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2 giugno 2019

da L’isola di Arturo – Elsa Morante

da L’isola di Arturo – Elsa Morante

Il giorno seguente fu, per noi, fin dal risveglio, una festa felice. La luce si era levata così limpida, che pareva d’essere in aprile, invece che al 23 novembre; e, dopo aver dormito fino al tardo mattino, io feci una corsa alle spiagge e al molo, risalendo poi dalla parte della piazzetta. Il mare, l’aria e tutte le cose che incontravo sulla strada dividevano la mia felicità, quasi che l’intero universo fosse la mia famiglia. I giardini sui lati della strada, che, ieri notte, sembravano dei miraggi desertici, che si scostassero da me, oggi mi festeggiavano fedeli. E di nuovo io mi sentivo innamorato della mia isola, tutto ciò che sempre m’era piaciuto tornava a piacermi, perché Nunz. non era morta. Come se, fin dal tempo che eravamo piccoli, e io stavo qua a Procida, e lei a Napoli, fosse lei che metteva un pensiero di confidenza, per me, nell’indifferenza delle cose; e senza farmisi conoscere, al modo d’una gran signora.
Quel mattino stesso, lei con la creatura si trasferirono dalla stanzetta in una camera più grande: la medesima che mio padre. aveva già destinato a lei il giorno dell’arrivo, e dov’essa, allora, non aveva voluto dormire. Adesso, però, con la venuta della creatura, era finito per lei lo spavento di star sola la notte. E in quanto alla camera nuziale, questa rimase di nuovo proprietà indivisa di mio padre; giacché lei prevedeva che, al suo ritorno, egli non potrebbe sopportare ogni notte il pianto della creatura e altri simili disagi, che invece alle madri non dispiacciono.
E così, quella famosa stanza del primo giorno ritorna agli onori delle cronache, come dicono gli scrittori. Senz’altro, si provvide a trasportarvi un nuovo letto, scelto per l’occasione fra i molti fuori uso esistenti nel castello. Era un lettone matrimoniale di legno massiccio, dipinto con figure come usano fare a Sorrento (paesaggi, barche, la tarantella ecc.), e abbastanza elegante. Esso fu fornito di due materassi e di molti cuscini, che le donnette amiche di lei, subito accorse a visitarla, sbatterono e sprimacciarono con cura. E qua lei, simile a una regina, riceveva i complimenti delle altre.
Portava i capelli semplicemente legati da una fettuccia, come di solito li teneva per la notte; e sulle spalle aveva il suo scialletto di lana, chiuso da una comune spilla di merceria. Appariva fiera, e perfino lievemente pomposa (ma anche, in fondo, confusa), per essere al centro di tanti onori; e manteneva sempre, con le amiche, la sua attitudine di donna grave, piena di riserbo. Se poi qualcuna di loro si metteva a deplorare: — Poverina, vi siete sgravata sola sola, senza nessuno, senza nemmeno lo sposo vicino, come una gatta! Lo sposo vostro vi lascia sempre sola, eh, donna Nunzià! — essa rispondeva soltanto con un silenzio severo, come per ammonire quell’intrigante a badare ai fatti suoi.
Quando le sue amiche alzavano dal letto il bambino per soppesarlo e vezzeggiarlo, subito un’ombra di apprensione le velava lo sguardo, nel dubbio che gli facessero male. Ma tuttavia, al vederlo là, levato in trionfo come un eroe, aveva una risatina di piacere gioioso e ancora incerto, quasi domandandosi: «Davvero esso è MIO? è proprio MIO?»
Nell’allattarlo, badava a coprirsi il seno con lo scialletto; e se per caso in quel momento vedeva i miei occhi posarsi su di lei, arrossiva e si copriva meglio. (Adesso non era più come una volta, che non provava vergogna di me. E invece io, adesso, sentivo che, seppure lei non si fosse vergognata, non me ne sarei offeso). A intervalli, nella giornata, io ritornavo a visitarla, nella nuova camera, e mi sedevo sulla cassapanca, indugiandomi là. Credo che in quel giorno sarei stato contento pure di farle da servo, se lei ne avesse avuto bisogno; ma c’era sempre almeno una delle sue amiche, spesso parecchie, e io senza parlare me ne stavo imbronciato da una parte. Ora che s’erano abituate alla mia presenza, le sue amiche non s’intimidivano più di me, e ciarlavano di continuo; e io mi seccavo di udire le loro stupidaggini. Quanto poi a Carmine Arturo, mi pareva così brutto, con quella faccia di mutria che non sapeva nemmeno ridere, che, nella mia opinione, egli valeva meno dell’asso di coppe.
Intanto lei, pure fra tanta gente, non si dimenticava mai di me. Talora, in mezzo ai discorsi di quelle donne, senza badare a loro si volgeva soltanto a me, che stavo muto da una parte, e mi diceva, in una specie di timida confidenza: — Eh, Artù?... — Forse, intendeva chiedermi perdono per gli spaventi che m’aveva procurato la notte avanti! non mi diceva altro che questo: — Eh, Artù?... — La sua voce, pure adesso ch’essa era madre di una creatura, aveva serbato il noto sapore un po’ agrettino, quasi stonato, da ragazza che non ha ancora finito di crescere. E all’udire quella solita vocina che diceva: "Artù", quando poche ore avanti l’avevo già creduta morta, io provavo una felicità così impetuosa, turbolenta, che mi facevo ancora più cupo in faccia. Era il mio carattere. Non mi sarebbe dispiaciuto di dirle almeno queste due parole: SONO FELICE! Più volte, nella giornata, mi ripromettevo di presentarmi in camera e di dichiararle senz’altro: «Sono felice», sia pure in tono indifferente. Ma in conclusione, nemmeno una simile frase di due parole, non ebbi voglia di dirgliela

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