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29 ottobre 2019

Passeggiando nei giardini – Dylan Thomas

Pierre-Auguste Renoir -  Femmes au bain
Passeggiando nei giardini – Dylan Thomas

Passeggiando nei giardini, accanto
A marmoree bagnanti in punta di piedi sulle vasche,
Costeggiando aiuole ordinate con fiori oleografici,
Parlavamo di donne e di bevute, per ore
Sfioravamo i sobborghi della mente:
Poi in pieno sole scatenavamo un piccolo caos.
Un nuovo iddio, un dio di ruote
Che distrugge le anime e devasta,
Calpestando in polvere pezzi e bocconi
D’uomini difettosi e i loro malanni,
Sorgeva nei nostri cervelli esausti.
Recitavamo i nostri versi
Facendo nell’aria ampi gesti drammatici
Perché le bagnanti ci ammirassero.
Rivoluzione e rovina
Turbinavano nelle nostre parole, poi svanivano.
Avremmo potuto tentare di accendere fiammiferi nel vento.
Sopra e intorno l’ordinato giardino mormorava,
Non c’era alcun bisogno d’un nuovo iddio,
Nessun fiore azzimato si muoveva, nessuna bagnante
Sollevava con grazia il suo piede di marmo,
O abbassava la mano a sfiorare le acque della vasca.

da Dylan Thomas Poesie inedite, a cura di Ariodante Marianni – Giulio Einaudi Edizioni


La vecchia del sonno - Aldo Palazzeschi

opera di Luigi Veronesi
La vecchia del sonno - Aldo Palazzeschi

Cent'anni ha la vecchia.
Nessuno la vide aggirarsi nel giorno.
Sovente la gente la trova a dormire
vicino alle fonti:
nessuno la desta.
Al dolce romore dell'acqua
la vecchia s'addorme,
e resta dormendo nel dolce romore
dei giorni dei giorni dei giorni...

I loro volti splendevano sotto il misto chiarore – Dylan Thomas

dipinto di Kenton Nelson
I loro volti splendevano sotto il misto chiarore – Dylan Thomas

I loro volti splendevano sotto il misto chiarore
Della luce lunare e del lampione
Che dava un senso ai loro vuoti baci,
E trasformava l’isola di quell’amore da due soldi
In un paese sontuoso, le tombe
Che li attorniavano
in pozzi di calore (e negli scheletri
Scorreva la linfa). Per un istante
I loro volti splendettero; la pioggia di mezzanotte
Pendeva aguzza nel vento,
Prima che la luna si spostasse e la linfa si esaurisse,
Lei, col suo vestito dozzinale, dicendo cose dozzinali,
Lui rispondendo,
Senza sapere che il chiarore era venuto e andato via.
I suicidi sfilano ancora, ora maturi per morire.

da Dylan Thomas Poesie inedite, a cura di Ariodante Marianni – Giulio Einaudi Edizioni

Prendi gli aghi e i coltelli – Dylan Thomas

Gustav Klimt - La sposa, 1917-18, m 166x190, olio su tela, ccollezione privata
Prendi gli aghi e i coltelli – Dylan Thomas

Prendi gli aghi e i coltelli,
Conficca un ferro negli occhi,
Lascia che una larva nell’orecchio
S’affatichi finché la musica muoia.

Lascia che nei boschetti del diavolo
Io mi tagli le dita su una rosa,
Fa che la larva della disperazione
Prosciughi la fonte dove va la promessa.

Prendi le forbici e il tegame,
Lascia che i minuscoli eserciti,
E gli araldi del disfacimento,
Bevano al labirintico capezzolo.

Ostruisci la vescica con una pietra,
Riempi le vene che le febbri spezzarono,
Rinnega tutte le fedi incasellate
E la fragile casa della speranza.

E un bambino potrebbe trucidarmi,
E una madre nelle doglie
Assassinarmi con un urlo di dolore;
Mezzo sorriso può diventare la sua sciabola.

Lascia che sia una spada di fuoco,
Il fulmine o la vipera saettante,
La mazza del tuono o la macchina dell’uomo;
Dio e io pagheremo il cecchino.

La carne è giustiziata, abbattuta,
Si mescola, matura nel terriccio;
Lo spirito subisce ma è tranquillo
Nel labirinto della sua dimora.

Nel deserto essi vanno,
Carne e spirito, madre e figlio,
Passeggiando nel fresco della sera,
Col lebbroso e l’agnello.

Nel buio madre e figlio
Tremano alla macchia delle stelle
E alla rovina del cielo;
Il buio è la madre del dolore.

Reca le forbici a questo globo,
Firmamento di carne e d’osso
Regolato dall’alto e giudicato
Da una mia divinità.

Mamma radice che mi fece spuntare
Come una pianta verde dal prato
Mi accudisce fino alla morte,
E mio padre era il signore.

Quando cederò l’albero alla morte
Nel paese dei defunti
Madre e padre vivi, vedrai,
Respireranno accanto al mio letto.

Reca gli aghi a quest’albero
Curvo sui ginocchi muschiosi,
Cuci il gambo sulla foglia,
Lascia colare la linfa alla brezza.

Infila e tortura tutto il giorno;
Tu soltanto ferisci il signore dei giorni;
Ammazzami, ammazza il dio d’amore;
Dio viene ucciso in molti modi.

Domanda: Sarà sincera la radice
E l’albero verde si fiderà di lei?
Risposta: potrà una madre mentire
Di fronte al seme e al frutto?

Domanda: Mamma radice quando morirà?
Risposta: Quando suo figlio la ricuserà.
Domanda: Mamma radice quando crescerà?
Risposta: Quando il fogliame verde l’apprezzerà.

da Dylan Thomas Poesie inedite, a cura di Ariodante Marianni – Giulio Einaudi Edizioni

Uscendo da una guerra d’arguzie – Dylan Thomas

Gustav Klimt - Girasole, 1907, Olio su tela, 110 x 110 cm, collezione privata
Uscendo da una guerra d’arguzie – Dylan Thomas

Uscendo da una guerra d’arguzie, quando la follia delle parole
Era per me quella del mondo, e le sillabe
Si abbattevano dure come staffili su una vecchia ferita,
Il mio cervello entrò urlando dentro la fresca luce
Chiedendo un confessore, ma non c’era nessuno
Che mi assolvesse dopo quella battaglia,
E fui ammutolito dal sole.
Sia lode al cielo che il mio corpo è integro, ho membra,
Non moncherini, dopo il momento della mischia,
Perché il corpo è fragile e la pelle è bianca.
Sia lode, che solo il senno è toccato dopo la guerra d’arguzie.
Sopraffatto dal sole, sto col cervello straziato
Sotto il confessionale delle nuvole,
Ma i raggi ardenti mi privano della parola.
Dopo i pericoli dei discorsi degli amici
Levo le braccia imploranti al cielo lattiginoso,
Dopo la raffica di domande e risposte, sollevo il capo
Toccato nel senno per chiedere al sole compassione,
E il sole mi guarisce, chiudendomi gli occhi che bruciano.
È bello che il sole splenda,
E, dopo il suo tramonto, la savia luna,
Perché da una casa di tavole e di pietra
Dove ognuno discuterebbe finché le stelle diventino verdi,
È bello uscire sulla terra, soli,
E restare ammutoliti, anche se solo un momento.

da Dylan Thomas Poesie inedite, a cura di Ariodante Marianni – Giulio Einaudi Edizioni

Vediamo il vento segreto – Dylan Thomas

dipinto di Kenton Nelson
Vediamo il vento segreto – Dylan Thomas

Vediamo il vento segreto levarsi dietro il cervello,
La sfinge della luce gravare sugli occhi,
Tradurre nel cielo il cifrario delle stelle.
Una notte segreta scende
Fra cranio, cellule, e orecchie incasellate
Che trattengono per sempre la morta luna.

Un grido salì al cielo come un razzo, sofferenza
Dalla ressa dei ciechi che adornano la fronte
Della città, doratori di strade,
Mano di plebaglia che saluta
L’affaccendata fratellanza
Di sbarra e ruota che risveglia i morti.

Una divinità cittadina, scolpita nell’acciaio, mossa
Da turbina, scintilla nelle elettriche vie;
Un salvatore cittadino, nel frutteto
Di lampioni e di frutti ad alto voltaggio,
Parla un ferreo vangelo ai derelitti
Manovratori di ruote e fissatori di bulloni.

Udiamo il vento segreto levarsi dietro il cervello,
La voce segreta gridare dentro gli orecchi,
Il vangelo cittadino urlare al cielo.
Sopra l’elettrica divinità
Cresce un unico Dio, più potente del sole.
Le città non ci hanno tolto gli occhi.

da Dylan Thomas Poesie inedite, a cura di Ariodante Marianni – Giulio Einaudi Edizioni

Ora la sete secca labbro e lingua – Dylan Thomas

Dipinto di Kenton Nelson
Ora la sete secca labbro e lingua – Dylan Thomas

Ora la sete secca labbro e lingua,
L’arida febbre brucia finché non resta più cuore,
Ora è sfacelo nell’osso e nel tendine.
Quando il cielo, spalancate le porte, ha preso il volo
Bruciando l’aria per abbattere fulmini
Su uomini e montagne,
Tempo è di tradimento ed è tempo d’invidia.
L’acido si rovescia, l’acido sgocciola
Nei luoghi e nelle crepe
Più adatte agli amanti per crearvi armonia,
Per contrarre il tremito amatorio,
E sopra il letto delle amanti sdraiarsi e ridacchiare,
Fare sorrisi compiaciuti all’abito nudo dell’amore,
Motteggiare sulla carne di donna
E affogare ogni pena nell’oscena catastrofe.

da Dylan Thomas Poesie inedite, a cura di Ariodante Marianni – Giulio Einaudi Edizioni

da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa

dipinto di Kenton Nelson
da Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa
54.
E, oggi, pensando a ciò che è stata la mia vita, mi sento come un animale qualsiasi, trasportato vivo in un cesto sotto braccio, tra due stazioni suburbane. L’immagine è stupida, ma la vita che la definisce è ancor più stupida. Questi cesti di solito hanno due chiusure, come calze ovali che, se l’animale si agita, si sollevano un poco sull’uno o sull’altro dei lati estremi ricurvi. Ma il braccio di chi lo trasporta, leggermente appoggiato all’altezza dei ripiegamenti centrali, ad una cosa tanto debole consente solo di sollevare rudemente le estremità inutili, come ali di farfalla che infiacchiscono. Mi sono dimenticato che, con la descrizione del cesto, stavo parlando di me. Lo vedo nitidamente al braccio grasso e bianco, bruciato dal sole, della domestica che lo trasporta. Non riesco a vedere la domestica al di là del braccio e della sua peluria. Non riesco a sentirmi bene se non – all’improvviso – una grande frescura di […] di quelle corde bianche e nastri di […] con cui si tessono i cesti e dove mi agito, animale, fra due fermate che sento. Tra queste riposo su ciò che sembra una panca e lì fuori parlano del mio cesto. Dormo perché sono tranquillo, finché alla fermata non mi sollevano di nuovo.

Ode alla casa abbandonata – Pablo Neruda

dipinto di Kenton Nelson
Ode alla casa abbandonata – Pablo Neruda

Casa, arrivederci!
Non
posso dirti
quando
ritorneremo:
domani o non domani,
tardi o molto più tardi.

Un viaggio di più, ma
questa volta
io voglio
dirti
quanto
amiamo
il tuo cuore di pietra:
che generosa sei
col tuo fuoco
fervido
nella cucina
e il tuo tetto
su cui cade
sgranata
la pioggia
come se scivolasse
la musica del cielo!

Adesso
chiudiamo
le tue finestre
e una oppressiva
notte prematura
lasciamo che si insedi
nelle stanze.

Oscurata
tu stai vivendo
mentre
il tempo ti percorre
e l’umidità guasta poco a poco la tua anima.
A volte un
topo
rode, alzano le carte
un
mormorio
soffocato,
un insetto
perduto
si colpisce,
cieco, contro i muri,
e quando
piove nella solitudine
talvolta
una goccia
suona
con voce umana,
come se lì stesse
qualcuno pregando.

Solamente l’ombra
conosce
i segreti
delle case chiuse,
solamente
il vento respinto
e sul tetto la luna che fiorisce.

Adesso,
arrivederci, finestra,
porta, fuoco,
acqua che bolle, muro!
Arrivederci, arrivederci,
cucina,
fino a quando
ritorneremo
e l’orologio
sopra la porta
ancora continuerà a palpitare
col suo vecchio
cuore e le sue due
frecce inutili
fisse
nel tempo.

1956

Ode al cucchiaio - Pablo Neruda

dipinto di Kenton Nelson


Ode al cucchiaio - Pablo Neruda

Cucchiaio,
scodella
del-
la più antica
mano dell’uomo,
ancora
si vede nella tua forma
di metallo o legno
lo stampo
del palmo
primitivo,
da cui
l’acqua
trasferì
freschezza
e il sangue
selvatico
palpitazioni
di fuoco e caccia.

Cucchiaio
piccolino,
nella
mano
del bambino
alzi
alla sua bocca
il più
antico
bacio
della terra,
l’eredità silenziosa
delle prime acque che cantarono
sulle labbra che poi
coprì la sabbia.

L’uomo
aggregò
al vuoto separato
dalla sua mano
un braccio immaginario
di legno
e
uscì
il cucchiaio
per il mondo
ogni
volta
più
perfetto,
abituato
a passare
dal piatto alle labbra boccocini
o a volare
dal-
la povera zuppa
alla dimenticata bocca dell’affamato.

Sì,
cucchiaio,
ti arrampicasti
con l’uomo
sulle montagne,
discendesti i fiumi,
riempisti
imbarcazioni e città,
castelli e cucine,
ma
il difficile cammino
della tua vita
è unirti
col piatto del povero
e con la sua bocca.

Per questo il tempo
della nuova vita
che
lottando e cantando
proponiamo
che sia un arrivo di zuppiere,
una panoplia pura
di cucchiai,
e nel mondo
senza fame
illuminando tutti gli angoli
tutti i piatti posti sulla tavola,
felici fiori,
un vapore oceanico di zuppa
e un totale movimento di cucchiai.

Sei tu che governi questo reame di carne – Dylan Thomas

dipinto di Kenton Nelson
Sei tu che governi questo reame di carne – Dylan Thomas

Sei tu che governi questo reame di carne,
E questa montagna d’osso e di capelli
Viene verso il Maometto della tua mano.
Ma questa terra esala un tanfo d’ossario,
E il vento ha il sentore dei poveri morti
Che le fosse ospitano ed occultano.

Tu regoli i tonfi del cuore che mordono il fianco;
Il cuore cammina dietro il dito della morte;
Il cervello agisce conforme ai morti legali.
Perché pensare alla morte se sei tu che governi?

Sei tu che governi la mia carne e che tradisco
Alloggiando la morte nel tuo regno,
Prestando orecchio alla voce assetata.
Condannami a un eterno faccia a faccia
Con gli occhi morti dei bambini
E i loro fiumi di sangue diventati di ghiaccio.

da Dylan Thomas Poesie inedite, a cura di Ariodante Marianni – Giulio Einaudi Edizioni

Non per sempre il signore della rossa grandine – Dylan Thomas

opera di Wassily Kandinsky
Non per sempre il signore della rossa grandine – Dylan Thomas

Non per sempre il Signore della rossa grandine
Reggerà nella mano di velluto il barattolo del sangue;
Sarà prudente e lascerà traboccare il suo zolfo,
Libererà dai loro nidi in fiamme le nidiate dei dardi.
E il contagio uscirà dolcemente dal suo fianco,
E clamorosa la sua ira si stamperà sulla collina.

Mentre il fuoco cade, due emisferi si dividono,
Nei loro intrugli annegheranno i ragazzi da battaglia
Il calcio del fucile e l’acciaio che baionettano dal fango
I campi ancora indivisi dietro il cranio.
Alla parola scottante, mente e materia
Spariranno, e lasceranno un guscio sonoro.

Un buco nello spazio manterrà forma di pensiero,
I contorni della terra, la curvatura del cuore,
E da quel buio ruoterà l’anima d’oro.
Il mio mondo incorporeo dissolverà nel nulla,
Il mondo reale avvizzirà al calore,
Presto, così presto, oh signore della rossa grandine!

da Dylan Thomas Poesie inedite, a cura di Ariodante Marianni – Giulio Einaudi Edizioni

Fuori dall’abisso – Dylan Thomas

Wassily Kandinsky - Segmento blu
Fuori dall’abisso – Dylan Thomas

Nella sua testa girava un piccolo mondo
Dove ruote, confusi dubbi, musica sconcertante,
Rotolavano tutte le immagini giù negli abissi
In cui vanità semimorte dormivano acciambellate
Come gatti, e lussurie giacevano semibollenti nel gelo.

Nella sua testa i motori facevano l’inferno,
Le vene frustavano le tempie fino a farlo impazzire,
E, pazzo, pregava Dio con le bestemmie,
Scorgeva bestie lunatiche gozzovigliare sul colle,
Uccelli folli sugli alberi e pesci folli in una vasca.
Un sorriso maniaco era diffuso nel sole.
La luna sbirciava la valle di traverso come un demente.

Allora il più tenue rumore di passi o di voci
Echeggiò cento volte, uno stormo d’uccelli
Stamburò assordante nell’aria, le spade dei lampi
Squarciarono i cieli con grande frastuono,
E una rosa tuonò mentre si stava aprendo.

La ragione crollò, l’orrore percorse le strade.
Un sorriso liberò un diavolo, una campana rintoccò.
Egli poteva udire donne respirare nel buio,
Vedere volti di donne sotto bende viventi,
Con bocche di serpente e vuoti scalenofidiaci
Al posto degli occhi, e narici piene di rospi.

A una musica in scatola, taxi-girl e finocchi danzavano
Qualche passo sul prato, dove Cupidi soffiavano acqua
Dal naso e dal culetto, uno spettacolo alla Sanger
Sfilava lungo le navate e nella cripta
Di chiese fatte con l’astratto e il concreto.
Acrobate discese dai pali per il pasto,
Sospendevano la danza ininterrotta per rinfrescarsi i piedi bollenti,
O la lotta accanita per curarsi le membra straziate;
La luna sbirciava la valle di traverso come un demente.

Dov’è, che cosa è il mio Dio in questo folle risonare
Di coltelli su forchette, gridò, di nervo su nervo,
Costola d’uomo su costola di donna, linea retta su curva,
E di mano su natica, uomo su macchina, combattendo,
Ammaccando, dov’è Dio è il mio pastore, Dio è Amore?
Non c’è pastore che ami in questa vita di sopra.
.
Così gridando, fu trascinato nella fogna,
Con i topi alle ascelle, giù per il cupo canale
In cui galleggiava un cane morto che lo fece vomitare,
Immerso in acque nere, sotto grandine e fuoco,
Fino al ginocchio nel vomito. Là io lo vidi,
E in questo modo lo vidi cercare la sua anima.

E nuotando nelle fogne alza gli occhi
Ai mondi d’ovatta rotanti sul displuvio del tetto,
Cavalcando le travi dell’aria, poi li abbassa
Sui garage e sulle cliniche della città.

Dov’è, che cosa è il mio Dio tra questo ancheggiare di ragazze,
lì questo strisciare di finocchi intorno ai pubs?
Era novembre, c’era un saltar di castagnole,
Ma ora restano i mozziconi dei petardi sparati.

Così gridando fu spinto nel Giordano;
Anche lui ha conosciuto l’agonia nell’Orto,
E sentito uno spiedo infilzarglisi al fianco.
Anche lui ha visto il mondo marcio fino in fondo,
E preso a calci con fragore i secchi dei rifiuti marcati verboten,
E udito i denti della donnola far zampillare il sangue.

E in questo modo io lo vidi. In questa posa:
Una mano sul capo, l’altra indecisa sul da fare,
Tra i lampioni e il cielo male illuminato,
E, tra le stagioni, lo udii gridare in questo modo:

Dov’è, che cosa è il mio Dio? Ero pazzo, sono pazzo,
Ho cercato segni e conchiglie sulla spiaggia,
Ficcato paglia e sette stelle tra i capelli,
Mi sono appoggiato a scalette e alla sbarra dorata,
Ho cavalcato il letame delle fogne e la nuvola.
Ho nuotato e sono sprofondato in un orrendo mare
Dove uomini di corallo si cibano nelle ascelle
Di ragazze annegate; ho sventolato bandiere
A ogni tamburo e piffero; ho detto le solite cose
Sempre e dovunque; ho giaciuto con creature disseccate;
Amato donne e cani; desiderato l’orbita del sole.
Collaudato dal fuoco, i due pollici al naso,
Ho sbeffeggiato il moto dell’universo.

Dove? Che cosa? Ci fu scompiglio in cielo,
Ma nessun dio è sorto. Ho visto il male e il peggio,
Schernito il coito delle stelle. Nessun dio
Proviene dal mio male o dal mio bene. Pazzo, pazzo,
Sentendo gli spilli del sangue, ho detto
Cose insolite. Ma non è servito a nulla.

Gridando tali parole, lasciò le folle piangenti,
Liberò il peso delle parole dalle membra sfinite,
E si mise a cibare gli uccelli con le briciole
Di antichi numi, con bocconi spezzati di nomi.
Completamente solo, solcò l’unica via.
E in questo modo io lo vidi in un rettangolo di campo
Abbattere cime di rape, gli alberi per amici;
E in questo modo, più tardi, lo udii che diceva:

Dai palazzi del giorno sono giunto ai rifugi
Degli eremiti, ho parlato a uomini antichi;
Dal frastuono sono corso alla quiete.
Il mio Dio è un pastore, Dio è l’amore che speravo.
La luna appare sulla valle come una santa.
Ragazze e finocchi, rumore e silenzio,
Si accoppiano, creano armonie, un accordo armonioso,
Poiché in solitudine egli ha trovato la sua anima.
Ora egli è uno coi molti, uno con tutti,
Con il fuoco e il Giordano ed il cupo canale.
Ora ha ascoltato e letto la beata parola.
Muto, nel suo rifugio, cova in mezzo ai suoi uccelli.
Lo vedo nella folla, non diviso
Da te o da me o dal vento o dal topo
O da questo o da quello.

da Dylan Thomas Poesie inedite, a cura di Ariodante Marianni – Giulio Einaudi Edizioni

Dramma greco in un giardino – Dylan Thomas

Kenne Gregoire - comediennes-35x25
Dramma greco in un giardino – Dylan Thomas

Una donna tra gli alberi lamenta i suoi morti,
Attrista i vivi sotto il verde tetto;
Il sole vivo geme per i cieli morenti,
E gemendo tramonta. Pietà per Elettra che ama

Tutto il continente di fierezza d’Oreste
Polvere nel piccolo paese dell’urna,
Agamennone e il sangue regale
Che grida lungo le sue vene. Né sole né luna

Farà lume alle tenebre corvine del suo volto,
Né vento egeo darà sollievo al suo cuore schiantato;
Non c’è grotta marina più fonda dei suoi occhi;
Il giorno incede negli alberi, lei nella notte cavernosa.

In mezzo agli alberi la lingua dei morti
Suona ricca di vita da una maschera dipinta;
La regina è trucidata; le mani d’Oreste grondano sangue;
E donne parlano d’orrore al crepuscolo.

Poche lacrime restano: Elettra pianse le lacrime
D’un intero paese e disse l’angoscia d’un mondo
Per la carne che muore e il sangue che è versato
E l’amore che vien meno come un fiore.

Pietà per i vivi, che sono soli e smarriti;
Nell’Ade i morti hanno schiere d’amici;
La morta regina passeggia con il re di Micene
Per i boschetti dell’Ade e le Eterne Contrade.

Pietà per Elettra senza amore, il cui dolore
Annega ed è annegato, per lei che offre alle stelle
Le sue sillabe, e agli dei il proprio amore;
Pietà per chi non ne ha ed è estraneo alle lacrime.

Tra gli alberi del giardino un piccione fa il suo verso,
E nulla sa del dolore che i tristi attori declamano
D’oracoli di male e di funerei danni.
Un piccione fa il verso e donne parlano di morte.

da Dylan Thomas Poesie inedite, a cura di Ariodante Marianni – Giulio Einaudi Edizioni

Il figlio – Pablo Neruda

Ubaldo Oppi - Il cieco. Tempera su cartone, cm 40x30
Il figlio – Pablo Neruda

Sai da dove vieni?
... vicino all'acqua d'inverno
io e lei sollevammo un rosso fuoco
consumandoci le labbra
baciandoci l'anima,
gettando al fuoco tutto,
bruciandoci la vita.
Così venisti al mondo.
Ma lei per vedermi
e per vederti un giorno
attraversò i mari
ed io per abbracciare
il suo fianco sottile
tutta la terra percorsi,
con guerre e montagne,
con arene e spine.
Così venisti al mondo.
Da tanti luoghi vieni,
dall'acqua e dalla terra,
dal fuoco e dalla neve,
da così lungi cammini
verso noi due,
dall'amore che ci ha incatenati,
che vogliamo sapere
come sei, che ci dici,
perché tu sai di più
del mondo che ti demmo.
Come una gran tempesta
noi scuotemmo
l'albero della vita
fino alle più occulte
fibre delle radici
ed ora appari
cantando nel fogliame,
sul più alto ramo
che con te raggiungemmo.

dal libro "I versi del Capitano" di Pablo Neruda

La scala di cristallo - Langston James Hughes

Mimmo Rotella - Strappo, 1989
La scala di cristallo - Langston James Hughes

Bene, figliolo, voglio dirti una cosa
la vita per me non è stata una scala di cristallo.
Ci furono chiodi
e schegge
e assi sconnesse
e tratti senza tappeti sul pavimento,
nudi.
Ma per tutto il tempo
ho continuato a salire
e ho raggiunto pianerottoli
voltato angoli
e qualche volta ho camminato nel buio
dove non c’era uno spiraglio di luce.
Quindi, ragazzo, non tornare indietro.
Non fermarti sui gradini
perché trovi che salire è difficile.
Non cadere adesso
perché io vado avanti, amor mio,
continua a salire
e la vita per me
non è stata una scala di cristallo

Ode alla susina – Pablo Neruda

Adriana Pincherle - Frutta, olio su compensato, cm. 20x20
Ode alla susina – Pablo Neruda

Verso la cordigliera
Le strade
vecchie
erano circondate
da susini,
e fra
lo sfarzo
del fogliame,
la verde, la violacea
popolazione dei frutti
rivelava
le sue agate ovali,
i suoi crescenti
piccioli.
Sul suolo
le pozzanghere
riflettevano
l’intensità
del duro
firmamento:
l’aria
era un
fiore
totale e aperto.

Io, piccolo
poeta,
con i primi
occhi
della vita,
andavo sopra
il cavallo
equilibrato
sotto l’alberatura
dei susini.

Così nell’infanzia
potei
aspirare
su
un ramo,
su un ramo,
l’aroma del mondo,
il suo garofano
cristallino.

Da allora
la terra, il sole, la neve,
le raffiche
della pioggia, in ottobre,
sulle strade,
tutto,
la luce, l’acqua,
il sole nudo,
lasciarono
nella mia memoria
odore
e trasparenza
di susina:
la vita
ovalizzò in una coppa
la sua chiarezza, la sua ombra,
la sua freschezza.
Oh bacio
della bocca
sulla susina,
denti
e labbra
pieni
dell’ambra odorosa,
della liquida
luce della susina!

Rami
di alti alberi
severi
e ombrosi
la cui
scura
corteccia
arrampicammo
verso il nido
mordendo
susine verdi,
acide stelle!
Talvolta variai, non sono
quel bambino
a cavallo
per
i
cammini della cordigliera.
Talvolta
più
di una
cicatrice
o bruciatura
dell’età o la vita
mi cambiarono
la fronte,
il petto,
l’anima!

Ma, un’altra volta,
un’altra volta
torno
a essere
quel bambino silvestre
quando
nella mano alzo
una susina:
con la luce
mi sembra
di alzare
la luce del primo giorno
della terra,
la crescita
del frutto e dell’amore
nella sua delizia.

Si,
in questo momento,
sia
come sia, piena
come pane o colomba
o amara
come
slealtà di amico,
io per te alzo una susina
e in essa, nella sua piccola
coppa
di ambra violacea e spessore fragrante
bevo e brindo alla vita
in onore tuo,
sia chi sia, vada dove vada:

Non so chi sei, ma
lascio sul tuo cuore
una susina.


1956

da Sonetti per Elena - Pierre de Ronsard

dipinto di Peter Worswick
da Sonetti per Elena - Pierre de Ronsard

XLIII
Quando sarai ben vecchia, la sera, accanto al fuoco,
dipanando e filando seduta a un lume fioco,
ripetendo i miei versi dirai, meravigliata:
“Nel tempo che ero bella Ronsard mi ha celebrata”.

Sentendo le parole tu non avrai fantesca,
già mezzo sonnacchiosa dopo la sua fatica,
che al nome di Ronsard non si scuota, ormai desta,
e con eterna lode il tuo nome benedica.

Io sarò sottoterra, fantasma disossato,
e tra le ombre e i mirti troverò la mia quiete.
Tu presso il focolare, vegliarda rattrappita,

rimpiangerai l’amore che fiera hai disdegnato.
Non credere al domani e vivi ore liete;
e fin d’ora raccogli le rose della vita.

Traduzione di Maria Luisa Spaziani
Poesia n. 333 gennaio 2018

Ode a un camion colorato carico di botti – Pablo Neruda

Ode a un camion colorato carico di botti – Pablo Neruda

In impreciso
vapore, aroma o acqua,
sommerse
i capelli del giorno:
errante dolore,
campana
o cuore di fumo,
tutto
fu avvolto
in questo disabitato hangar,
tutto
confuse i suoi colori.
Amico, non si spaventi.

Era solamente
l’autunno
vicino a Melipilla,
nelle strade,
e le foglie
ultime,
come un brivido
di violini,
si lanciavano
dagli alti alberi.

Non succede niente. Aspetta.

Le case, i tetti,
i muri
di calce e fango, il cielo,
erano
una sola minaccia:
erano un libro
grande
con personaggi
sommamente tristi.

Aspettiamo. Aspetta.

Allora
come un toro
attraversò l’autunno
un camion colorato
carico di botti.
Uscì da tanta nebbia
e tanto vago cielo,
rosso, pieno
come una
granata,
allegro come il fuoco,
gettando il suo volto
di incendio, la sua testa
di leone fuggitivo.

Istantaneo, iracondo,
preciso e turbolento,
trepidante e ardente
passò
come una stella colorata.
Io a fatica
potei
vedere
questa anguria
di acciaio, fuoco e oro,
il coro
musicale
delle botti:
tutta questa
simmetria
colorata
fu
solamente
un
grido,
un
brivido
nell’autunno
ma
tutto cambiò:
gli alberi, l’immobile
solitudine, il cielo
e i suoi metalli moribondi
ritornarono a esistere.

Così fu come il fuoco
di un veicolo
che correva ansimante
col suo carico
fu
per me
come se dal freddo della morte
una meteora
sorgesse e mi colpisse
mostrandomi
nel suo splendore collerico
la vita.

Solamente
un camion
carico
di botti,
sfrenato, attraversando
le strade,
vicino a Melipilla, in una
mattina,
accumulò
nel mio petto
straripante
allegria
e energia:
mi tornò l’amore e il movimento.
E sconfisse
come una fiammata
lo scoraggiamento del mondo


1956

Ode alla via di San Diego – Pablo Neruda

Barrio de SanDiego - Santiago
Ode alla via di San Diego – Pablo Neruda

Per la via
San Diego
l’aria di Santiago
viaggiava verso il sud maestoso.
Non viaggiava in treno l’aria.

Va passo a passo
guardando
prima le finestre,
poi i fiumi,
più tardi i vulcani.

Ma,
lungamente,
nell’angolo
di via Alameda
guarda un caffè piccolo
che sembra
un autobus
carico di viaggiatori.
Dopo viene
un negozio
di francobolli, timbri, insegne.
Qui si può
comprare in lettere bianche
e fondo azzurro brunito
l’insegna temibile di “Dentista”.
Mi abbaglia questo negozio.
E quelli che seguono hanno
questo impeto
di quello che volle essere
solamente transitorio
e restò formato
per sempre.
Più lontano
vendono
l’immaginario, l’inimmaginabile,
utensili spaventosi,
incogniti cinti erniari,
induriti
fiori di ortopedia,
gambe
che chiedono corpi,
gomme allacciate
come braccia
di bestie sottomarine.

Procedo guardando porte.
Attraverso
tende,
compro piccole
cose
inutilizzabili.

Sono il croniste errante
della via San Diego.

Al numero 134,
la libreria Araya.
Il vecchio libraio
è una pietra,
sembra il presidente
di una repubblica
smantellata,
di un magazzino verde,
di una nazione piovosa.
I libri
si accumulano. Terribili
pagine che spaventano
il cacciatore di leoni.
Ci sono geografie
di quattrocento tomi:
nei primi
c’è luna piena, gelsomini di arcipelaghi:
gli ultimi volumi
sono solo solitudini:
regni di neve, sussurranti renne.

Nel seguente numero
della strada
vendono poveri giocattoli,
e dalle porte vicine
la carne arrosto
inonda
le narici
della crepuscolare cittadinanza.
Nell’hotel che segue
le coppie
entrano col contagocce:
è tardi
e l’attività
si affretta:
l’amore cerca piume
clandestine.
Più in là vendono testate
di bronzo abbagliante,
letti straordinari
costruiti
forse
in cantieri navali.
Sono come
eterne imbarcazioni gialle:
devono iniziare il viaggio,
riempirsi
con nascite e agonie.
Tutta la via aspetta
l’onda dell’amore e la sua marea.
Sulla finestra
che segue c’è un violino
rotto,
ma arricciato nella sua dolcezza
di sole abbandonato.
Abita questa finestra
incompreso
per le scarpe che si accumularono
sopra di lei e le bottiglie
vuote
che adornano il suo riposo.

Vengono
per la trasmigratoria
via
San Diego
di Santiago del Cile,
in questo anno:
odore di gas, un’ombra,
odore di pioggia secca.
Al passo
degli operai che si sgranarono
dagli agonizzanti autobus
suonano
tutti i tanghi in tutte le radio
nello stesso minuto.

Cerca con me
una coppa gigante,
con bandiera,
onore e monumento
del vino e della patria cristallina.

Comizio lampo.

Gridano
quattrocento operai
e studenti:

Salari!

Il rame per il Cile!
Pane e Pace!

Che scandalo!

Si chiudono
i negozi,
si ode
uno sparo,
escono da tutte le parti
le bandiere.

La via
corre ora
verso l’alto,
verso domani:
un’onda
venuta
dal fondo
del mio paese
in questo fiume
popolare
ricevette i suoi affluenti
da tutta l’estensione del
territorio.

Di notte, la via
San Diego
continua per la città, la luce la riempie.
Poi,
il silenzio
fa scivolare su di essa la sua nave.

Alcuni passi ancora: una campana
che sveglia:
è il giorno che arriva
rumoroso, in autobus sgangherato,
riscuote la sua tariffa mattutina
per vedere il cielo azzurro
solamente un minuto, appena un minuto
prima che le botteghe,
i suoni,
ci ingoino e triturino
nel grande intestino
della via.

Ode alla scatola da tè – Pablo Neruda

Mary Cassat - Il tè delle cinque, 1880, olio su tela, 64,7×92,7 cm, Museum of Fine Arts, Boston
Ode alla scatola da tè – Pablo Neruda

Casa da Tè
di quel
paese degli elefanti,
adesso tavolo da lavoro
invecchiato,
piccolo planetario di germogli,
come da un altro pianeta
alla casa
portasti
un aroma sacro,
indefinibile.
Così arrivò da lontano
ritornando
dalle isole
il mio cuore di giovane stanco.
La febbre mi faceva
sudare
vicino al mare, e un
ramo di palme
sopra di me si muoveva
rinfrescando
con aria verde e canto
le mie passioni.

Cassa
di ottone, delicata,
ahi
mi ricordi
le onde di altri mari,
l’annuncio
del
monsone sopra l’Asia,
quando si dondolavano
come
navi
i paesi
nella mano del vento
e Ceylon spargeva
i suoi odori
come una
combattuta
chioma.

Scatola da tè,
come il mio
cuore
portasti
lettere,
brividi,
occhi
che contemplarono
petali favolosi
e anche ahi!
quell’
odore perduto
di tè, di gelsomini, di suoni,
di primavera errante.

1955

Nella mia tasca - Jan Spiewak

Domenico Gnoli - 1969 Trouser Pocket, Oil on canvas; 131 x 111 cm,Ludwig Museum of Contemporary Art, Budapest, Hungary

Nella mia tasca - Jan Spiewak

Nella mia tasca – un cerbiatto e una stella.
Nella mia tasca – colibrì, una gazzella.

Nei miei capelli – fulmini e nevi.
Nei miei capelli – il cielo sorridente.

Nelle mie mani – una carrozza, bisonti.
Nelle mie mani – pifferi e un violino.
La stella e il cerbiatto, i bisonti, i colibrì,
le nevi, le tormente, la carrozza, i meli.

Ecco le mie meraviglie, ecco i miei tesori,
che il vento spazzerà via.

Traduzione di Paolo Statuti
Poesia n. 316 Giugno 2016
Jan Spiewak. La fantasia come espressione del caos
a cura di Paolo Statuti

da La ragazza di Bube – Carlo Cassola

da La ragazza di Bube – Carlo Cassola
 
I padiglioni del Luna Park erano sparsi in un piazzale sotto il livello della strada.
Una grande folla si aggirava tra le pozzanghere, mentre gli altoparlanti diffondevano musiche e canzonette.
«Oh! chi si vede» esclamò Ines salutando un giovanotto.
«Questa è la mia amica» disse presentando Mara.
«Piacere» fece quello; presentò quindi il suo amico, che se ne stava a tre passi di distanza.
Benché colta di sorpresa, Mara capì subito cosa c'era sotto quell'incontro apparentemente casuale. Lanciò un'occhiata furibonda a Ines, poi si mise a guardare ostentatamente da un'altra parte.
«Andiamo sugli aeroplani?» propose il giovanotto di Ines. Ines accettò:
«Arrivederci» disse rivolgendo loro un sorriso di complicità, che fece montare Mara al colmo della rabbia.
«Ci andiamo anche noi due... signorina?»
«No» rispose seccamente Mara; e quasi gli voltò le spalle.
«Ha paura che le giri la testa?»
Mara allora gli piantò gli occhi in faccia:
«Niente affatto. Ma non mi va di andarci con chi non conosco». E per mettere bene in chiaro le cose, aggiunse: «Quella stupida della mia amica, ha combinato tutto lei senza dirmi niente. Se lo avessi saputo, non sarei venuta.»
Il giovanotto aveva abbozzato un sorriso; ma rendendosi conto che era davvero arrabbiata, abbassò gli occhi confuso.
Ines tornava ridendo seguita dal suo cavaliere:
«E così? abbiamo fatto conoscenza?»
Mara alzò le spalle.
«Perché non fate un giro anche voi?» insistette Ines. «È divertente... mette paura, ma non c'è pericolo.»
A un tratto Mara la investì:
«Perché non mi hai detto che avevi combinato un appuntamento? Non sarei venuta di certo, se avessi immaginato una cosa simile.»
«E che male c'è?» disse Ines.
«Per te non ci sarà niente di male, ma per me sì. Non mi piace stare insieme coi giovanotti che non conosco.»
L'amico di Ines ritenne opportuno metterci bocca lui:
«Via, signorina, non prenda le cose sul tragico. Ora le spiego io com'è andata. Noi due avevamo appuntamento, ma poi Ines mi ha detto che era con un'amica... così anche io mi son portato dietro un amico.»
«L'ho fatto per non lasciarti sola» si giustificò Ines.
«In questo modo Ines fa coppia con me, e lei fa coppia con Stefano» concluse il giovanotto.
«Io non faccio coppia con nessuno» ribatté Mara. «Io, questo Stefano, non so nemmeno chi sia.»
«Ma è lui!» esclamò il giovanotto mettendosi a ridere. «Ancora non sei stato buono di presentarti?» disse rivolto all'amico.
«Smettila» fece quello seccato.
L'altro non se ne diede per inteso: era sicuro che sarebbe riuscito a dissipare il malumore di Mara. «Si vede proprio che tu non ci sai fare con le ragazze; io, anche quando sono musone, mica mi perdo d'animo, Comincio a dire tante di quelle stupidaggini che alla fine sono costrette a ridere.»
«Mica siamo tutti uguali» rispose l'amico. A un tratto si volse a Mara: «Mi scusi, signorina… anche io, non volevo venire. Ma poi mi sono lasciato trascinare...»
«Ma questo è il colmo!» esclamò l'altro. «Io gli procuro una ragazza, e invece di ringraziarmi. Sai cosa ti dico? Sbrigatela un po' da te. Vieni, andiamocene sulle automobili» e presa Ines per mano la condusse via.
«Che stupido» disse Mara. «E la mia amica, lo stesso. Stanno bene insieme» aggiunse con disprezzo. «Oltre tutto, per colpa di quella stupida mi sono perso anche il film».
«Ma è sempre in tempo ad andarci» fece premurosamente il giovanotto.
«Ormai è troppo tardi per trovarmi una compagnia.»
Il giovane esitò un momento:
«Potrei... accompagnarla io. Oh, non abbia paura, lo dico senza cattive intenzioni. Avevo voglia anche io di vedere quella pellicola.»
Il giovanotto aveva un'aria così seria, che Mara finì con l'accettare. Mise solo la condizione che avrebbe pagato da sé.
«Come vuole lei» rispose pronto il giovanotto. «Mi aspetti qui, vado a dirlo a quelli.»
«No. Andiamocene senza dirgli niente.»
Salirono sulla massicciata della strada.

Ode a un cinema di paese – Pablo Neruda

foto da repubblica.it
Ode a un cinema di paese – Pablo Neruda

Amore mio,
andiamo
al cinema del paesello.

La notte trasparente
gira
come un mulino
muto, elaborando
stelle.
Tu ed io entriamo
al cinema
del paese, pieno di bambini
e aroma di mele.
Sono le antiche pellicole,
i
sogni già consumati.
Lo schermo è
colore di pietra o piogge.
La bella prigioniera
del villano
ha occhi di laguna
e voce di cigno,
corrono
i più vertiginosi
cavalli
della terra.

I cow boys
perforano
con i loro spari
la pericolosa luna
dell’Arizona.
Con l’anima
di un filo
attraversiamo
questi
cicloni
di violenza,
la formidabile
lotta
degli spadaccini sulla torre,
abili come vespe,
la valanga piumata
degli indiani
apre il suo ventaglio nella prateria.
Molti
dei ragazzi
del paese
si sono addormentati,
stanchi del giorno nella farmacia,
stanchi di pulire nelle cucine.

Noi,
no, amore mio.
Non andiamo a perderci
neanche
questo sogno:
mentre
siamo
vivi
faremo nostra
tutta
la vita vera,
ma anche
i sogni:
tutti
i sogni
sogneremo.


1956

Ode alla casa addormentata – Pablo Neruda

dipinto di Eric Bowman
Ode alla casa addormentata – Pablo Neruda

Verso l’interno, in Brasile, per alte sierre
e disboscati fiumi,
di notte, la luna piena…
Le cicale
riempivano
cielo e terra
con la loro telegrafia
crepitante.
La notte è occupata
dalla rotonda
statua
della luna
e la terra
cova
cose cieche,
riempiendosi
di boschi,
di acqua scura,
di insetti vittoriosi.

Oh spazio
della notte
in cui noi siamo:
praterie
in cui solamente
fummo un movimento nel cammino,
qualcosa che corre
e corre
per l’ombra.

Entriamo
Nel-
la
casa notturna,
ampia, bianca, socchiusa,
circondata
come un’isola,
per la profondità del fogliame
e per le onde
chiare
della luna.
Le nostre scarpe per le scale
richiamano
altri antichi
passi,
l’acqua
colpendo
il catino
voleva
dire qualcosa.

Appena
si spensero le luci
le lenzuola
si unirono palpitando
ai nostri sonni.
Tutto
girò
nel centro
della casa in tenebre
svegliata all’improvviso
da brutali
viaggiatori.

Intorno
cicale,
estesa luna,
ombra,
spazio, solitudine
piena di esseri,
e silenzio
sonoro…

sonoro…

spense i suoi occhi,
chiuse tutte
le sue ali
e dormiamo.

Ode al color verde – Pablo Neruda

Claude Monet - Lo stagno delle ninfee
Ode al color verde – Pablo Neruda

Quando la terra
fu
pelata e silenziosa,
silenzio e cicatrici,
estensioni
di lava secca
e pietra congelata,
apparve
il verde,
il colore verde,
trifoglio,
acacia,
fiume
di acqua verde.

Si sparpagliò il cristallo
insperato
e crebbero
e si moltiplicarono
i numerosi
verdi,
verdi di pascoli e occhi,
verdi di amore marino,
verdi
di campanile,
verdi
sottili, per
la rete, per le alghe, per il cielo,
per la selva
il verde tremante,
per le uve
un acino verde.

Vestito
della terra,
popolazione del fogliame,
non soltanto
uno
ma
la moltiplicazione
dell’ampio verde,
scurito come
notte verde,
chiaro e acuto
come
violino verde,
spesso nello spessore,
metallico, solforico
nella miniera
di rame, velenoso
sulle lance
ossidate,
umido nell’abbraccio
della palude,
virtù della bellezza.
Finestra della luna in movimento,
violacei, morti verdi
che arrossano
alla luce dell’autunno
nei pugnali dell’eucalipto, freddo
come pelle di pesce pescato,
infermità verdi,
neon saturniani
che ti affliggono
con opprimente luce,
verde volante
della nuziale lucciola,
e tenero
verde
soave
della lattuga quando
riceve sole in gocce
dai casti limoni
spremuti
da una mano verde.

Il verde
che non ebbi,
non ho
né avrei,
il fulgore sottomarino e sotterraneo,
la luce
dello smeraldo,
aquila verde tra le pietre, occhio
dell’abisso, farfalla gelata,
stella che non poté
incontrare il cielo
e seppellì
la sua onda verde
nella
più profonda
camera terrestre,
e lì
come rosario
dell’inferno,
fuoco del mare o cuore di tigre,
splendida dormisti, pietra verde,
unghia delle montagne,
fiume fatuo,
statua ostile, indurito verde.


1956