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19 maggio 2018

da "Kitchen" - Banana Yoshimoto

dipinto di Sally Storch
da "Kitchen" - Banana Yoshimoto
(…)
Prima del funerale della nonna praticamente non lo conoscevo. Fu quel giorno che Yuichi Tanabe fece la sua apparizione. Ricordo che mi chiesi seriamente se non fosse l’amante della nonna. Al momento di bruciare l’incenso chiuse gli occhi gonfi di lacrime, e la mano gli tremava. Poi, quando vide la foto della nonna riprese a pingere senza freno.
Non potei fare a meno di pensare che il suo amore per la nonna doveva essere più forte del mio. Sembrava proprio disperato.
Premendosi il viso con il fazzoletto, mi chiese:
“Ti prego, lascia che faccia qualcosa”.
E poi dette aiuto in molti modi.
Yuiki Tanabe.
Dovevo essere molto confusa se mi ci volle un bel po’ per ricordarmi di quando avevo sentito il suo nome dalla nonna.
Lavorava part-time dal fioraio da cui la nonna si serviva.
Molte volte le avevo sentito dire: “Sai, c’è un ragazzo molto caro… si chiama Tanabe… anche oggi è stato lui a servirmi…” Alla nonna piacevano molto i fiori e per non farli mai mancare in cucina passava dal fioraio almeno due volte la settimana. Ricordavo vagamente che un giorno lui l’aveva accompagnata a casa portando una grande pianta.
Era un ragazzo alto e snello, dai bei lineamenti. Di lui non sapevo niente. Avevo la sensazione di averlo visto dal fioraio lavorare con molto impegno. Anche dopo averlo conosciuto un pochino, chissà perché l’impressione di un tipo un po’ ‘freddo’ non cambiò. Il suo modo di fare e di parlare erano gentili, ma ugualmente avvertivo una distanza. La nostra conoscenza era tutta qui, In pratica, un perfetto estraneo.
Pioveva. Seguendo la mappa camminavo nell’umida sera di primavera sotto la pioggia tiepida e leggera che avvolgeva le strade.
Rispetto alla mia casa il palazzo dove abitavano i Tanabe si trovava dall’altro lato del parco. Attraversando il parco, il profumo del verde era quasi soffocante. Camminavo attraverso i riflessi iridescenti che emanavano dal vialetto bagnato e luccicante.
Andavo dai Tanabe solo perché me l’avevano chiesto. Ci andavo senza pensare niente.
L’edificio era alto e imponente. Guardando il nono piano, dov’era il loro appartamento, pensai che lassù di notte la vista doveva essere magnifica.
Uscii dall’ascensore, attraversai il corridoio notando come risuonava il rumore dei miei passi, e suonai il campanello. Subito Yuiki aprì la porta.
“Ciao, accomodati,” disse.
“Permesso.”
Entrai. Era davvero uno strano appartamento.
Nel soggiorno, che era tutt’uno con la cucina, l’occhio correva subito  a un immenso divano. Di fronte ai mobili che contenevano gli arnesi  da cucina non c’era né un tavolo né un tappeto, solo il divano. Aveva  un rivestimento beige e sembrava uscito da uno spot pubblicitario. Veniva da pensare a una famiglia al completo seduta a guardare la tivù e disteso accanto un cane di quelli enormi che in Giappone non  esistono. Insomma era un divano fantastico.
Davanti alla grande finestra che dava sulla veranda c’era una vera  giungla di piante, dentro vasi o in spaziose fioriere, ma anche all’interno la casa era piena di fiori. In ogni angolo si vedevano composizioni di fiori di stagione.
“Fra poco mia madre farà un salto dal lavoro. Intanto, se vuoi, guardati pure in giro. Ti faccio strada io? Tu da quale stanza giudichi?” disse  Yuichi, che aveva cominciato a preparare il tè.
“Cosa?” feci io, che mi ero seduta su quel soffice divano.
“La casa e i gusti dei suoi abitanti. Si dice spesso che per capirli basta  guardare il bagno, no?”
Era uno che parlava sempre in tono calmo e con quel sorriso un po’ distante.
“Dalla cucina,” dissi io.
“Bene. Guarda pure tutto quello che vuoi.”
Così, mentre preparava il tè, io alle sue spalle esploravo la cucina.
La graziosa stuoia sul parquet, la buona qualità delle pantofole che  Yuichi portava ai piedi, gli arnesi da cucina, solo quelli essenziali, che  avevano l’aria di essere usati spesso, appesi in fila ordinatamente... C’era anche una padella in silverstone e lo stesso pelapatate che avevamo noi in casa.
La nonna, che era pigra, provava un gran gusto a usarlo, sbucciava tutto senza fatica.
Illuminati da un piccolo neon vari tipi di piatti tranquillamente in attesa del loro turno e bicchieri scintillanti. Si capiva al primo sguardo che, nonostante un po’ di disordine, avevano solo cose di primissima qualità. C’erano stoviglie per usi specifici: grandi scodelle per zuppe, pirofile per gratin, piatti di misura extra, boccali di birra col coperchio. Chissà perché, mi sembrò un buon segno. Anche nel frigorifero, che Yuichi mi invitò ad aprire, se volevo, tutto era sistemato con cura e si vedeva che niente era lì da troppo tempo.
Giravo e osservavo tutto, approvando. Era una buona cucina. Me ne ero innamorata a prima vista
(…) 

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