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28 maggio 2019

Continuità – Enzo Montano

 Con vero piacere pubblico una poesia tradotta  in Rumeno  da Catalina Franco che ringrazio di cuore.

Enzo Montano, ''Continuitate - Continuità''

I
Casa se află pe-o mică înălțime
aproape de locul sanctuarelor
nu departe de coastă.
De la fereastră Daphne
se uită la corabia mare
la pânzele-i albe
lucrarea tâmplarilor meșteri
din Metaponte.
Doi ochi mari
împodobesc arcuirea
unduirilor blânde.

Maiestuos plutește spre larg
lăsând o urmă prelungă
în marea calmă a portului.
Apoi e numai un punct depărtat
o iluzie în reverberările soarelui
înghițită de vastitatea albastră.

Daphne toarnă din alabastron -
împodobit cu figura roșie
a Athenei și cu nava lui Odiseu -
câțiva stropi de mireasmă
pentru al ei Asterios se face frumoasă:
se-întoarce curând de la Kroton.

II

Tractorul puternic pornește încet
pe câmpiile toamnei
plugul cel mare se-înfinge și
trage urme adânci de brazde
e tare mirosul pământului.

Stefano caută prin movilele maronii
lucitoare sub lama plugului în amiază
adună un ciob dintr-un vas antic
pe el se află figura zeiței Athena.

-traducere de Catalina Franco-
______________________________
I
La casa è su una piccola altura
appena fuori la zona dei santuari
non lontano dalla costa.
Dalla finestra Dafne
guarda la grande nave
dalla bianca vela
opera dei maestri carpentieri
di Metapontion.
Due grandi occhi
ne ornano la prua
dalle dolci curvature.

Maestosa prende il largo
tracciando una lunga scia
nel mare calmo del porto.
Adesso è solo un punto bianco
un’illusione tra i riverberi del sole
assorbito dall’azzurra vastità.

Dafne versa dall’alabastron,
ornato con le figure rosse di Atena
e la nave di Odisseo,
gocce di essenza profumata
si fa bella per il suo Asterios:
a giorni tonerà da Kroton.

II
Il trattore possente procede lento
nei campi dell’autunno
col grande aratro che trascina
traccia profondi solchi
forte è il profumo della terra.

Stefano esplora tra le brune zolle
lucide di vomere e di meriggio
raccoglie un coccio di un antico vaso
sopra è raffigurata la dea Atena.

da'' Ritratti'', Apollo Edizioni, 2019



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Critica leninista del presente

Critica leninista del presente
R. Luperini - F. Leonetti - R. Di Marco - A. Macchiorro - E. Fiorani - L. Geymonat

Il 1945 (o meglio la Resistenza) non produce una radicale rottura né sul piano economico né su quello istituzionale (nonostante l’effettiva svolta della caduta della dittatura fascista e della instaurazione della repubblica) né su quello culturale. Ciò non significa sottovalutare l’importanza della irruzione delle masse nella vita pubblica,  della affermazione della democrazia politica, dell’inserimento del marxismo nella cultura nazionale (seppure a piccolissime dosi e con notevoli edulcorazioni). Significa invece cogliere anzi tutto la continuità nella gestione del potere delle medesime forze capitalistiche e conservatrici che dominavano sul piano economico e su quello politico nell’epoca fascista (il nuovo stato democratico mantenne sostanzialmente inalterato l’apparato coercitivo del passato, oltre al rapporto privilegiato con la chiesa definito dal Concordato); e, in secondo luogo, la permanenza di modi di organizzazione della cultura e della società civile ereditati dal fascismo (si pensi alla struttura della scuola, la cui riforma si farà attendere sino agli inizi degli anni Sessanta; ma anche a quella della radio e del cinema) e di posizioni culturali e di atteggiamenti ideologici che tendevano a riproporre visioni del mondo di tipo idealistico (seppure talvolta frettolosamente verniciate con una mano di marxismo) e una concezione del ruolo degli intellettuali e dei loro rapporti con le masse, con la cultura e con la politica, risalente agli anni Trenta o addirittura all’età liberale. Il fatto è che l’organizzaazione capitalistica fu ricostruita, a partire da 1945, tale e quale come nel passato. Lo stato, ben presto interamente controllato da un nuovo partito di massa, la Dc, mantenne un ruolo centrale, sia allargando la classe di servizio e di burocrati di stato che il fascismo aveva creato, sia promuovendo un tipo di sviluppo dominato da grandi gruppi privati che venivano a esercitare un potere pubblico sottratto a ogni controllo di parte popolare. La “ricostruzione” fu in realtà la ricostruzione del capitalismo. I consigli di gestione (che avrebbero dovuto costituire la novità più risolutiva permettendo il controllo democratico sulla produzione) ebbero scarso potere reale e non furono sufficientemente sostenuti dai partiti di sinistra, cosicché scomparvero rapidamente. Sino agli inizi del anni Cinquanta, quando il processo di accumulazione gettò le basi di un nuovo balzo in avanti, la struttura del capitalismo restò sostanzialmente quella degli anni Trenta…

da Storia del Marxismo contemporaneo – Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

da Storia del Marxismo contemporaneo – Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Ma nel 1917 il partito bolscevico nel suo insieme condivideva il punto di vista che sette anni più tardi verrà detto trozkista. Esso considerava la rivoluzione russa come momento e parte costitutiva,  anzi come la forza motrice stessa della rivoluzione mondiale. Così si chiarisce il ruolo dirigente determinante svolto da Trockij nella rivoluzione del 1917. La sua personale genialità, il suo talento di dirigente, il suo senso strategico e la sua abilità tattica l’hanno aiutato ad assumere questo ruolo, ma in definitiva non hanno fatto altro che esprimere più chiaramente questa armonia sostanziale senza la quale queste qualità non avrebbero avuto più peso di quanto ebbero nel 1923 o nel 1927 nel corso immediato degli avvenimenti, cioè molto poco.
Tutti i testi, tutte le dichiarazioni, tutti i dibattiti mostrano che nel 1917 tutti i dirigenti bolscevichi davano alla rivoluzione in Russia questa dimensione internazionale. È per questo motivo che la discussione sulla pace di Brest-Litvosk suscita dal 1918 un dibattito, una polemica così violenta da sconvolgere ogni cosa a proposito di un solo ed unico problema: è la guerra rivoluzionaria o la sottoscrizione del trattato e la pace che garantisce un rapporto migliore tra la rivoluzione russa e la rivoluzione mondiale? Alla riunione del comitato centrale dell’11 gennaio 1918 Lenin dichiara, ad esempio:

Esiste in occidente un movimento di massa, ma la rivoluzione non èn ancora iniziata. Tuttavia se in virtù di questo noi cambiamo tattica,  noi diverremo dei traditori della causa del socialismo internazionale […]. Se crediamo che il movimento tedesco possa svilupparsi immediatamente nel caso di una rottura delle trattative, noi dobbiamo sacrificarci, essendo scontato che la rivoluzione tedesca sarà di una violenza superiore alla nostra. Ma l’essenziale è che là il movimento non è ancora iniziato, mentre da noi ha già dato vita ad un nuovo stato nato dalla voce acuta.

Nella stessa riunione il comunista di sinistra Oppokov giustifica la guerra rivoluzionaria con la dichiarazione : “ È proprio il nostro soffocamento che potrà far scoppiare la rivoluzione in occidente. Dzerzinskij aggiunge: “Noi, per quanto ci riguarda, dobbiamo dare all’occidente appoggio mediante la nostra forza”. Seguieiev (Artion) precisa: “Tutti gli oratori sono d’accordo sul fatto che la nostra repubblica socialista è minacciata di morte se la rivoluzione socialista tarda a scoppiare in occidente”. Egli ritiene che questa rivoluzione possa da potenziale divenire una forza certa ci vuole del tempo e che per guadagnare questo tempo occorre siglare la pace. Tutte le posizioni, le divergenze più estreme partono da questo punto comune: il rapporto stretto, vitale che lega la rivoluzione russa alla rivoluzione europea. E quando Stalin e Zinov’ev sottovalutano questo rapporto, Lenin li critica vivamente. Nessuno pensa in quel momento alla possibilità della costruzione del “socialismo in un solo paese”.

da Storia del Marxismo contemporaneo – Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

da Storia del Marxismo contemporaneo – Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

È noto che Lenin in polemica con i menscevichi sosteneva l’impossibilità di indire la rivoluzione popolare, ma come il partito operaio può indire uno sciopero esercitando adeguato influsso sulle masse e valutando giustamente la situazione, così esso può, in base agli stessi elementi, pianificare l’insurrezione.
Rosa Luxemburg non entrò mai in polemica diretta con Lenin su quest’argomento, ma le sue idee in merito contrastavano con quelle del capo dei bolscevichi.
La posizione della Luxemburg, come risulta dal contesto, era determinata sempre dallo stesso timore che qualcuno cercasse di prender decisioni, per conto della classe operaia e in sua vece, riguardo alla volontà e alla possibilità della classe operaia di ricorrere in un dato momento ai metodi estremi di lotta.
L’espressione più esplicita delle idee di Rosa Luxemburg su questo argomento è contenuta nell’opuscolo polacco Co dalej? (Come procedere oltre?), scritto durante la rivoluzione del 1905:

In tutte le sue forme  e quindi anche nello scontro rivoluzionario, la lotta di classe del proletariato è e deve essere un movimento autonomo di tutta la massa. Il partito socialista non può fare da tutore alla classe operaia procurando a questa le armi di testa propria e con i propri mezzi, per così dire alle spalle della classe operaia […]. Il fatto che si armi la massa in un frangente rivoluzionario è e può essere solo il risultato e l’indizio della forza autonoma e delle maturità politica di quella stessa massa. Cioè, in termini più semplici: la massa può e deve armarsi da sola, nel corso della propria lotta, in seguito a decisione propria, spinta dal proprio bisogno di procurarsi le armi […] procurandosele con la forza del proprio movimento.

La socialdemocrazia può armare i gruppi operai, ma solo per autodifesa. Non è invece in grado di amare “l’intera massa del popolo lavoratore” quanto basti per “sostenere la battaglia decisiva.”…

da Il nome della rosa – Umberto Eco

da Il nome della rosa – Umberto Eco

“Ecco,” mormorai, lasciandomi cadere sfinito per terra.
Nicola dette prova di grande energia, gridò ordini ai servi, dette consigli ai monaci che lo attorniavano, inviò qualcuno ad aprire le altre porte dell'Edificio, altri spinse a cercar secchi e recipienti di ogni genere, indirizzò i presenti verso le sorgenti e i depositi d'acqua della cinta. Comandò ai vaccari di usare i muli e gli asini per trasportare degli orci... Se a dare queste disposizioni fosse stato un uomo dotato di autorità, sarebbe stato subito ubbidito. Ma i famigli erano usi ricevere ordini da Remigio, gli scrivani da Malachia, tutti dall'Abate. E nessuno dei tre era ahimè presente. I monaci cercavano con gli occhi l'Abate per cercare indicazioni e conforto, e non lo trovavano, e solo io sapevo che egli era morto, o stava morendo in quel momento, murato in un budello asfittico che ora si stava trasformando in un forno, in un toro di Falaride.
Nicola spingeva i vaccari da un lato ma qualche altro monaco, animato da buone intenzioni, li spingeva dall'altro. Alcuni confratelli avevano evidentemente perduto la calma, altri erano ancora intorpiditi dal sonno. Io cercavo di spiegare, ché
ormai avevo ripreso l'uso della parola, ma è necessario ricordare che ero pressoché ignudo, avendo buttato la tonaca alle fiamme, e la vista del ragazzo che ero, sanguinante, annerito nel volto dalla fuliggine, indecentemente implume nel corpo, instupidito ora dal freddo, non doveva certo ispirare fiducia.
Finalmente Nicola riuscì a trascinare alcuni confratelli e altra gente nella cucina, che frattanto qualcuno aveva reso accessibile. Qualcun altro ebbe il buon senso di portare delle torce. Trovammo il locale in gran disordine, e compresi che Guglielmo doveva averlo messo a soqquadro per cercare acqua e recipienti adatti al trasporto.
Vidi in quel mentre proprio Guglielmo che sbucava dalla porta del refettorio, il volto bruciacchiato, l'abito fumigante, in mano aveva una gran pignatta e provai pietà per lui, povera allegoria dell'impotenza. Compresi che, se pure era riuscito a trasportare al secondo piano una pentola d'acqua senza rovesciarla, e se pure lo aveva fatto più d'una volta, doveva aver ottenuto ben poco. Mi sovvenni della storia di sant'Agostino, quando vede un fanciullo che tenta di travasare l'acqua del mare con un cucchiaio: il fanciullo era un angelo e così faceva per prendersi gioco del santo che pretendeva penetrare i misteri della natura divina. E come l'angelo mi parlò Guglielmo appoggiandosi esausto allo stipite della porta: “E' impossibile, non ce la faremo mai, neppure con tutti i monaci dell'abbazia. La biblioteca è perduta.” Diversamente dall'angelo, Guglielmo piangeva.
Io mi strinsi a lui, mentre egli strappava da un tavolo un panno e tentava di ricoprirmi. Ci fermammo a osservare, ormai sconfitti, ciò che accadeva intorno a noi.
Era un accorrere disordinato di gente, alcuni salivano a mani nude e si incrociavano per la scala a chiocciola con chi a mani nude, spinto da stolida curiosità, era già salito, e ora discendeva a cercar recipienti. Altri più accorti cercavano subito pentole e bacili, per accorgersi che in cucina non vi era acqua bastante. All'improvviso lo stanzone fu invaso da alcuni muli che recavano degli orci, e i vaccari che li spingevano, li scaricarono e accennarono a trasportare l'acqua in alto. Ma non conoscevano la strada per salire allo scriptorium, e ci volle del tempo prima che alcuni degli scrivani li istruissero, e quando salivano si scontravano con coloro che discendevano terrorizzati. Alcuni degli orci si infransero e sparsero l'acqua per terra, altri furono passati lungo le scale a chiocciola da mani volonterose. Seguii il gruppo e mi trovai nello scriptorium: dall'accesso alla biblioteca proveniva un fumo denso, gli ultimi che avevano tentato di spingersi su per il torrione orientale già ritornavano tossendo con gli occhi arrossati e dichiaravano che non si poteva più penetrare in quell'inferno.

da Il sergente bella neve – Mario Rigoni Stern

da Il sergente bella neve – Mario Rigoni Stern

Ci avviciniamo alla scarpata della ferrovia dietro a cui sono trincerati i russi. Col mio plotone stringo verso il centro. Trovo il sergente Minelli del plotone di Moscioni; perde sangue da varie ferite leggere alla testa e alle braccia; ma ha le gambe fracassate da un colpo anticarro. Si lamenta e piange: – El me s’cet, – dice, – el mes’cet-. Gli faccio coraggio come posso. – Non sei grave, – gli dico. – Animo Minelli, dietro vi sono i portaferiti, ti verranno a prendere –. So che mentisco, chissà dove diavolo saranno i portaferiti. Forse lassù a vedere come andrà. Ma Minelli mi crede. Mi saluta, mi sorride anche tra le lacrime. Io vorrei fermarmi con lui ma non posso, i miei uomini mi aspettano alla scarpata e Antonelli mi chiama. Minelli riprende a dire: – Il mio bambino, il mio bambino –. E piange.
Spariamo dall’orlo della scarpata; Moscioni ha imbracciato il mitragliatore e spara; spariamo anche con la pesante a dei russi che si ritirano. Ora, qui dietro, possiamo un po’ tirare il fiato; ma siamo in pochi. Guardando per dove siamo scesi si vedono tante macchie nere sulla neve. Ma so anche che nella mia compagnia ve ne sono che si son finti morti per non venire all’assalto. Ora bisogna uscire dal nostro riparo. Inastiamo la baionetta. Il capitano controlla il funzionamento del suo mitra russo, soffia nella canna e poi mi guarda: – Corajo paese, – mi dice, – la xe l’ultima –. Ci dà gli ordini: – Tu, Rigoni, vai con i tuoi uomini per quella strada. Tu, – dice poi a Moscioni, – vai in un primo tempo con Rigoni e poi gira a sinistra all’altezza di quell’isba. Pendoli, con il plotone comando, e Artico con il secondo e il terzo vengono con me. Andiamo –. Scavalchiamo la ferrovia, siamo accolti da qualche raffica ma ci buttiamo giù per l’altro versante. Io non incontro molta resistenza, il capitano coi suoi due plotoni ne incontra di più ma poi cedono anche quelli. Alla mia destra noto dei russi vestiti di bianco ma non me ne curo e continuo ad andare avanti. Ora spara anche la nostra artiglieria; vedo russi che corrono attraverso la piazza del paese.

Sonetti a Orfeo 1, XVII – Rainer Maria Rilke

Maria Grazia Montano - Fiume Leo, tecnica mista
Sonetti a Orfeo – Rainer Maria Rilke
1
XVII

Confuso, giù, negli oscuri primordi
di ogni vivente edificio,
radice, origine occulta
ch'essi mai videro.

Elmo e corno da caccia,
sentenze di canuti,
uomini in furore fratricida,
donne come liuti...

Ramo che preme contro ramo,
nessuno mai libero...
Uno! Sali ti prego... sali...

E ancora di nuovo spazzàti.
Ma ecco che uno, là in alto
si piega e si fa lira.

La Straniera – Oscar Vladislas de Lubicz-Milosz

Antonio Donghi - Canzone, 1934
La Straniera – Oscar Vladislas de Lubicz-Milosz

Non sai nulla del tuo passato. L’hai sognato
– Sì, certamente, l’hai sognato.
Vedo il tuo volto alla luce grigia della pioggia.
Novembre seppellisce il paesaggio e la mia vita.
Non so nulla, nulla voglio sapere del tuo passato.

I tuoi occhi mi parlano di brumose città lontane
Che mai vedrò
E mai dalla tua voce sentirò pronunciarne il nome.
Novembre è su tutta la mia anima, novembre è su tutta la pianura.
Ti vedo come una sconosciuta attraverso il Tempo che fu.

Sono cose morte ormai da anni,
– Irrimediabilmente morte –
Musiche soffocate, vizze lussurie.
Novembre, ne sono certo, è dietro la porta.
Nel tuo cuore vedo vivere quel che il tuo cuore dimentica.

La tua anima è lontana, lontanissima da qui. La tua anima straniera
È una notte di bruma,
Di bruma e pioggia sporca sui faubourg
Dove la vita ha il colore freddo della terra,
Dove uomini moriranno senza aver conosciuto l’amore.

Un tempo mi hai già incontrato, lo ricordi?
Sì, un tempo tristemente lontano,
Nel paese dei libri antichi e delle antiche musiche,
Nell’azzurro crepuscolo di una casa tranquilla
Dalle finestre letargiche.

Il fantasma delle parole che non ricordi
O che non hai pronunciato,
Dona uno strano senso alla tua presenza lontana.
Decifro nel libro del tuo silenzio
La tua storia morta per sempre, perfino per te.

La mia pallida ragione è un’illusione di chiarezza,
Un giorno di sole antico
Sulla strada dove la tua gioia incontrò il tuo dolore.
Tutto ciò forse non è mai stato
Ma se te lo rivelassi, moriresti di paura.

È triste come un giorno d’inverno in periferia
Dove incede la morte cittadina,
Come la malattia e il lutto in un lungo equivoco,
Come un rumore di passi in una casa sconosciuta
Come le parole «il tempo che fu» quando l’ombra è sul mare.

Non voglio saper nulla del tuo passato. Vedo
Spegnersi il giorno,
L’ultimo giorno sul tuo volto e sulle tue mani.
Lasciami il piacere d’ignorare le strade
Per le quali il caso ha saputo guidarti fino a me.

Ritrovo nei tuoi occhi la realtà dei sogni,
Sogni sognati ai vecchi tempi
E visioni sbocciate al sole della vita.
Nella penombra avvelenata dalla pioggia
Tutta un’eternità volge al termine.

Riconosco in te esseri misteriosi,
Viaggiatori dalle mete segrete
Incontrati un tempo nella bruma delle stazioni
Dove tutti i rumori hanno la cadenza degli addii.
A volte hai persino l’aria di una fiera

Con le sue luci in lacrime e i suoi fetori
Di muffa e vizio,
Con la sua miseria e la gioia malata delle sue musiche.
Ricordi di nostalgiche case da gioco
Si mescolano al caos del mio nervosismo.

Se me ne andassi, se chiudessi la porta, che faresti?
Sarebbe forse
Come se i tuoi occhi non m’avessero mai visto.
Il rumore dei miei passi morrebbe senza eco sulla strada
E solo notte io vedrei alle tue finestre.

È come se tu dovessi lasciarmi oggi
Subito e per sempre
Senza farmi sapere da dove vieni, dove vai.
Piove sui grandi giardini spogli, la tua anima ha freddo,
Novembre seppellisce il paesaggio e la mia vita.

Trad. Massimo Rizzante

Stanze. Libro primo 61 - Angelo Poliziano

Sandro Botticelli - Primavera, 1482 circa, tempera su tavola cm 200x314, Galleria degli Uffizi, Firenze
Stanze. Libro primo 61 - Angelo Poliziano

E gioven che restati nel bosco erono,
vedendo il cel già le sue stelle accendere,
sentito il segno, al cacciar posa ferono;
ciascun s'affretta a lacci e reti stendere,
poi colla preda in un sentier si schierono:
ivi s'attende sol parole a vendere,
ivi menzogne a vil pregio si mercono;
poi tutti del bel Iulio fra sé cercono.

Stanze. Libro primo 41 - Angelo Poliziano

 Andrea Mantegna - Parnaso, 1497, tempera a colla e olio su tela, cm 54,6×70,7 , Museo del Louvre, Parigi.
Stanze. Libro primo 41 - Angelo Poliziano
41
Ahi qual divenne! ah come al giovinetto
corse il gran foco in tutte le midolle!
che tremito gli scosse il cor nel petto!
d'un ghiacciato sudor tutto era molle;
e fatto ghiotto del suo dolce aspetto,
giammai li occhi da li occhi levar puolle;
ma tutto preso dal vago splendore,
non s'accorge el meschin che quivi è Amore.

Stanze. Libro primo 21 - Angelo Poliziano

Tiziano - Amor sacro e Amor profano, 1515, olio su tela, cm 118x278, Galleria Borghese, Roma
Stanze. Libro primo 21 - Angelo Poliziano

Non era ancor la scelerata sete
del crudele oro entrata nel bel mondo;
viveansi in libertà le genti liete,
e non solcato il campo era fecondo.
Fortuna invidiosa a lor quiete
ruppe ogni legge, e pietà misse in fondo;
lussuria entrò ne' petti e quel furore
che la meschina gente chiama amore”.

Sonetti a Orfeo 2, XX – Rainer Maria Rilke

Enrico Scuri - Orfeo e Euridice, 1842, Musei Civici di Pavia
Sonetti a Orfeo – Rainer Maria Rilke
2
XX

Tra stelle, spazi immensi; ma quanto più vasta è la distanza
che Qui s'impara.
Uno, ad esempio, un bambino... e un altro accanto a lui,
oh due mondi lontanissimi.

Col metro dell'Essere il destino ci misura,
un metro che ci è estraneo;
pensa quale distanza tra l'uomo e la fanciulla
che lo sogna e lo rifugge.

Tutto è lontananza e mai si chiude il cerchio.
Guarda, sulla tavola imbandita per la festa c'è un vassoio,
strana la testa dei pesci.

Sono muti i pesci... si credeva. Chissà?
Ma c'è infine un luogo ove si parli, se esistesse,
quella lingua in loro assenza?

Sonetti a Orfeo 2, XXI – Rainer Maria Rilke

Illustrazione di copertina per la prima edizione a stampa (Parigi, 1764) della versione originale dell'Orfeo ed Euridice di Gluk
Sonetti a Orfeo – Rainer Maria Rilke
2
XXI

Canta i giardini, mio cuore, a te ignoti;
chiari, remoti, come fusi nel vetro.
Rose e sorgenti di Ispahan o di Shiraz,
cantale nel giubilo di lodi, uniche, beate.

Mostra, mio cuore, che mai li hai perduti.
Che sei presenza nel loro pensiero,
nel fico che matura. Sei parola che parla
tra rami fioriti come al volto d'altri venti.

Sfuggi all'errore che vi si rinuncia
se la scelta si è compiuta: Essere!
Filo di seta, entrasti nella trama.

Qualunque sia l'immagine che intima ti abbraccia
(persino quel momento che nasce dalla pena)
senti che il senso è l'intero, il tappeto glorioso.

Sonetti a Orfeo 2, XXIII – Rainer Maria Rilke

G. Kratzenstein-Stub, Orfeo ed Euridice
Sonetti a Orfeo – Rainer Maria Rilke
2
XXIII

Chiamami in quell’ora che più
di ogni altra incessante ti resiste:
vicina e supplichevole come il viso
dei cani, ma pronta a sfuggirti

quando pensi infine di afferrarla.
Tuo più di tutto è quel che ti si nega.
Siamo liberi noi. Noi destinati al commiato
dove credemmo di ricevere accoglienza.

Nostra è l’angoscia, il desiderio di fermarci,
noi per il vecchio talvolta troppo giovani
troppo vecchi per quello che non fu mai.

Ci legittima solo intonare la lode,
poiché noi siamo il ramo e la scure
e la dolcezza del rischio che matura

Sonetti a Orfeo, 2 XXIV – Rainer Maria Rilke

Federico Cervelli - Orfeo ed Euridice
Sonetti a Orfeo – Rainer Maria Rilke
2
XXIV

Oh questa gioia sempre nuova nel plasmare
l'argilla! Nessuno, quasi, aiutò i primi
che osarono. E tuttavia su golfi beati
sorsero città, acqua e olio riempirono i vasi.

Gli dèi noi li tracciamo in audaci progetti
che irascibile il destino torna a cancellare.
Ma loro sono gli immortali. Di questo si tratta,
vedete: udire in silenzio quel che infine ci ascolta.

Noi, attraverso i millenni: madri e padri
del figlio a venire sempre più ricolmi, un figlio
che poi un giorno ci sovrasta e ci travolge.

Noi infinitamente, nel rischio, noi abbiamo tempo!
E la morte, silenziosa, solo lei sa chi siamo e sa
sempre quel che ottiene ogni volta che a noi presta.

da “Un filo d’olio” - Simonetta Agnello Hornby

Francisco de Zurbarán - still life
da “Un filo d’olio” - Simonetta Agnello Hornby
Dopo aver versato il caffè nelle tazzine, Rosalìa lo offriva a mamma e a Giuliana; poi si dedicava a me e a Chiara. Non permetteva alla bambinaia di interferire: voleva farcelo assaporare lei stessa, il suo caffè d’u parrinu, come si doveva. Sollevava la tazzina fumante e versava un po’ di caffè sul piattino; vi soffiava sopra e mi incoraggiava a soffiarvi a mia volta, piano piano, senza farlo schizzare. A quel punto, come se fosse un cucchiaio mi porgeva il piattino inclinato col caffè, fumante ma non più bollente, e mi metteva sotto il mento un tovagliolo ricamato, ‘nsamai ci fossero state delle scolature.
Mentre succhiavo quel liquido nero, i singoli ingredienti rivelavano la loro identità. A turno, uno prendeva il sopravvento sugli altri e si distingueva, per un attimo di gloria fugace, prima di tornare a confondersi: ne prendevamo pochi sorsi, ma erano deliziosi.
Dolce, cioccolatoso e aromatico, quel caffè mai offerto a gente di fuori legava le donne della famiglia di mamma a quelle della famiglia di Rosalìa, che da sette generazioni abitava a Mosè, e celebrava l’indulgenza nel superfluo della gente dei campi, un’indulgenza rasente il peccato.

da “Un filo d’olio” - Simonetta Agnello Hornby

Antonio De Preda - Natura morta con frutta
da “Un filo d’olio” - Simonetta Agnello Hornby

la cotognata nelle formette di terracotta smaltata; la frutta e gli ortaggi conservati in burnìe, sott’olio o sotto spirito; la salsa di pomodoro imbottigliata e poi bollita; le pesche sciroppate. Anche la conservazione della frutta da consumare richiedeva un costante lavoro manuale. Nella calura, pere, pesche, susine, azzeruole, uva e fichi si deterioravano velocemente se lasciati nei cesti: bisognava dunque togliere i frutti avvermati o in parte ammuffiti e disporli in un solo strato su vassoi di legno coperti da vecchie tende di tulle, al riparo dalle mosche e dal sole; poi toccarli velocemente, uno per uno, per controllarne il grado di maturazione e togliere quelli che, ben maturi la mattina, nel frattempo erano diventati marci.

da “Un filo d’olio” - Simonetta Agnello Hornby

Caravaggio, Natura morta con fiori e frutti (1590 circa), olio su tela, Galleria Borghese, Roma
da “Un filo d’olio” - Simonetta Agnello Hornby

Il riposto era fresco e all’ombra; vi erano lasciati ad asciugare pomodori attaccati alla pianta e grappoli d’uva, appesi ai ganci delle mensole più alte, come festoni. E poi si preparavano i concentrati come il «vino» cotto, ingrediente essenziale dei dolci di Natale e bevanda per i malati

Sonetti a Orfeo 2, XVIII – Rainer Maria Rilke

pittura romana - Orfeo ed Euridice
Sonetti a Orfeo – Rainer Maria Rilke
2
XVIII

Danzatrice, tu che traduci
transiti d'effimero nel passo: come l'offristi!
E nel finale il vortice, questo albero in movimento,
non prendeva in suo possesso tutto l'anno già trascorso?

Non fiorì d'improvviso la sua cima di silenziose
avvolta nello sciame del tuo primo vibrare?
E su di lei non era sole, estate, calore,
quel calore che effondevi innumerevole?

Il tuo albero dell'estasi non portava, non portava
forse anche i suoi quieti frutti: la brocca che striata
matura e la rotondità già matura del vaso?

E nelle immagini: non resta forse il segno
che il tratto scuro del tuo sopracciglio
ai bordi della svolta rapido imprimeva?

Sonetti a Orfeo 2, XXVII – Rainer Maria Rilke

Jan Brueghel il Vecchio detto Jan Brueghel dei Velluti - 1594 Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina
Sonetti a Orfeo – Rainer Maria Rilke
2
XXVIII

Oh, vieni e vai. Tu, quasi bambina, dona
per un istante compimento alla figura
nella pura immagine astrale di una danza
che per noi è un'effimera fuga oltre l'ordine

cupa della natura. Lei si destò dal suo sonno
solo per ascoltarlo; era lì che Orfeo cantava.
Eri colei che giunge da lontano, turbata
appena, quando un albero, lentamente,

meditava di seguirti nel ritmo dell'ascolto.
E già sapevi il luogo ove la lira
vibrando si levò: l'inudibile centro.

Per lei tentasti i primi bei passi, sperando
di volgere un giorno alla sacra festa
il cammino e lo sguardo dell'amico.

Sonetti a Orfeo 2, XI – Rainer Maria Rilke

Gustave Moreau (1826–1898), Hésiode et la Muse
Sonetti a Orfeo – Rainer Maria Rilke
2
XI

Sorsero dalla morte molte regole calme e ordinate
da quando tu, dominatore, persisti nella caccia;
più che trappola o rete io conosco te, lembo di vela,
mentre ti calano appeso nelle grotte del Carso.

Ti lasciavano scendere piano, quasi un segno di pace
in un giorno di festa. Ma poi, ecco un servo, strappa i bordi
e la notte degli antri lancia nella luce una manciata di colombe, pallide, stordite...
Anche questo ha una sua legge.

Lontano da chi guarda sia ogni sospiro di pietà,
e non solo dal cacciatore che attento
va compiendo quel che nel tempo si rivela.

Uccidere è una forma del nostro lutto errante...
Tutto ciò che ci accade si fa puro
quando sereno lo spirito l'accoglie.

Elegia sulla morte di Orfeo - Fonocle

Agostino Arrivabene - I sette giorni di Orfeo, 1996
Elegia sulla morte di Orfeo - Fonocle

Chiara prole d'Eagro, il Trace Orfeo
A Calai, di Borea il figliolo.
Ei spesso in selve di folt'ombra, e solo
Sedea cantando del suo amor l'obbietto,
Nè sapea trovar posa al vivo duolo;
Che le vigili cure il mesto petto
Rodean sempre, mentr'ei stava ammirando
La florida beltà del giovinetto;
Ma l'empie donne di Bistonia in bando
Lo cacciaron dalla vita, armate il rio
Braccio di lungo ed affilato brando;
Però che dei garzoni egli il desio
Primiero infuse alle Treicie sponde,
E i femminili amor spinse ad obblio:
Per ciò sol le Baccanti furibonde
Il bel capo fer tronco, e dell'estreme
Rive lo dier del Tracio mar all'onde,
Su la cetra infisso, acciò che insieme
N'andassero amendue dalla marea
Travolti, e dall'azzurra onda che freme.
Ma l'onda spumeggiante alla Lesbèa
Sacra isola gli addusse, e un suono arguto,
Come di lira,tutto il mar empiea,
E l'isole e le ripe dal canuto
Flutto asperse, la 've gli uomini di amara
Pompa al teschio vocale offrir tributo;
Quindi all'avello imposero la chiara
Lira, che pietate a muta pietra
Spirar seppe, e di Forco all'onda avara.
Da quel di canti e maestria di cetra
L'isola ornar, che per canore voci,
E per suoni or su tutte il vanto impetra;
Ma poiché delle donne i fatti atroci
Fur conti ai Traci bellicosi, e sedegno
Grave punse ed affanno i cor feroci,
Alle lor mogli un affocato segno
Impresser, si che traccia oscura e viva
Restasse in lor dell'omicidio indegno.
Ed oggi ancor, per vendicar la diva
Anima, un segno in sulle membra inciso
Marchia le donne della Tracia riva,
Indizio e pena del gran vate ucciso.

da Poesia del poeta - Walt Whitman

Maurits Cornelis Escher - Scacchi
da Poesia del poeta - Walt Whitman

(...)
Un uomo è un invito e una sfida:
È inutile nascondersi – non senti i sarcasmi e le risa? Non senti gli ironici echi?
Libri, amici, filosofi, preti, l’azione, il piacere, l’orgoglio, si agitano in qua e in là, cercando la gioia,
Ma è lui che indica la gioia e addita anche quelli che si agitano in qua e in là.

Qualunque sia il suo sesso, qualunque la stagione o il luogo, se ne va rilassato, gentile, sicuro, di
giorno e di notte,
Egli ha la chiave che apre ogni cuore – la risposta alle mani curiose sulle maniglie.

La sua accoglienza è universale – il fluire della bellezza non è meno accetto o universale di lui,
La persona da lui prediletta di giorno o che divide il suo letto di notte è benedetta.

Ogni esistenza ha i suoi idiomi, ogni cosa ha un suo lessico e una sua lingua,
Egli le sa riunire tutte in una sua che dona agli uomini e ogni uomo se ne fa interprete, così ogni
uomo interpreta anche se stesso,
Una parte non contrasta con l’altra – egli è colui che le unisce e sa come unirle.

Dice con indifferenza, Come stai, amico mio? Al presidente all’udienza del mattino,
E dice, Buongiorno fratello! Al poveretto che zappa nella piantagione di zucchero,
Ed entrambi lo capiscono e sanno che le sue parole sono giuste.
Entra, perfettamente a suo agio, in Campidoglio,
Entra nel Congresso e un deputato dice ad un altro: Ecco che arriva un pari nostro neoeletto.
(...)

Trad. Igina Tattoni

da Poesia della notte – Walt Whitman

fotogramma di Strangers on a Train (1951), Alfred Hitchcock
da Poesia della notte – Walt Whitman

Vado vagando tutta la notte con la mia fantasia,
Avanzando con passo leggero, veloce e silenzioso vado avanti e mi fermo,
Mi chino con occhi aperti sugli occhi serrati di chi dorme,
Smarrito e confuso, fuori posto, senza ritrovarmi, in contraddizione,
Indugio, osservo, mi chino, mi fermo.
(...)

Trad. Igina Tattoni

27 maggio 2019

Il negozio di barbiere - Anne Carson

Edward Hopper - Barber Shop, olio su tela
Il negozio del Brbiere - Anne Carson
Quanto ne è volato via è passato
Quanto ne resta è futuro

(Agostino, Confessioni, XI)

Ci vuole pratica per radere la pelle della luce
Polarità
               significa
                           più o
                                       meno
                            notte
totale.
I pinguini cadono come dadi stupefatti
Ma
        New York
                       i barbieri sono bravi
             sul
ghiaccio
La mattina oscilla in un buco spruzzato di luna
Fasce
          di tempo
                     stanno insieme
                                         al
palo
Le sue forbici scintillano sull'acqua nera aperta
Lei
         ama
                  la quiete lei
                                       potrebbe
                                 essere
                          sua
figlia

da museo poetico blog spot

Jacques Darras - Peter Paul Rubens mentre dialoga con Helena Fourment, sua moglie, nuda sotto una pelliccia nera

Peter Paul Rubens - Hélène Fourmente esce dal bagno (La piccola pelliccia), 1638, olio su tela, cm 176x83, Kunsthistorisches Museum, Vienna 
Jacques Darras - Peter Paul Rubens mentre dialoga con Helena Fourment, sua moglie, nuda sotto una pelliccia nera

La bellezza parla con una voce di donna.
Si chiama la bellezza, bellezza è femminile.
Coloro che fanno parlare la bellezza si chiamano i pittori.
Chiedono a una donna di rimanere in piedi davanti a loro.
Resti in piedi, per favore, resti in piedi, non si muova.
La bellezza consente, la bellezza è consenziente, la bellezza non protesta.
Questo è importante, la bellezza è una donna che acconsente.
A che cosa acconsente?
A che la si guardi, al fatto che un uomo la guardi a lungo.
Un uomo, un modista un figurinista un sarto un fotografo un pittore.
Meglio di tutto la pittura nella fusione del tratto l’impasto.
Nella fusione del carboncino che il tessuto respinge, che il colore ricopre.
Una donna in attesa consensuale che un pittore la vesta la spogli.
Parlano insieme?
Dialogano non c’è dubbio.
Se anche scambiano soltanto tre parole con la voce, dialogano.
Che cosa si può fare d’altro con la bellezza se non dialogare con lei?
Prenderla tra le braccia come un uomo prende una donna, la bellezza smette.
La bellezza smette di essere la bellezza per divenire un desiderio realizzato.
Il desiderio di bellezza richiede la distanza, la giusta distanza.
La bellezza è un’immagine dipinta della bellezza.
Una donna è rimasta in piedi, seduta, allungata per delle ore.
Più sedute più pose.
Più giorni più settimane, torni a trovarmi domattina per favore.
E immaginiamo che il pittore magari qualche volta non abbia potuto o non abbia saputo resistere.
Che si sia avvicinato piano alla sua modella, posando le sue spazzole.
E immaginiamo che la modella abbia creduto a una correzione della sua posa.
E ci raffiguriamo il pittore mentre le prende delicatamente il braccio.
Piegarlo, dispiegare lentamente il braccio della modella della bellezza.
Poi col fiato corto mentre posa la mano palmo aperto sul seno della bellezza.
Posare il palmo aperto dita leggermente premute sul seno.
La modella, si è chiesta la bellezza, è una correzione della posa?
Sorpresa, la bellezza ha potuto credere a una nuova indicazione.
Poi, no, piano una volta, no due volte, riprendete la vostra posa di pittore.
Poi no, la bellezza non ha ceduto alla bellezza, d’un pollice d’un palmo.
Riprendete i vostri attrezzi da pittore la spazzola i pennelli, ha detto al pittore.
Quando la bellezza era davvero la bellezza che imprimeva la sua distanza al desiderio.
Sarà capitato sempre così, siamo davvero sicuri?
No, non del tutto, non ogni volta, ci saranno state delle eccezioni.
Qualche volta la bellezza non avrà resistito al suo stesso desiderio.
Qualche volta l’emozione della donna avrà avuto la meglio sulle distanze.
Qualche volta forse, ma dopo?
Dopo essersi rimessa in piedi, che cosa sarà accaduto?
La bellezza avrà verosimilmente ripreso la posa.
Avrà posto al pittore la domanda, andiamo avanti?
Lui, confuso felice vergognoso liberato di essere passato attraverso l’armatura di maglia del desiderio.
Lui che cosa fa in quella situazione, ha ancora il senso delle distanze, in lui?
Ha la tensione energica necessaria in lui per riprendere le proprie distanze?
Avverrà secondo i casi.
Ma nel caso probabile di un rispetto reciproco, il dialogo s’instaura.
Il dialogo della mano con la tela, la matita l’olio, l’occhio le forme.
S’instaura il dialogo tuttavia non si sente niente.
Niente non dice niente a niente, la matita è di un mutismo totale, traccia scrive.
Ed è tutta una potenza di dialoghi taciuti, di amorosi gesti mimati.
Tutta quella conversazione con parole convertite nel loro silenzioso contrario.
Quella lunga sospensione di parole trattenute nelle due bocche chiuse.
Una sottile e sorridente, come se sorridesse verso l’interno di sé.
L’altra tesa, labbra nervose per l’apprezzamento insoddisfatto.
Sì sarà questo ritegno della parola a vantaggio dei tratti che faranno scaturire la bellezza.
La bellezza è una donna che potrebbe parlare, una donna che sta per parlare.
Ma sss! che non deve che non può, che lo proibisce a se stessa.
La bellezza è una proibizione fatta dalla bellezza a se stessa.
È perché siamo censurati da lei, censurati dalla bellezza?
Censurati dalla bellezza, sospesi da, sospesi alla bellezza?
La bellezza è un atto d’amore dolorosamente amorosamente differito.
A questa condizione, a quest’unica condizione la bellezza parla.
La bellezza nella pittura parla, chetiamoci a nostra volta.
Ascoltiamola noi stessi parlare tutte le parole che serba in se medesima.
Poiché la pittura è come la parola in una conversazione sacra.
Poiché la parola è come il sacro della parola in una conversazione profana.
Guardate la donna dalla pelliccia di Peter Paul Rubens.
La bellezza fattasi donna nello sguardo del pittore di Anversa.
Non parliamo neppure di tutto ciò che Rubens qui dice prima di Rembrandt.
Tralasciamo questo, l’incarnazione profana della bellezza, lasciamola alla storia.
La storia della pittura la scriverà nei libri, la dirà nei microfoni.
Lasciamo gli altri parlare di questo, parlare di quello.
Un’altra conversazione avviene al di sotto, al di là, al di dentro.
Ascoltiamo Rubens, avrebbe detto il vecchio ambasciatore di Amsterdam, Paul Claudel.
Bisogna ascoltare la pittura con l’orecchio, l’occhio coalizzato con l’orecchio.
Ascoltiamo Peter Paul Rubens, lo sentite a bassa voce?
Egli parla, parla mentre dipinge, parla a bassa voce.
Chiama la sua modella, Helena sua moglie, Helena Fourment sua moglie.
Ha cinquantanove anni sessant’anni, ha circa quell’età, più o meno.
Ha soltanto due anni da vivere, non lo sa fino in fondo, lo sa.
Lo sa come un uomo di quell’epoca che ha riempito la sua vita.
Dipinge sua moglie contro l’orizzonte della morte, il limite.
La chiama a bassa voce, è la sua anima d’innamorato che parla suo malgrado.
Helena, Helena tu che hai diciotto anni venti anni o forse più, oh Helena!
Mi senti chiamarti come ti chiamerò quando non ci sarò più.
Domani tra poco non sentirai più la mia voce non ti sentirò più.
Non ci sarà più nessuna parola tra noi, sarò tra le nuvole del cielo.
Volerò salirò tra le ascensioni celesti che ho prefigurato.
Sarò molto lontano nell’azzurro nell’opacità dei vapori, chi può dirlo?
Ci sarà tanta gente lassù, non ho dipinto l’Inferno, ci sarà folla.
Non mi sentirai più parlare, il concerto degli angeli renderà oscura la mia voce.
Cantare, lo possiamo se amiamo l’indistinto della musica.
Ma la voce Helena, ma la tua voce la mia conversare tra noi, come?
Da quale bocca in quale lingua converseremo ancora?
Uccello mio carne mia mia nudità profana mi senti parlarti a bassa voce?
Mi senti parlarti attraverso la pelliccia di sabbia che stendo sulla tua schiena?
Lasciami stringerti avvilupparti fino alla fine in un tessuto di carezze.
Helena sei la figlia degli arazzi di Anversa, sei pelliccia sei fodera.
Nel nostro palazzo genovese di Anversa quando passeggerai, tendi l’orecchio.
Non sentirai la mia voce né in cielo né sulla terra né in alcuna riva dello Schelda.
Non ti chiamerò attraverso la foce del fiume che scorre dietro di noi.
Vieni alla tela, piuttosto, vieni al ritratto di te stessa la tua beltà impellicciata.
Het Pelsken, Het Pelsken, ricordati del giorno in cui posammo, tu e io.
Tu e io posammo ai due lati della tela, della parete dei colori della nostra pelle.
Ti ho creata l’Anversa di me, ti ho dipinta l’Anversa di te mia bellezza di Anversa.
Ti ho vestita nella nudità di Eva nostra madre, l’inverso dell’abito.
Guardandoti mio blu d’azzurro mia nuvolosa terrena mi sentirai mentre ti parlo.
Sentendomi parlarti mi vedrai carezzarti, mentre io ti dipingo con le mani.
La bellezza è il ricordo anticipato di tutti i gesti d’amore che celiamo
La bellezza è il vello nero di tutte le notti che avranno attraversato i nostri corpi.
La bellezza è l’inverso delle nostre pelli animali, delle nostre mucose mortali.
La bellezza, baciamo la parola con le sue labbra, farà silenzio.

Traduzione dal francese di Viviane Ciampi

da Museo poetico blog spot
 

Louis Edward Sissman – Più tardi

Edward Hopper - Sun in an empty room, 1963
Louis Edward Sissman – Più tardi

Un vuoto bello e indicibile
di luce solare in stanze nude   
senza altro abitante che lui stesso:
l’alba e il tramonto della sua vita
avanzavano con moto rotatorio, un sole solitario
avvolgeva il gradino di granito,
su cui si trovava
dipinto da una luce che durò un giorno e poi si spense.
Dove convergono gli interni
dei suoi primi anni
sono passate compagnie di traslochi
con i loro camion
e hanno portato via gli oggetti del passato
- letti, tappeti, lampade, gente
documenti, cassettoni -
lasciandosi dietro un monumento tangibile
della sua vita e di come l’ha vissuta:
Fuori un albero verde stormisce
entrando in casa
dalla doppia finestra, formando rettangoli
color crema
sulla parete con la finestra e la parete
con la nicchia e sul
nudo parquet. Il sole del mattino
abita il vuoto
con luce americana.

da Museo poetico blog spot
 

La panchina di Van Gogh – Alfonso Gatto

Vincent Van Gogh - Panchina di pietra nel manicomio di saint rémy, 1889, olio su tela cm 51x45, Museo dell'Arte, San paolo, Brasile
La panchina di Van Gogh – Alfonso Gatto

Capiterà l’errante col suo forte
 spessore di capelli, il viso stretto

per gli occhi vuoti, le due mani attorte.
Le scotole veementi del colore
gli frusteranno l’albero del petto,
pugno di scaglie al prendere del fuoco
che lo divampa.
     L’allegria del gioco
irrompe ad accerchiarlo perché sale
tutto il dolore al vertice del male,
ai grandi spazi della mente, al sole
delle prime parole.

Ora ascolta ammansito dal fragore,
albero e vento: come una foresta,
la sua fatica, e questa calma nuova
che lo sorprende a mettere la testa
sul braccio, sul profilo dell’amore.
Così dipingerà prova
su provala sua ragione d’essere nel fiore,
nel seme, nella terra, nella morte.

Da Rime di viaggio per la terra dipinta, 1968-1969

da “Un filo d’olio” - Simonetta Agnello Hornby

Vincent van Gogh - Still Life with Quinces
da “Un filo d’olio” - Simonetta Agnello Hornby

La cotognata è il corrispettivo siciliano della marmellata; la polpa di mele cotogne, cotta a lungo con zucchero e uno spruzzo di succo di limone, viene versata nelle tradizionali formette di terracotta smaltata - pesci, frutta, il Bambino Gesù, il cavaliere, il castello - e a contatto con l’aria forma una crosta dura e zuccherosa che mantiene morbido l’interno. Noi sceglievamo con cura la forma meno in vista e, usando le dita come cucchiaio, portavamo via uno strato sottile di cotognata o scavavamo un angolo: poi la nascondevamo sotto le altre. Quindi aprivamo il cassetto del pane e ce ne prendevamo dei pezzi per accompagnare quel poco di cotognata sottratta non per fame ma per gola, e per il gusto del proibito.