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20 agosto 2018

da “La pensione Eva” - Andrea Camilleri

Toulouse Lautrec Woman at her toilette
da “La pensione Eva” - Andrea Camilleri
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Nella càmmara di mangiare s’assittaro a tavola come il lunedì avanti. Le picciotte gradirono assà il cuddriruni, Grazia volle conoscerne la ricetta, quanta farina, quanto levito, per quanto abbisognava ‘mpastarla, quanto doveva stare a levitare sutta a una cuperta di lana, quanto suco di pumadoro, quanto caciocavallo, quante patate, quante sarde salate e a quanti gradi doveva essere famiato il forno.
Po’, mentre stavano a mangiarsi la sasizza arrustuta a puntino, Nenè fece la mala pinsata di spiare com’era andata la visita ai feriti tidischi. Dal silenzio che subito calò, si fece capace di avere fatto un errore.
«Non sarebbe il caso di parlarne qui e ora» disse la Signura Flora che ancora non si era andata a corcare. «Ma se Emanuela ti vuole raccontare il suo incontro, forse ti basta e non vorrai sapere altro.»
Aveva parlato in taliano, come faceva nelle grandi occasioni. Emanuela attaccò a contare. Ma si vedeva che lo faceva di malavoglia, il suo accento tidisco si notava chiossà.
«Lì dentro c’erano otto letti, quattro per parte, ma uno era vuoto. Io mi sono diretta verso l’ultimo a sinistra. Mentre mi avvicinavo… c’era pochissima luce…»
«Non si vedeva niente» l’interruppe la Signura, «non c’erano oblò perché la saletta doveva trovarsi molto in basso e non aveva una luce centrale, c’erano solo otto lampadine di piccolo voltaggio, ognuna che illuminava appena un letto. Continua.»
«Quel posto, già a entrarci, faceva stringere il cuore» disse Grazia a voce vascia.
«Mentre mi avvicinavo» ripigliò Emanuela «vedevo che il ferito stava appoggiato a tre cuscini che gli tenevano il busto molto sollevato. La testa era tutta fasciata, anche gli occhi, solo la bocca era scoperta. Ma quando mi sono seduta sulla sedia al capezzale, mi sono accorta che il ferito non era seduto, ma era poggiato così perché…»
S’interruppe, si vippi tutto d’un sciato mezzo bicchiere di vino.
«… perché non aveva più le gambe. Non aveva nemmeno il braccio sinistro. Sopra la testata del letto c’era un cartoncino col nome e il grado: sergente Hans Grimmel. Ero tutta sudata, non sapevo che fare. Ho provato a chiamarlo a bassa voce, “Hans, Hans!”, ma non mi ha sentito. L’infermiera, c’era solo quella, non si vedevano medici, a gesti, mi ha fatto capire che aveva perduto l’udito e la vista.
Io le ho detto che parlo il tedesco, ma lei mi ha sorriso e si è allontanata. Stavo seduta pensando a quanto era stata inutile quella visita quando il ferito lentissimamente ha voltato la testa verso di me. Aveva forse sentito il mio odore, non so. Poi ha teso con fatica la mano, l’unica, come per cercarmi. Io gliel’ho presa e gliel’ho stretta. Dopo un po’ ha cominciato a tirarmi a sé, ho capito che mi voleva più vicina. Mi sono inginocchiata accanto al letto. Allora lui ha lasciato la
mia mano e ha preso a toccarmi leggermente i capelli, la fronte, gli occhi, il naso, la bocca, il collo. È sceso ancora più giù e si è fermato. Ho capito quello che voleva. Ho tirato fuori la camicetta dalla gonna, mi sono sbottonata, mi sono tolta il reggiseno e ho guidato la sua mano. Mi ha carezzato a lungo. A un tratto ha ritirato la mano e ha preso a tossire, forte, mi pareva stesse soffocando. Mi sono riaggiustata, mi sono alzata e ho chiamato l’infermiera. Quando si è avvicinata le ho domandato se si poteva fare qualcosa per quella tosse insistente. Lei mi ha guardato e ha risposto che non c’era niente da fare perché il ferito non stava tossendo, ma piangendo. Ecco tutto.»
(…)

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