da Agamennone – Ghiannis Ritsos
A volte mi sembra di essere un morto tranquillo, che mi guarda
esistere; che osserva con gli occhi vuoti
come mi muovo, i miei gesti; – come allora, una notte d’inverno,
laggiù, fuori dalle mura, con un chiaro di luna freddo, indescrivibile,
e tutto pareva di marmo, fatto di calce e luna.
Mi guardavo intorno con l’impassibilità di un immortale, che non teme
più la morte né si cura della propria immortalità. Sì,
come un bel morto che passeggia nel biancore notturno, osservando
gli ornamenti di gesso delle case, le inferriate dei giardini,
le ombre delle alberature sulla riva. E allora, una freccia
mi sibilò vicino all’orecchio, si conficcò vibrando nelle mura
come l’unica corda di uno strumento ignoto, come un nervo
dentro il corpo del vuoto, risuonando con incomprensibile gioia.
Così a volte anche laggiù qualcosa ci fermava – non sapevi cosa stesse accadendo –
un bagliore dell’alba sulla spada, il microscopico
riflesso di una nube tranquilla sopra un elmo
o quell’abitudine di Patroclo di toccarsi con due dita
il lobo dell’orecchio, mentre taceva, assorto in una fantasia
solitaria, erotica. Un giorno Achille gli prese la mano, gli osservò
le dita come un indovino, poi gli guardò l’orecchio. “Si avvicina l’autunno”, disse;
“dovremo riorganizzare le nostre forze”. E quel “riorganizzare”
aveva una relazione strana con il bel gesto di Patroclo.
E allora Patroclo uscì dalla tenda, si accostò ai cavalli dell’amico,
Balio e Xanto, si fermò in mezzo a loro, cinse con le braccia
i loro colli sottili, e così tutti e tre, viso contro viso,
rimasero immobili a guardare il tramonto. Questa raffigurazione
forse l’ho vista nel bassorilievo di un frontone, e ho capito a un tratto
come si può sacrificare una persona per un vento propizio.
da Quarta dimensione, Crocetti Editore, Milano 2013
A volte mi sembra di essere un morto tranquillo, che mi guarda
esistere; che osserva con gli occhi vuoti
come mi muovo, i miei gesti; – come allora, una notte d’inverno,
laggiù, fuori dalle mura, con un chiaro di luna freddo, indescrivibile,
e tutto pareva di marmo, fatto di calce e luna.
Mi guardavo intorno con l’impassibilità di un immortale, che non teme
più la morte né si cura della propria immortalità. Sì,
come un bel morto che passeggia nel biancore notturno, osservando
gli ornamenti di gesso delle case, le inferriate dei giardini,
le ombre delle alberature sulla riva. E allora, una freccia
mi sibilò vicino all’orecchio, si conficcò vibrando nelle mura
come l’unica corda di uno strumento ignoto, come un nervo
dentro il corpo del vuoto, risuonando con incomprensibile gioia.
Così a volte anche laggiù qualcosa ci fermava – non sapevi cosa stesse accadendo –
un bagliore dell’alba sulla spada, il microscopico
riflesso di una nube tranquilla sopra un elmo
o quell’abitudine di Patroclo di toccarsi con due dita
il lobo dell’orecchio, mentre taceva, assorto in una fantasia
solitaria, erotica. Un giorno Achille gli prese la mano, gli osservò
le dita come un indovino, poi gli guardò l’orecchio. “Si avvicina l’autunno”, disse;
“dovremo riorganizzare le nostre forze”. E quel “riorganizzare”
aveva una relazione strana con il bel gesto di Patroclo.
E allora Patroclo uscì dalla tenda, si accostò ai cavalli dell’amico,
Balio e Xanto, si fermò in mezzo a loro, cinse con le braccia
i loro colli sottili, e così tutti e tre, viso contro viso,
rimasero immobili a guardare il tramonto. Questa raffigurazione
forse l’ho vista nel bassorilievo di un frontone, e ho capito a un tratto
come si può sacrificare una persona per un vento propizio.
da Quarta dimensione, Crocetti Editore, Milano 2013
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