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15 aprile 2020

da Il cappotto di astrakan – Piero Chiara

da Il cappotto di astrakan – Piero Chiara


La prima notte è lunga per gli amanti. Ha pause di sonno, risvegli, momenti d'abbandono ma anche improvvise richieste di rivelazioni sul passato, confessioni, inquisizioni inammissibili, giustificate sol tanto dal nuovo legame appena stretto e più volte rinnovato nella notte. Nasce, dagli abbracci più teneri, un bisogno di dirsi tutto, che è il desiderio di conoscere e di farsi conoscere dall'estraneo o dall'estranea alla quale ci siamo concessi e come consegnati ormai per la vita.
Fu in uno di quei trasporti a luce sempre accesa, verso le tre della notte, che forse per le eccessive scosse che avevamo dato al letto, la porta dell'armadio, non chiusa a chiave, lentamente si aprì. Balzati a sedere, la guardammo esterrefatti staccarsi dalla battuta e seguire cigolando il proprio peso fino a spalancarsi interamente, come se la mano di un essere invisibile la muovesse per mostrarci l'interno dell'armadio, dove pendevano dalle grucce, uno accanto all'altro, il soprabito verde di Valentine e il mio cappotto di astrakan.
Ci guardammo sorridendo. Feci un piccolo sobbalzo sul letto e la porta dell'armadio, che si era fermata, si aprì d'un altro tratto con un ultimo cigolìo.
«Vecchi mobili» dissi «e vecchi pavimenti di assicelle, coi travetti, sensibili ad ogni movimento.»
Valentine era rimasta fissa all'armadio aperto. Le toccai un braccio. Si voltò e capii che stava per farmi un lungo discorso. Si ridistese infatti di fianco a me, ravviò i capelli con le dita, poi allungò un braccio fino al comodino, prese gli occhiali e se li mise. Era chiaro che stava per cominciare un interrogatorio in piena regola e voleva controllare le mie reazioni anche nei minimi movimenti del viso.
«Quel cappotto» cominciò «che mi hai detto di aver comperato ieri, a me non pare nuovo del tutto. E inoltre mi ricorda certe cose del passato che ti dirò, un po' per volta...»
Alle cinque del mattino, stavamo ancora parlando. Aveva cominciato col raccontarmi la morte della madre, scomparsa quando lei aveva tredici anni. Sua madre, di lontana origine italiana e di famiglia nobile, era andata sposa giovanissima a un ufficiale della marina mercantile, che dopo il matrimonio aveva smesso di navigare per occuparsi presso la Compagnia di Navigazione Paquet. Era bellissima, diceva, dolcissima, ma quando ne avrebbe avuto più bisogno le era mancata.
Passò poi a parlarmi d'un suo primo amore dell'adolescenza, nutrito di sogni più che di palpiti: una storia degli anni di scuola che mi sembrò assai comune e che forse le servi soltanto da introduzione al racconto della vicenda che aveva dominato la sua giovinezza: una “relazione”, disse, per far capire che si era trattato di un rapporto completo, ma senza escludere, anzi sottolineando, che si trattava di amore e al più alto grado possibile. Il giovane, o meglio l'uomo che l'aveva rivelata a se stessa era un essere eccezionale. Colto, raffinato, con un animo d'artista e un temperamento pieno di fantasia, che per uno scherzo della vita aveva finito col qualificarsi in un ambito totalmente estraneo alle sue grandi doti: quello dei funzionari di banca.
Purtroppo, una specie di improvvisa follia, un vero raptus, l'aveva già da due anni come cancellato dal mondo.
Stavo per domandarle se quell'uomo straordinario fosse terminato suicida o sfociato nella pazzia, quando Valentine, improvvisamente e come se le fosse tornato in mente un pensiero che aveva accantonato per abbandonarsi alla rievocazione di fatti essenziali, venne a parlare del cappotto di astrakan.
«È incredibile» disse «ma anche lui portava un cappotto di questo tipo, fatto dallo stesso sarto, e perfino dei “completi” di maglia uguali ai tuoi. Non parliamo poi della somiglianza fisica tra voi due, che a volte è addirittura impressionante, specialmente nell'intimità.»
Avevo sentito ormai tutta la storia del suo grande amore, nato durante la guerra e finito da due anni. In quale modo fosse finito non mi era ben chiaro, ma ormai potevo andare avanti io a raccontarle il resto, perché da una mezz'ora avevo saldato insieme una serie di elementi attraverso i quali mi era stato possibile dar sostanza a un dubbio che mi tormentava da qualche settimana: Maurice, il figlio della Lenormand, era stato il suo amico
o fidanzato fino a due anni avanti, quando si era innamorato d'una indocinese che aveva seguito in Oriente, abbandonando per sempre patria, madre e fidanzata. Il primo sospetto mi era venuto leggendo, nel brogliaccio di Maurice, alcune minute delle sue lettere d'amore dalle quali era in qualche modo possibile intuire il tipo fisico e anche il carattere di Valentine. Quando, il giorno prima, alla gare Saint-Lazare mi ero mostrato alla ragazza col cappotto di Maurice e l'avevo vista sorpresa, non mi erano rimasti più dubbi. Tanto che appena coricati, al pomeriggio, la mia emozione durante il nostro primo avvicinamento era stata deviata da un'idea fissa: verificare se l'immagine delle “violacee corolle” era reale, oppure niente altro che una fantasia poetica.
Una sfumatura livida, un colore simile a quello dei petali appassiti delle mammole, se non era suggestione, l'avevo notata al sommo dei suoi seni, nel giro delle aureole, più evidente verso i margini, con un brivido, come se le avessi scoperto dei bubboni o delle enfiature, il segno di un contagio che stranamente, invece di farmi paura o inorridirmi, mi attraeva.
Prima di iniziare la mia confessione mi alzai dal letto e andai a chiudere con la chiave la porta dell'armadio perché non ci facesse più lo scherzo di aprirsi inaspettatamente, poi mi sedetti con le spalle appoggiate alla testata e cominciai a parlare mentre Valentine, con le coperte fino al collo, mi stava ad ascoltare fissandomi attraverso gli occhiali.
«Quando sono arrivato a Parigi» cominciai «ho preso alloggio all'Hôtel du Midi, un alberghetto di rue de l'Arrivée, ma otto giorni dopo ho cercato una camera ammobiliata nei dintorni e l'ho trovata in rue de Fleurus, presso una vedova: la signora Lenormand.»
«La signora Lenormand!» scattò Valentine uscendo a metà dalle coperte.
«Per la verità» continuai «non voleva accettarmi. Ma poi d'un tratto cambiò idea, mi mostrò la camera che era stata di suo figlio Maurice e mi domandò un prezzo, per l'affitto, direi quasi simbolico. Capii più tardi, quando mi parlò di suo figlio, che per alleviare o ingannare la sua sofferenza aveva pensato di considerarmi una specie di ritratto vivente o di reincarnazione del transfuga, mettendomi al suo posto e vestendomi addirittura dei suoi panni. Sì, perché appena cominciò il freddo e mi vide determinato a tornare in Italia, mi offri con insistenza prima delle maglie di lana ancora nuove che erano state di suo figlio, poi addirittura il cappotto di astrakan che tu hai riconosciuto.»
«Ma perché non dirmelo subito che eri dalla Lenormand?» insorse un'altra volta Valentine.

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