avevo avuto il tempo, purtroppo, di avvertire le mie dodici ancelle, che continuarono il loro gioco, trattando male Telemaco e facendo coro agli insulti dei pretendenti. La più tagliente, mi è stato detto, era Melanto dalle belle gote. Decisi che, al momento giusto, avrei avvertito Odisseo di essere stata io a ordinare alle ragazze di comportarsi in quel modo.
Venuta la sera, organizzai un incontro con il finto mendicante nell’atrio del palazzo, ormai deserto. Lui sostenne di avere notizie di Odisseo - mi sciorinò qualche storia plausibile, assicurandomi che mio marito sarebbe tornato a casa molto presto. Io, piangendo, confessai il timore che non fosse vero, perché da molti anni ormai, viaggiatori provenienti da tutte le parti del mondo mi ripetevano le stesse cose. Parlai a lungo delle mie sofferenze e del desiderio di rivedere mio marito - meglio che lo sentisse quando era vestito da vagabondo, perché gli sarebbe stato più facile credermi. Poi, lo lusingai chiedendogli un consiglio. Avevo deciso - così gli dissi - di mostrare ai pretendenti il grande arco di Odisseo. Con quell’arco, lui aveva lanciato una freccia attraverso gli anelli fissati sul manico di dodici scuri piantate in terra una in fila all’altra, un’impresa straordinaria, che ora volevo invitarli a ripetere, offrendo me stessa in premio.
Si sarebbe arrivati così, in un modo o nell’altro, a porre fine alla situazione intollerabile in
cui mi trovavo. Che cosa ne pensava, l’ospite mendicante?
La giudicò un’idea eccellente.
Cantano gli aedi che l’arrivo di Odisseo e la mia decisione di indire la gara dell’arco e delle dodici scuri siano avvenuti, per caso, contemporaneamente. No, la verità è quella che ho appena ricordato. Sapevo che solo Odisseo sarebbe stato capace di vincere questo gioco di abilità con l’arco. E sapevo che quel mendicante era Odisseo. Non fu una coincidenza, ma una mia idea.
Man mano che parlavo con quel lacero, finto vagabondo, il mio tono diventava sempre più confidenziale, tanto che gli raccontai un sogno: mentre il mio stormo di oche, bianche e belle, che mi piaceva tanto, becchettava nel cortile, un’enorme aquila con un becco ricurvo vi era piombata sopra e aveva ucciso tutte le oche, e io avevo pianto a lungo. Il mendicante Odisseo mi fornì questa interpretazione: le oche erano i pretendenti e l’aquila mio marito, che li avrebbe presto uccisi. Non mi sembrò il caso di insistere su quel becco ricurvo e sul mio dolore per la morte di quelle oche che mi erano tanto care. L’interpretazione di Odisseo era sbagliata. Lui sì, era l’aquila, ma le oche non erano i pretendenti. Le oche erano le mie dodici ancelle, presto sarebbero morte e il mio dolore sarebbe stato senza fine.
C’è un particolare cui i cantori hanno sempre attribuito molta importanza. Avevo ordinato alle ancelle di lavare i piedi del mendicante Odisseo, ma lui non era stato d’accordo e aveva detto che era deciso a permetterlo solo a chi non lo avesse deriso nel vederli così nodosi e malridotti. Proposi allora che se ne occupasse la vecchia Euriclea, i cui piedi non erano certo più belli dei suoi. Lei si mise al lavoro brontolando, senza sospettare che avevo innescato una bomba, ma notò subito una lunga cicatrice che conosceva bene perché tante e tante altre volte aveva lavato i piedi a Odisseo. Lanciò un urlo di gioia, il bacile si rovesciò e Odisseo quasi la strozzò per impedire che lo tradisse.
Dicono i cantori che non mi accorsi di nulla, perché Atena distolse la mia attenzione. Se qualcuno crede loro, significa che può credere a qualsiasi sciocchezza. Io voltai le spalle per poter sorridere tranquillamente della mia piccola sorpresa così ben riuscita.
traduzione di G. Aurelio Privitera
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Un urlo di gioia
Chi può dire che le preghiere servano a qualcosa? D’altra parte, chi può dire che non servano a niente? Me li vedo gli dèi gironzolare per l’Olimpo, crogiolandosi tra nettare, ambrosia e profumo di ossa e grasso alla fiamma, come una banda di ragazzini di dieci anni che molestano un gatto malconcio e non sanno come passare il tempo. «A quale preghiera rispondiamo oggi?» si chiedono l’un l’altro. «Tiriamo i dadi! Per questa c’è speranza, per quest’altra no e, intanto, perché uno di noi, magari sotto forma di aragosta, non va a distruggere la vita di quella donna laggiù, con un po’ di sesso veloce?» Credo che facciano un mucchio di scherzi perché si annoiano.
Per vent’anni le mie preghiere non sono state esaudite, ma quel giorno avevo appena celebrato il solito rito e mi ero asciugata le solite lacrime, quando Odisseo entrò nel cortile trascinando i piedi.
Quel modo di camminare faceva parte del travestimento. Da lui non c’era da aspettarsi di meno. Si era già reso conto di quello che era successo a palazzo - i pretendenti, lo scempio che avevano fatto delle sue proprietà, il progetto di uccidere Telemaco, gli abusi sessuali sulle ancelle, l’intenzione di portargli via la moglie - e aveva saggiamente deciso di non entrare annunciandosi e ordinando loro di levarsi di torno. Se l’avesse fatto, in pochi minuti sarebbe morto. Aveva preso l’aspetto di un mendicante vecchio e sporco. Era favorito dalla circostanza che molti dei pretendenti non l’avevano mai visto, perché erano troppo giovani quando era partito. Il travestimento era ben riuscito, speravo solo che le rughe e la calvizie fossero parte della finzione. Nel vedere quel torace sporgente e quelle gambe corte avevo avuto un lampo, poi, sentendo che aveva spezzato il collo a un altro rissoso mendicante, non avevo più avuto dubbi. Era il suo stile: cauto, quando necessario, ma senza rinunciare all’attacco diretto se aveva la certezza di vincere. Non gli mostrai di avere capito. Sarebbe stato pericoloso per lui. E poi, quando un uomo è orgoglioso della propria bravura nel travestirsi, è sciocco che la moglie palesi di averlo riconosciuto: è sempre imprudente mettersi tra un uomo e la dimostrazione delle sue capacità.
Telemaco sapeva, me ne accorsi subito. Era per natura un tessitore d’inganni come suo padre, ma non altrettanto bravo. Quando ha condotto davanti a me il finto mendicante era impacciato, balbettava, non mi guardava in faccia e si è tradito.
Ma questo accadde più tardi. Odisseo trascorse le prime ore girando per il palazzo, insultato dai pretendenti, che lo schernivano e gli tiravano addosso delle immondizie. Non avevo avuto il tempo, purtroppo, di avvertire le mie dodici ancelle, che continuarono il loro gioco, trattando male Telemaco e facendo coro agli insulti dei pretendenti. La più tagliente, mi è stato detto, era Melanto dalle belle gote. Decisi che, al momento giusto, avrei avvertito Odisseo di essere stata io a ordinare alle ragazze di comportarsi in quel modo.
Venuta la sera, organizzai un incontro con il finto mendicante nell’atrio del palazzo, ormai deserto. Lui sostenne di avere notizie di Odisseo - mi sciorinò qualche storia plausibile, assicurandomi che mio marito sarebbe tornato a casa molto presto. Io, piangendo, confessai il timore che non fosse vero, perché da molti anni ormai, viaggiatori provenienti da tutte le parti del mondo mi ripetevano le stesse cose. Parlai a lungo delle mie sofferenze e del desiderio di rivedere mio marito - meglio che lo sentisse quando era vestito da vagabondo, perché gli sarebbe stato più facile credermi. Poi, lo lusingai chiedendogli un consiglio. Avevo deciso - così gli dissi - di mostrare ai pretendenti il grande arco di Odisseo. Con quell’arco, lui aveva lanciato una freccia attraverso gli anelli fissati sul manico di dodici scuri piantate in terra una in fila all’altra, un’impresa straordinaria, che ora volevo invitarli a ripetere, offrendo me stessa in premio.
Si sarebbe arrivati così, in un modo o nell’altro, a porre fine alla situazione intollerabile in
cui mi trovavo. Che cosa ne pensava, l’ospite mendicante?
La giudicò un’idea eccellente.
Cantano gli aedi che l’arrivo di Odisseo e la mia decisione di indire la gara dell’arco e delle dodici scuri siano avvenuti, per caso, contemporaneamente. No, la verità è quella che ho appena ricordato. Sapevo che solo Odisseo sarebbe stato capace di vincere questo gioco di abilità con l’arco. E sapevo che quel mendicante era Odisseo. Non fu una coincidenza, ma una mia idea.
Man mano che parlavo con quel lacero, finto vagabondo, il mio tono diventava sempre più confidenziale, tanto che gli raccontai un sogno: mentre il mio stormo di oche, bianche e belle, che mi piaceva tanto, becchettava nel cortile, un’enorme aquila con un becco ricurvo vi era piombata sopra e aveva ucciso tutte le oche, e io avevo pianto a lungo. Il mendicante Odisseo mi fornì questa interpretazione: le oche erano i pretendenti e l’aquila mio marito, che li avrebbe presto uccisi. Non mi sembrò il caso di insistere su quel becco ricurvo e sul mio dolore per la morte di quelle oche che mi erano tanto care. L’interpretazione di Odisseo era sbagliata. Lui sì, era l’aquila, ma le oche non erano i pretendenti. Le oche erano le mie dodici ancelle, presto sarebbero morte e il mio dolore sarebbe stato senza fine.
C’è un particolare cui i cantori hanno sempre attribuito molta importanza. Avevo ordinato alle ancelle di lavare i piedi del mendicante Odisseo, ma lui non era stato d’accordo e aveva detto che era deciso a permetterlo solo a chi non lo avesse deriso nel vederli così nodosi e malridotti. Proposi allora che se ne occupasse la vecchia Euriclea, i cui piedi non erano certo più belli dei suoi. Lei si mise al lavoro brontolando, senza sospettare che avevo innescato una bomba, ma notò subito una lunga cicatrice che conosceva bene perché tante e tante altre volte aveva lavato i piedi a Odisseo. Lanciò un urlo di gioia, il bacile si rovesciò e Odisseo quasi la strozzò per impedire che lo tradisse.
Dicono i cantori che non mi accorsi di nulla, perché Atena distolse la mia attenzione. Se qualcuno crede loro, significa che può credere a qualsiasi sciocchezza. Io voltai le spalle per poter sorridere tranquillamente della mia piccola sorpresa così ben riuscita.
traduzione di G. Aurelio Privitera
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