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31 ottobre 2018

Pavel – Enzo Montano

Pavel
Pavel – Enzo Montano

Guardingo. Scontroso. Riservato.
è Pavel il gatto di via Foscolo.

Ma è anche Affettuoso  fiero
morbido e giocherellone.

Scruta con gli occhi e comprende
par di sentirne il pensiero.
- Ancora ospiti è finita la pace,
non capiscono che ho i miei orari
le mie abitudini e poi
ho una certa età. Un po’ di rispetto
che diamine. Alla fine, però,
ma proprio in fondo, devo ammetterlo:
è bello avere compagnia,
sapere che c’è qualcuno in casa -.

Pavel esce la mattina, gira per il quartiere
conosce tutti e tutti lo conoscono,
con ognuno si sofferma e dialoga.
Vaga sornione nel suo territorio
è lui il signore del Belvedere.

Ogni tanto torna a casa per
le sue crocchette o bocconcini.
Talvolta non disdegna una
bella scatoletta di tonno
ma che sia di quello buono. Il migliore!
Quando è sera si fa scontroso
perché i suoi spazi diventano piccoli,
una prigione quasi.
Ma sopporta con la dignità di un nobile.

Aspetta paziente, quasi imperturbabile
- tanto prima o poi vanno via,
lo so, mi vogliono bene, anche quello
austero con la barba, e poi
quasi mi ci sono abituato -.

Oh, Pavel, sai che il tuo sguardo paralizza?
è così anche con lucertole e uccellini?
Certamente conoscono gli artigli acuminati
che spuntano dai guanti di velluto.

- Amo la pace, sono tranquillo,
poi, l’età. Da giovane era tutt’altra storia
facevo balzi di tre metri. Intimorivo tutti
anche quegli stupidi che abbaiano
ad ogni foglia che si muove.

Ma quando tornano
quei signori con le valige blu?
Un po’ cominciano a mancarmi.

Pavel guarda in su e chiede di salire.

29 ottobre 2018

da “Il figlio maschio” – Giuseppina Torregrossa

                                                           dipinto di Jeanne Lorioz 
da “Il figlio maschio” – Giuseppina Torregrossa

In questa ricerca ossessiva, aveva dilapidato i suoi risparmi con le prostitute, per concludere alla fine che «le buttane montano tutte lo stesso meccanismo di bassa qualità». Stanco e annoiato, aveva aperto una bottega da orologiaio, in attesa di incontrare la donna con un ruotismo di valore come quello degli orologi Certina. Amava gli ingranaggi sofisticati: ne aveva conoscenza, essendosi letto molti manuali, ed esperienza, poiché per tanti anni era stato tornitore alla miniera Trabonella. Viti e bulloni, tondini di ferro, lime, non avevano segreti per lui. Alla miniera lo apprezzavano. Ma una mattina senza alcun preavviso si era licenziato, stanco di dormire in un camerino dietro l’officina, ché la strada per arrivare al paese era lunga.
«Il puzzo delle uova marce mi è entrato nello stomaco, non sento più il profumo delle pesche mature d’estate, dei gelsi di primavera, dei mandarini di Natale. E poi non vedo una fimmina da sette anni» aveva detto ai compagni che cercavano di farlo ragionare. Il suo era un lavoro buono, non doveva mai  scendere dentro alla pancia della terra, ma niente, lui era stato irremovibile, non per caso si chiamava Libertino, maschile di Libertà, anche se il padre, scegliendo quel nome, pensava ai seduttori pieni di fimmine, non agli anarchici testoni.
Libertino si concentrò sul nastro di gros che rifiniva la gonna di sua moglie e soprattutto sul gancio di metallo nero che entrava in un archetto dello stesso materiale. Non riusciva a infilare le dita, la grossa pancia di Mimma sbuffava sopra e sotto la cintura stretta. “La forza la devo esercitare direttamente sul tessuto, altrimenti il gancio si spacca” pensò. Per aprirla dovette usare entrambe le mani. Ogni sera sua moglie la spogliava lui, e la mattina dopo la rivestiva. Era stata una decisione presa di comune accordo la prima notte che avevano dormito insieme.
Dopo le nozze, nell’intimità della loro camera, Mimma s’era spogliata di corsa e, con la sottoveste addosso, s’era rifugiata in quel letto che aveva cullato l’infelicità di sua madre Concettina. La ragazza si vergognava a mostrarsi al marito, il quale, invece di occuparsi subito di lei, s’era chinato a raccogliere l’abito e l’aveva adagiato con delicatezza sulla sedia. Sopra aveva sistemato il velo, mentre le scarpe, allineate e appaiate, sporgevano dall’orlo.
Quindi si era seduto sul bordo del letto ed era rimasto in silenzio. La ragazza aspettava, sapeva che doveva succedere qualcosa: “Prima è, meglio è”.
Libertino, invece di passare all’azione, s’era schiarito la voce e aveva fatto un discorso sibillino: «Tesoro mio, tu sai che per amore tuo ho litigato con mio padre; ho pagato due volte il sensale; ho fatto preciso identico tutto quello che voleva tua madre. Adesso però vorrei chiederti una cosa».
Mimma aveva annuito, docile.
«Sai qual è il momento più emozionante per un orologiaio?»
«’Nzù» aveva schioccato le labbra.
«Quando smonta l’orologio e uno per uno tira fuori i pezzi che lo compongono.»
“Come parla bene mio marito” aveva pensato Mimma compiaciuta, quasi dimenticando che era la loro prima notte e avrebbero dovuto essere impegnati in ben altro.
«E sai che ci vuole per essere un bravo orologiaio? Primo, lentezza» aveva continuato Libertino, sollevando il pollice per fare un elenco, «perché la fretta ti fa combinare danni. Secondo, precisione: ogni fase prelude alla successiva. Tanto per dire, non puoi levare il bariletto prima delle lancette. Terzo, ordine, perché le viti, se non le riponi in un contenitore, quando le vai a montare te ne mancherà sempre una. Quarto» e aveva sollevato l’anulare, la fede aveva luccicato, «conoscenza: non si può fare quello che non si sa. Quinto, esperienza: certe cose non ci sono parole per spiegarle, devi vedere e poi provare finché non azzecchi il movimento giusto del cacciavite. Da ultimo: mano ferma, gli ingranaggi sono così delicati che basta un tremolizzo leggero e li perdi per sempre.»

da “Il figlio maschio” – Giuseppina Torregrossa

dipinto - Jeanne Lorioz
da “Il figlio maschio” – Giuseppina Torregrossa

Nonostante fossero sposati da quasi sei anni, Libertino provava un piacere intenso ogni volta che sfiorava il corpo di sua moglie. Accarezzò i capelli di Mimma, quindi si mise a osservare con attenzione i bottoni della camicetta: una fila di funghetti bianchi, le cui teste sporgevano da cappiolini di filo ritorto. L’uomo infilò indice e medio nello scollo, esercitò una lieve torsione sul peduncolo, e il primo bottone sgusciò fuori dall’asola con un movimento fluido. Fece poi lo stesso con tutti gli altri, finché la camicetta si aprì scoprendo due seni grandi, trattenuti a stento da un reggipetto di raso. Libertino li guardò estasiato.
Era stato un colpo di fulmine. Mimma scendeva per la via delle Chiese e gli occhi di lui erano rimasti incollati a quelle curve che promettevano il paradiso. “Minchia, pezzo di fimmina” aveva esclamato tra sé ed era corso a casa, spinto dal bisogno di condividere con qualcuno la sua felicità: ne aveva tanta dentro al cuore che rischiava di collassare.
«Ho trovato la donna della mia vita» aveva urlato, «vado a cercare il sensale!»
«Fermati» gli aveva ordinato allora il padre, «u ’nguacchiu già è stato fatto e sei promesso alla figlia del falegname.»
«Io a chidda non la vogghiu. Ha le minne piatte ed è senza culo.»
«Ormai… D’altra parte, tu non ti decidevi e io mi scantavo che mi ristavi in casa pi’ simenza.»
«Piuttosto mi faccio monaco» aveva ribattuto Libertino. Amava le forme abbondanti e quella sconosciuta, una specie di mappamondo di carne, gli era entrata nel sangue. Aveva guance rosse e paffute, due mele annurche, minne come meloni, fianchi di gelatina tremolante. Mentre ci ripensava, il ragazzo si era sentito rimescolare tutto.
Il vecchio aveva notato il turbamento nello sguardo del figlio e, sapendo quanto fosse testardo, si era fatto il segno della croce invocando l’aiuto di santa Barbara: «Solo tu la puoi sminare ’sta bomba» aveva mormorato alzando gli occhi al cielo. Fare u ’nguacchiu con una picciotta e non mantenere la parola, c’era da perdere l’onore per tre generazioni.
Mentre incombeva la tragedia, era arrivato proprio il sensale: «Non si può fare. Il falegname mi disse che la picciotta è già ’nguacchiata».
Santa Barbara non s’era fatta attenniri e aveva concesso subito la grazia.
Così Libertino, ritenendosi sciolto da ogni impegno, aveva dato immediatamente l’incarico a mastro Pepè di rintracciare la donna misteriosa, parlare alla sua famiglia e spiarci il matrimonio.
Il sensale, felice, ché non gli capitava mai di avere un doppio ’nguacchiu dallo stesso picciotto, si era messo al lavoro.
Era tornato dopo una settimana: «Si chiama Mimma Cavallotto, suo padre faceva il pastaio ma muriu, sua madre gestisce un emporio, è un tipo difficile: c’è di scippare tacciteddi cu’ l’unghia. Mi disse che discute solo con te in persona».
Libertino era partito in quarta, ché un fuoco gli bruciava dentro, e il giorno stesso, ad apertura di negozio, s’era fatto trovare sulla porta con il cappello in mano. Concettina aveva capito subito chi era e l’aveva invitato a entrare con un cenno del capo.
A dispetto di quanto annunciato dal sensale, la donna non si era fatta pregare: «Signor Libertino, io sono d’accordo a darvi mia figlia, ma a una condizione: vi dovete sposare entro tre mesi». E dopo una breve pausa aveva aggiunto, a scanso di equivoci: «Devo andare via da Sommatino e non posso lasciare una picciotta schetta da sola».

Ritratto del gatto – Gianni Rodari

                                                           dipinto di Vic Bearcroft
Ritratto del gatto – Gianni Rodari

Il gatto non è amico di nessuno,
entra, mangia, si stira e torna via, crede che la casa sia un’osteria.
Non fa festa al padrone, non lo accompagna a spasso, non ti riporta il
sasso che tu getti lontano, non ti viene a leccare la mano come fa il cane
con quegli occhi buoni.
E quando miagola pare che stia raccontando una bugia.

Gatto che giochi per via – Fernando Pessoa

dipinto di Martine Van Parijs
Gatto che giochi per via – Fernando Pessoa

Gatto che giochi per via
come se fosse il tuo letto,
invidio la sorte che è tua,
ché neppur sorte si chiama.
Buon servo di leggi fatali
che reggono i sassi e le genti,
hai istinti generali,
senti solo quel che senti;
sei felice perché sei come sei,
il tuo nulla è tutto tuo.
Io mi vedo e non mi ho,
mi conosco, e non sono io.

Il gatto – Guillaume Apollinaire

dipinto di Irina Garmashova
Il gatto – Guillaume Apollinaire

Io mi auguro di avere in casa mia:
una donna provvista di prudenza,
un gatto a passeggio fra i libri,
e in tutte le stagioni amici
di cui non posso far senza.

Beppo – Jorge Luis Borges

                                                          dipinto di Astrid Bruning
Beppo – Jorge Luis Borges

Il gatto bianco e celibe si guarda
Nella lucida lastra dello specchio
E sapere non può che quel candore
E le pupille d’oro non vedute
Mai nella casa sono la sua immagine.
Chi gli dirà che l’altro che l’osserva
E’ solamente un sogno dello specchio?
Penso che questi armoniosi gatti
Quello di vetro e quello a sangue caldo
Sono fantasmi che regala al tempo
Un archetipo eterno

Ad un gatto - Jorge Luis Borges

Dipinto di Alex Carter
Ad un gatto - Jorge Luis Borges

Non sono più silenziosi gli specchi
né più furtiva l'alba avventuriera;
sei, sotto la luna, quella pantera
che a noi ci è dato percepire da lontano.
Per opera indecifrabile di un decreto
divino ti cerchiamo invano;
più remoto del Gange e del Ponente
tua è la solitudine, tuo il segreto.
La tua schiena accondiscende la carezza
lenta della mia mano. Hai accolto,
da quella eternità che è già oblio,
l'amore di una mano timorosa.
Sei in un altro tempo. Sei il padrone
di un ambito chiuso come un sogno.

28 ottobre 2018

Vincent - Enzo Montano

Autoritratto Vincent Van Gogh 1887
Enzo Montano, ''Vincent''-''Vincent''

Solitar, grav, absorbit
o vreme observă câmpiile .
Surâde mângâierilor soarelui
în vântul care-l atinge
trage-în plămâni suflul firii.
Încet, ridică penelul
în înalt
contra cerului
deasupra copacilor
pe câmpuri
în vii
în parc.
Totul este adus pe pânză.
Culori frământate cu suflet
cu trup cu suferință cu singurătate cu ...

Umbrele se alungesc.
Învăluit în praf de aur,
cu pânzele sub braț
și cu caseta culorilor,
gânditor se întoarce la casa-i galbenă.

I se umple odaia
de soare, copaci, câmpii, vii și flori
de poduri de măslini de floarea-soarelui de ...


-traducere de Catalina Franco-

 ******

Solitario, serio, assorto
osserva i campi, a lungo.
Sorride alle carezze del sole
al vento che lo sfiora
insuffla nei polmoni il respiro della natura.
Lento, solleva il pennello
in alto
contro il cielo
sopra gli alberi
sui campi
nei vigneti
            nel parco.
Tutto è trasferito sulla tela.
Colori impastati con l’anima
e il corpo e sofferenza
e solitudine e…

Le ombre si allungano.
Avvolto dalla polvere d’oro,
le tele sotto il braccio
e la sua scatola dei colori,
torna pensoso alla sua casa gialla.

La sua stanza si riempie
di sole, alberi, campi, vigneti e fiori
e ponti e ulivi e girasoli e mare e…

Le jardin - Jaques Prevert

Vincent van Gogh - Donna nuda sdraiata
Le jardin - Jaques Prevert

Des milliers et des milliers d'années
Ne sauraient suffire
Pour dire
La petite seconde d'éternité
Où tu m'as embrassé
Où je t'ai embrassèe
Un matin dans la lumière de l'hiver
Au parc Montsouris à Paris
À Paris
Sur la terre
La terre qui est un astre.

La tua notte è di lillà - Mahmud Darwish

Claude Monet - Lillà al sole, 1873, olio su tela, cm 50 x 65. Museo Puskin, Mosca
La tua notte è di lillà - Mahmud Darwish

La notte si accomoda dove sei tu. La tua notte
è di lillà. Ogni tanto un segno scappa
dai raggi delle tue fossette, infrange la coppa di vino
e accende la luce delle stelle. La tua notte è la tua ombra,
una terra leggendaria per l'uguaglianza
tra i nostri sogni. Io non sono il viaggiatore né il residente
della notte lillà, sono colui che un giorno fu me.
Ogni volta che la notte si dissipa in te, intuisco
il vacillare del cuore: non se ne soddisfa l'essere, né l'anima.
E nei nostri corpi un cielo abbraccia una terra. E sei tutta
la tua notte...Una notte che risplende come l'inchiostro
dei pianeti. Una notte,
a detta della notte, che striscia nel mio corpo indolente
come la sonnolenza delle volpi. Una notte che trasuda un
mistero luminoso sulla mia lingua. E più si precisa,
più temo il domani nel pugno della mano.
Una notte che scruta se stessa,
sicura e rassicurata dalla propria infinitezza,
appena sfiorata dal suo specchio e dai canti degli antichi pastori
per l'estate di imperatori malati d'amore.
Una notte che ha mosso i primi passi nella poesia
preislamica, sui capricci di Imru' al-Qays e degli altri,
e ha allargato ai sognatori il cammino del latte
verso una luna affamata ai confini delle parole...

Trad. Chirine Haidar

L'invitation au voyage - Charles Baudelaire

Vincent Van Gogh - Vegetable Gardens at Montmartre
L'invitation au voyage - Charles Baudelaire

Mon enfant, ma soeur,
Songe à la douceur
D'aller là-bas vivre ensemble !
Aimer à loisir,
Aimer et mourir
Au pays qui te ressemble !
Les soleils mouillés
De ces ciels brouillés
Pour mon esprit ont les charmes
Si mystérieux
De tes traîtres yeux,
Brillant à travers leurs larmes.

Là, tout n'est qu'ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Des meubles luisants,
Polis par les ans,
Décoreraient notre chambre ;
Les plus rares fleurs
Mêlant leurs odeurs
Aux vagues senteurs de l'ambre,
Les riches plafonds,
Les miroirs profonds,
La splendeur orientale,
Tout y parlerait
À l'âme en secret
Sa douce langue natale.

Là, tout n'est qu'ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Vois sur ces canaux
Dormir ces vaisseaux
Dont l'humeur est vagabonde ;
C'est pour assouvir
Ton moindre désir
Qu'ils viennent du bout du monde.
- Les soleils couchants
Revêtent les champs,
Les canaux, la ville entière,
D'hyacinthe et d'or ;
Le monde s'endort
Dans une chaude lumière.

Là, tout n'est qu'ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Sensation - Arthur Rimbaud

Vincent Van Gogh - Iris
Sensation - Arthur Rimbaud

Par les soirs bleus d'été, j'irai dans les sentiers,
Picoté par les blés, fouler l'herbe menue:
Rêveur, j'en sentirai la fraîcheur à mes pieds.
Je laisserai le vent baigner ma tête nue.

Je ne parlerai pas, je ne penserai rien:
Mais l'amour infini me montera dans l'âme,
Et j'irai loin, bien loin, comme un bohémien,
Par la Nature, - heureux comme avec une femme.

Se fosse vero - José Hierro

                                                 Vincent Van Gogh - Rose selvatiche
Se fosse vero - José Hierro

Se fosse vero che due anime
camminano congiunte, senza
che i corpi si conoscano; se fosse vero
che si son toccate da sempre,
che bevvero la stessa luce,
che lo stesso destino le culla;
se fosse vero che son foglie
dello stesso arbusto, eterno e verde;
se fosse vero che il loro trionfo
si compie il dì che avranno
gli occhi dell'anima gemella
fissi nella loro carne presente;
se tutto ciò fosse vero,
come mai quel giorno di settembre
non ti cercai, chiamai, portai;
come mai ignoravo che esistessi,
come mai non trattenni la stella
che t'arrossava la fronte;
come mai potevo cantare
sotto la fiamma del ponente;
come mai poteva non esistere
il tuo passato di ora, che mi doleva.
Come ha potuto essere. E come
non lo impedii, con unghie, denti,
cuore...
Se fosse vero
che due anime, senza che i corpi
si conoscano, vibrano, vanno congiunte
verso lo stesso nido caldo,
come quel giorno di luce profonda,
come quel giorno nella strada
dritta contro il ponente;
dorata e grave di settembre;
come quel giorno non sentii
che mi trafiggeva la morte.

da “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” - Luis Sepúlveda

da “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” - Luis Sepúlveda

Kengah aprì le ali per spiccare il volo, ma l’onda densa fu più rapida e la sommerse completamente. Quando tornò a galla la luce del giorno era scomparsa, e dopo aver scosso il capo con energia capì che la maledizione dei mari le stava oscurando la vista.
Kengah, la gabbiana dalle piume d’argento, tuffò varie volte la testa sott’acqua, sinché qualche filo di luce non raggiunse le sue pupille coperte di petrolio. La macchia vischiosa, la peste nera, le incollava le ali al corpo, così iniziò a muovere le zampe sperando di potersi allontanare rapidamente a nuoto dal centro dell’onda scura.
Con tutti i muscoli tormentati dai crampi per lo sforzo, raggiunse finalmente il limite della macchia di petrolio e sentì il fresco contatto dell’acqua pulita. Quando, a forza di sbattere le palpebre e di tuffare la testa, riuscì a pulirsi gli occhi, guardò il cielo, ma vide solo alcune nuvole che si frapponevano tra il mare e l’immensità della volta celeste. I suoi compagni
dello stormo del Faro della Sabbia Rossa dovevano volare ormai lontano, molto lontano. Era la legge. Anche lei aveva visto altri gabbiani sorpresi dalle mortifere onde nere, e nonostante il desiderio di scendere a offrire loro un aiuto tanto inutile quanto impossibile, si era allontanata, rispettando la legge che proibisce di assistere alla morte dei compagni. Con le ali immobilizzate, incollate ai corpi, i gabbiani erano facile preda dei grandi pesci, o morivano lentamente, asfissiati dal petrolio che penetrando fra le piume tappava loro tutti i pori. Era questa la morte che la aspettava, e desiderò scomparire presto tra le fauci di un grosso pesce.
La macchia nera. La peste nera. Mentre aspettava la fine fatale, Kengah maledisse gli umani.
«Ma non tutti. Non devo essere ingiusta» stridette debolmente.
Spesso, dall’alto, aveva visto come grandi petroliere approfittavano delle giornate di nebbia costiera per andare al largo a lavare le loro cisterne. Rovesciavano in mare migliaia di litri di una sostanza densa e pestilenziale che veniva trascinata via dalle onde. Ma a volte aveva visto anche delle piccole imbarcazioni che si avvicinavano alle petroliere e impedivano loro di svuotare le cisterne. Disgraziatamente quelle barche ornate dai colori
dell’arcobaleno non sempre arrivavano in tempo per impedire l’avvelenamento dei mari. Kengah passò le ore più lunghe della sua vita posata sull’acqua, chiedendosi atterrita se per caso non la aspettava la più terribile delle morti: peggio che essere divorata da un pesce, peggio che patire l’angoscia dell’asfissia, era morire di fame.
Disperata all’idea di una fine lenta si agitò, e con stupore si accorse che il petrolio non le aveva incollato le ali al corpo. Aveva le piume impregnate di quella sostanza densa, ma almeno poteva spiegarle.
«Forse ho ancora una possibilità di uscire da qui, e volando in alto, molto in alto, forse il sole scioglierà il petrolio» stridette Kengah.
Le tornò alla mente una storia, raccontatale da un vecchio gabbiano delle isole Frisoni, che parlava di un umano chiamato Icaro che, per realizzare il sogno del volo, si era costruito delle ali con piume di aquila ed era volato in alto, vicinissimo al sole, tanto che il calore aveva sciolto la cera con cui aveva incollato le piume ed era precipitato.
Kengah batté energicamente le ali, ritirò le zampe, si innalzò di un paio di palmi, e ricadde sulle onde. Prima di tentare ancora si immerse e agitò le ali sott’acqua. Questa volta salì di un metro prima di cadere.
Quel dannato petrolio le incollava le piume della coda, di modo che non riusciva a governare il decollo. Si tuffò ancora una volta e con il becco cercò di tirar via lo strato di sporco che le copriva la coda. Sopportò il dolore delle piume strappate, e finalmente vide la sua parte posteriore un po’ meno lurida.
Al quinto tentativo Kengah riuscì a spiccare il volo.
Batteva le ali con disperazione perché il peso della cappa di petrolio non le permetteva di planare. Un solo attimo di riposo e sarebbe precipitata. Per fortuna era una gabbiana giovane e i suoi muscoli rispondevano adeguatamente.
Guadagnò quota. Senza mai smettere di battere le ali guardò giù e vide la costa profilarsi appena come una linea bianca. Vide anche alcune barche che si muovevano come minuscoli oggetti su un panno blu. Volò ancora più alto, ma il sole non ebbe gli effetti sperati. Forse i suoi raggi emanavano un calore troppo debole, o la cappa di petrolio era troppo spessa.
Kengah capì che le forze non le sarebbero durate ancora a lungo e, cercando un posto per scendere, volò verso l’entroterra, seguendo la serpeggiante linea verde dell’Elba. Il movimento delle sue ali si fece sempre più lento e pesante. Perdeva vigore. Adesso non volava più così in alto.
In un disperato tentativo di riprendere quota chiuse gli occhi e batté le ali con le ultime energie. Non sapeva per quanto tempo era rimasta a occhi chiusi, ma quando li riaprì stava sorvolando un’alta torre ornata da una banderuola d’oro.
«San Michele!» stridette riconoscendo il campanile della chiesa di Amburgo.
Le sue ali si rifiutarono di continuare a volare.

Traduzione di Ilide Carmignani

da “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” - Luis Sepúlveda

da “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” - Luis Sepúlveda

«Banco di aringhe a sinistra!» annunciò il gabbiano di vedetta, e lo stormo del Faro della Sabbia Rossa accolse la notizia con strida di sollievo.
Da sei ore volavano senza interruzione, e anche se i gabbiani pilota li avevano guidati lungo correnti di aria calda che rendevano piacevole planare sopra l’oceano, sentivano il bisogno di rimettersi in forze, e cosa c’era di meglio per questo di una buona scorpacciata di aringhe?
Volavano sopra la foce del fiume Elba, nel mare del Nord. Dall’alto vedevano le navi in fila indiana, come pazienti e disciplinati animali acquatici, in attesa del loro turno per uscire in mare aperto e poi far rotta per tutti i porti della Terra.
A Kengah, una gabbiana dalle piume color argento, piaceva particolarmente osservare le bandiere delle navi, perché sapeva che ognuna rappresentava un modo di parlare, di chiamare le stesse cose con parole diverse.
«Com’ è difficile per gli umani. Noi gabbiani, invece, stridiamo nello stesso modo in tutto il mondo» commentò una volta Kengah con un compagno di volo.
«Proprio così. E la cosa più straordinaria è che ogni tanto riescono anche a capirsi» stridette l’altro.
Al di là della linea costiera il paesaggio diventava di un verde intenso. Era un enorme prato nel quale spiccavano le greggi di pecore che pascolavano al riparo delle dighe, e i pigri bracci dei mulini a vento.
Seguendo le istruzioni dei gabbiani pilota, lo stormo del Faro della Sabbia Rossa imboccò una corrente d’aria fredda e si lanciò in picchiata sul banco di aringhe. Centoventi corpi bucarono l’acqua come frecce e, quando risalirono a galla, ogni gabbiano stringeva un pesce nel becco.
Aringhe saporite. Saporite e grasse. Proprio quello di cui avevano bisogno per recuperare energie prima di riprendere il volo fino a Den Helder, dove a loro si sarebbe unito lo stormo delle isole Frisoni.
La rotta prevedeva poi di proseguire fino al passo di Calais e al canale della Manica, dove sarebbero stati accolti dagli stormi della baia della Senna e di Saint-Malo, assieme ai quali avrebbero volato fino a raggiungere il cielo di Biscaglia.
A quel punto sarebbero stati un migliaio di gabbiani, simili a una veloce nuvola d’ argento che si sarebbe pian piano ingrandita con l’arrivo degli stormi di Belle Ile e di Oléron, e dei capi Machichaco, Ajo e Peñas. Quando tutti i gabbiani autorizzati dalla legge del mare e dei venti avessero sorvolato la Biscaglia, sarebbe potuto iniziare il grande convegno dei gabbiani del mar Baltico, del mare del Nord e dell’Atlantico.
Sarebbe stato un bell’incontro. A questo pensava Kengah mentre si pappava la sua terza aringa. Come tutti gli anni si sarebbero sentite storie interessanti, specialmente quelle narrate dai gabbiani di capo Peñas, instancabili viaggiatori che a volte volavano fino alle isole Canarie o a quelle di Capo Verde.
Le femmine come lei si sarebbero date a grandi banchetti di sardine e di calamari, mentre i maschi avrebbero costruito i nidi sul bordo di una scogliera. Poi le femmine avrebbero deposto le uova, le avrebbero covate al sicuro da qualsiasi minaccia, e quando ai piccoli fossero spuntate le prime penne robuste sarebbe arrivata la parte più bella del viaggio: insegnare loro a volare nel cielo di Biscaglia.
Kengah infilò la testa sott’acqua per acchiappare la quarta aringa, e così non sentì il grido d’allarme che fece tremare l’aria:
«Pericolo a dritta! Decollo d’emergenza!»
Quando Kengah tirò di nuovo fuori la testa, si ritrovò sola nell’immensità dell’oceano.

Traduzione di Ilide Carmignani