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30 dicembre 2019

Rubens il partigiano e altri racconti - Enzo Montano

 Rubens il partigiano e altri racconti - Enzo Montano
dal racconto “La festa”

Tutto era festa in campagna. La vita umile, gli stenti, le fatiche, i sudori, il dolore della separazione di chi andava via si dimenticavano nei riti del raccolto dei frutti di una terra sempre generosa e schietta.
Era festa quando insieme si facevano il pane e le focacce, era festa quando si uccideva il maiale (non per il povero animale ovviamente) e le donne tutte insieme preparavano salsicce, soppressate e altre cose buone.
Era festa la primavera con i suoi colori infiniti e gli alberi col vestito nuovo. Era festa la mezza estate con gli incontri e i balli nelle aie e i tanti frutti.

Ma la festa più bella per tutti era il 25 aprile, Festa della Liberazione. Questa ricorrenza era amata non solo dalla famiglia, ma dall’intera contrada; gli abitanti si ritrovavano ogni anno nel piazzale del piccolo centro rurale per festeggiare insieme la liberazione dell’Italia dai nazifascisti. La festa era organizzata dal signor Renato, un ex partigiano, da altri della sezione dell’Anpi e anche da molti ragazzi.
Naturalmente ogni festa che si rispetti deve essere onorata da un pranzo degno della ricorrenza. Nino aveva sempre sognato una tavola molto ricca, non proprio come quelle, viste in qualche film, traboccanti di ogni genere di cibi che le famiglie americane preparavano per la loro festa del ringraziamento; una tavola degna di un imperatore sulla quale troneggiava un tacchino gigantesco e ben rosolato. Nino si sarebbe accontentato di un qualcosa che si potesse almeno avvicinare a quelle abbondanti tavolate. Per questo aveva deciso di assegnare il ruolo di protagonista della tavola festiva a un bel gallo dalle penne vermiglio e oro. Grande, altero, ritto, con cresta e bargigli degni di quel capo che era stato per tutta la sua lunga carriera e che ogni mattina aveva avvisato l’intera contrada dell’approssimarsi dell’aurora. I galli erano troppi, qualcuno bisognava sacrificarlo sull’altare della buona tavola e lasciare spazio a quelli più giovani che scalciavano nel desiderio di giungere finalmente alla guida dell’affollato pollaio o, comunque, assumere una posizione di vertice ben riconosciuto dalle tante galline.
Il povero animale designato nel ruolo di protagonista indiscusso delle varie portate del pranzo non era per nulla disposto ad assecondare un progetto, neanche minimamente condiviso, che contemplava il rapido epilogo della sua breve esistenza, a opera di una lama affilata nella gola, finalizzato ad arricchire la tavola del pranzo di un giorno di festa. Decise, quindi, di vendere cara la pelle quando Nino comincio a girargli intorno con fare sospetto, troppo sospetto, troppo simile alle altre volte il cui epilogo era immancabilmente la sparizione di qualche abitante del pollaio.
In questi casi anche Rocco era combattuto tra due sentimenti contrastanti: il dispiacere per la sorte del povero gallo, da una parte, e il piacevole pensiero delle buone cose che avrebbe preparato la mamma, e gustate il giorno dopo, dall’altra.
Padre e figlio si recarono nell’aia con l’intenzione, non più discutibile, di porre termina alla carriera di re del pollaio al pennuto destinato da una volontà superiore a sostituire con onore sulla tavola contadina il tacchino ben guarnito delle sontuose tavole americane del giorno del ringraziamento.
Il deciso disaccordo del bel gallo apparve immediatamente in tutta la sua evidenza. Il povero bipede non si lascio irretire dalle dolci lusinghe di Nino.
«Vieni bel galletto, vieni dal tuo padrone che tanto ti ammira» diceva mentre gettava delle manciate di frumento o di orzo «vieni bel gallo».
Ma tutti i tentativi di risolvere diplomaticamente la faccenda naufragarono miseramente di fronte al cocciuto diniego del pollastro che non la finiva di spiccare dei salti mai tentati in alto, molto in alto, e che mai Rocco aveva avuto modo di veder fare da nessun pennuto conosciuto. Il gallo vermiglio e oro piroettava, allargava le ali, apriva la coda, fuggiva, fintava, si scagliava contro il tiranno assalitore, svolazzava, caricava, beccava violentemente qualunque cosa accennasse a muoversi nel suo campo visivo; nella foga beccò finanche una sua zampa senza, per questo, accennare a una qualche forma di lamentela. Insomma, non voleva rassegnarsi al fatto che quel giorno aveva cantato l’ultima
volta il suo saluto all’alba. In una vita precedente doveva essere stato un fiero toro da corrida, e cosi caricava, caricava senza sosta. Continuava a caricare alla stregua di un cavaliere medioevale a difesa della gentil donzella, pardon, gentil gallina, con il possente becco a fungere da lancia, arma appuntita per trapassare il vile assalitore. In una delle tantissime cariche sferro, al crudele sterminatore di pennuti pacificamente domestici, un colpo secco proprio al centro della nocca del dito medio della mano destra. Il dolore fu lancinante, penetrante, sconvolgente, tutto concentrato su pochi millimetri di pelle e nervi, i quali immediatamente si fecero carico di trasmettere il malessere profondo, acuto e paralizzante al cervello, che organizzo immediatamente un’azione di distrazione nel trasmettere a Nino la visione di tutte le stelle dell’emisfero australe e anche di quello boreale, ma mentre Nino cercava di distinguere l’Orsa Minore dal Cane Maggiore, si inginocchio sopraffatto dal dolore.
Ci vollero due ore affinché il persecutore di pollastri riuscisse a sopraffare la strenua resistenza del sovrano del pollaio, il cui mandato di capo del pollaio doveva concludersi come deciso. E si concluse non senza che gli venissero concessi tutti gli onori.

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La porta che si chiude – Antonia Pozzi

Angelo Del Bon - Figura 1947, olio su tela 70 X 63
La porta che si chiude – Antonia Pozzi

Tu lo vedi, sorella: io sono stanca,
stanca, logora, scossa,
come il pilastro d’un cancello angusto
al limitare d’un immenso cortile;
come un vecchio pilastro
che per tutta la vita
sia stato diga all’irruente fuga
d’una folla rinchiusa.
Oh, le parole prigioniere
che battono battono
furiosamente
alla porta dell’anima
e la porta dell’anima
che a palmo a palmo
spietatamente
si chiude!
Ed ogni giorno il varco si stringe
ed ogni giorno l’assalto è più duro.
E l’ultimo giorno
– io lo so –
l’ultimo giorno
quando un’unica lama di luce
pioverà dall’estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l’onda mostruosa,
l’urto tremendo,
l’urto mortale
delle parole non nate
verso l’ultimo sogno di sole.
E poi,
dietro la porta per sempre chiusa,
sarà la notte intera,
la frescura,
il silenzio.
E poi,
con le labbra serrate,
con gli occhi aperti
sull’arcano cielo dell’ombra,
sarà
– tu lo sai –
la pace.

Deserto di eros - Marcelle Koutchoukalo Tchassim

dipinto di Salvatore Fiume
Deserto di eros - Marcelle Koutchoukalo Tchassim

Planare nelle arie dei miei sogni
Passeggiare sulla bruma della mia essenza
Percorrere i prati sognanti della mia giovinezza
Contemplare i miraggi di focolari in semenza
Frugare in silenzio i tagli delle donne
Gemere nel loro cuore tramortito dalla sofferenza
di una vita impastata di amarezza e sopportazione
Nascosta nell’ombra dei rimpianti e della solitudine in cadenza.

La mia odissea sentimentale
riversata nel fangoso stagno
dai coccodrilli viziosi e canaglie
Mai rivivere l’amore dei prati della mia giovinezza
crollati. Il battello sognatore di sentimenti nubili
I clamori oceanici che cullavano i miei sogni puerili
dei miei calori prematuri confidenti sottili
Estasiarsi nelle mie notti fantasmagorici abbracci

L’amore deserto del mondo dalle gambe aperte
Addomesticare il verde sensazionale dei giardini disseminati
I musi ipocritamente girati
Amore verso il basso ventre attorcigliato
affettuosamente mortale e velenoso
Amore ingenuo che non sussiste ai tormenti maliziosi
Afflizioni disoneste di astuti tori
Principi azzurri scherzosi e festaioli

Trasportate nelle praterie delle diavole
Un’avventura incerta, sonnambulica
Campi restaurano desideri
carnali, degli occhi, del cuore, del mondo, esorbitanti
Parure magnifiche, scintillanti, seducenti
Silhouette magiche, luminose, cangianti, eccitanti
Vento in poppa scintillante e lussureggiante
L’amore deserto nell’abisso che risucchia

II
L’amore agápe mortificato
L’amore altruista strangolato
La regola d’oro di mia madre superbamente sovrastata
Le virtù comunitarie immolate
Il trono del vivere insieme estromesso
dalla mia civiltà puttana egocentrica eretta
Meravigliosamente in stand-by di una insensibilità
divoratrice dei miei costumi pietosamente smussati

L’amore agápe deluso
Il mostro dell’ego sommerso acuto
della mia giungla posticcia
Lasciare eredi fantocci
Costruire le armi del mio destino
Del dio sole carbonizzare
i miserabili misteriosamente avvolti
nella loro postura di eterni sacrificati.

Traduzione di Michela Mengoli

Quando verrà il momento - Joumana Haddad

Salvatore Fiume - lito-broccato
Quando verrà il momento - Joumana Haddad

Nella follia
Catturare il firmamento e lambire le nubi <
Prendere in prestito la bufera
Lasciandomi alle spalle le lacrime zampillanti
Lacrime zampillanti
E me ne andrò.
Non inseguire l’equilibrio
Non soffocare le grida
Danzare sull’acqua
Dirigendomi verso l’altra sponda
Libera
O schiava
Non importa!
Guadare il fiume.
Quando verrà il momento farfalla notturna
Deporre la dolcezza che ormai mi ha annoiata
Deporre l’abito imbizzarrito invano
E dare fuoco al passato
Per ritornare liscia come la terra vista da lontano
E girare da sola Intorno alla luna.
Ridere e le mie risate non saranno tristi
Non volere, camminare
Accarezzare la strada
Conversare tutta la notte con il selciato
Fare sgorgare la poesia dalle pietruzze
Il cielo piangerà e non mi preoccuperò
Il vento consumerà il mio cuore ustionato dall’amore.
Quando verrà il momento
alba senza rugiada
mi mostrerò con il viso rabbuiato
e seppellirò i miei visi sereni
diffonderò le ombra sul mio essere
le farò gocciolare come il dolce miele
punto dopo punto bacio dopo bacio
affinché riemerga sulla superficie del fiume
quella donna che ho serbato in me.

Traduzione curata da Valentina Colombo

Nubile - Carolyne Afroetry

Salvatore Fiume - Odalisca, cm 65x45
Nubile - Carolyne Afroetry

Mamma dice che ho mangiato
i miei mariti.
Li ho conditi
con il mio salato
atteggiamento e
cucinati in
una pentola nera
nella notte di
luna calante.

Sostiene che
il mio seno cascante
sia la testimonianza
della mia disgrazia
di donna
e che il mio mortaio
non sia adatto
a schiacciare le arachidi.

Il mio corpo è una
fiaba, dice lei
arditamente.
Non sono fatta per
giacere sulla terra
che custodisce
il seme dei nostri
antenati.
Le mie lamentele
sotto al sole
equivalgono
al suono di
uccelli esuberanti.

Mamma ha detto che ho annegato
i miei pretendenti
in quella birra che è il Marwa
dopo il ballo di mezzanotte.
Dice che
i miei discorsi
sono gli sproloqui
di un ubriaco.
Non sono adatta a sedermi
tra le donne
quando le tenebre
discendono e i
capi villaggio suonano il bul jok.

Sono una donna nubile.
Senza un titolo.
Senza rivendicazione.

Traduzione di Giovanna Molinelli

La grande paura – Piera Oppezzo

dipinto di Caty Torta
La grande paura – Piera Oppezzo

La storia della mia persona
è la storia di una grande paura
di essere me stessa,

contrapposta alla paura di perdere me stessa,
contrapposta alla paura della paura.
Non poteva essere diversamente:
nell’apprensione si perde la memoria,
nella sottomissione tutto.

Non poteva
la mia infanzia,
saccheggiata dalla famiglia,
consentirmi una maturità stabile, concreta.
Né la mia vita isolata
consentirmi qualcosa di meno fragile
di questo dibattermi tra ansie e incertezze.
All’infanzia sono sopravvissuta,
all’età adulta sono sopravvissuta.
Quasi niente rispetto alla vita.

Sono sopravvissuta, però.
E adesso, tra le rovine del mio essere,
qualcosa, una ferma utopia, sta per fiorire.

Pieraccio Tebaldi - La gaia donna

Felice Casorati - Ritratto di Signora,1907
Pieraccio Tebaldi - La gaia donna

La gaia donna che, del mio paese,
vidi fra l’altre donne ch’eran molte,
con velo in capo e colle treccie avvolte,
acconcia adornamente a la lucchese,

mirando in lei, subito il cor mi prese
colle bellezze c’ha nel viso accolte,
e tutte noie m’ha levate e tolte
e le virtù doblate e forte accese.
E ciò m’è divenuto, per che sembra

alquanto quella ch’era romagnola,
di cui a ciascuna ora mi rimembra
de la dolce figura, collo e gola,
de la grandezza e di certe altre membra
e de la sua angelica parola.

da Un amore – Dino Buzzati

Cristoforo De Amicis - Nudo 1976, olio su tela, 40 X 50
da Un amore – Dino Buzzati

Ma nei casini d’una volta, che Antonio aveva volentieri frequentato, non succedeva lo stesso? No, Dorigo non riusciva a spiegarselo bene, ma era una cosa diversa.
Forse per la sanzione legale che faceva di quelle donne una categoria a parte, quasi come una milizia o un ordine religioso. Consideriamo forse uomini come noi i carabinieri o i preti? Migliori forse, ma appartenenti a un altro mondo. Consideriamo donne le suore? No. Sante creature, però di un’altra razza. Altrettanto per le donne di casino. Potevano essere giovanissime e di bellezza meravigliosa, il fatto non era raro, tuttavia si aveva la sensazione che tra loro e noi ci fosse una barriera invalicabile: tanto possono l’abitudine, i pregiudizi e l’autorità della legge.
Forse era anche perché le ragazze dei postriboli si presentavano pressoché nude, in ridicole, ampollose e retoriche vesti, in genere di orribile gusto, che lasciavano scoperti gambe e seni. Per cui ogni incognita era abolita in partenza. Una uniforme vera e propria che non aveva nulla a che fare con gli abiti da sera, pur simulandone l’aspetto. E anche questo contribuiva a farne una categoria a sé, completamente separata dal restante genere umano. Forse era anche perché, loro stesse, le ragazze delle case chiuse, non facevano nulla per sembrare ragazze come tutte le altre. Recitavano la parte senza alcuna concessione sentimentale. Gentili sì, spesso, magari anche affettuose, ma una ermetica barriera le separava dal cliente. Fra i due – salvo eccezioni in cui si rompeva il burocratico incanto, e allora erano guai – non c’era che un rapporto corporale. Ogni altro interesse restava escluso. Se l’uomo, incuriosito, chiedeva notizie sulla sua vita privata, non ne aveva che vaghe e convenzionali informazioni.


Ode alla chitarra – Pablo Neruda

Nella Marchesini - Dadi con mandolino
Ode alla chitarra – Pablo Neruda

Sottile
linea pura
di cuore sonoro,
sei la chiarezza tagliata al volo:
cantando sopravvivi:
tutto se ne andrà tranne la tua forma.

Non so se il pianto rauco
che da te si precipita,
i tuoi tocchi di tamburo, la tua
moltitudine di ali,
sarà di te il mio,
o se sei
in silenzio
più decisamente estasiatore,
sistema di colomba
o di anca,
stampo che dalla sua schiuma
risuscita
e ti presenti, turgida, reclinata
e risorta rosa.

Sotto un fico,
vicino al rauco e impetuoso Bío-Bío,
chitarra,
uscisti dal tuo nido come un uccello
e a delle mani
brune
consegnasti
gli appuntamenti sepolti,
i singhiozzi oscuri,
la catena senza fine degli addii.
Da te usciva il canto,
il matrimonio
che l’uomo
consumò con la sua chitarra,
i dimenticati baci,
l’indimenticabile ingrata,
e così si trasformò
la notte intera
in stellata cassa
di chitarra,
tremò il firmamento
con il suo bicchiere sonoro
e il fiume
le sue infinite corde
accordava
trascinando verso il mare
una marea pura
di aromi e lamenti.

Oh solitudine deliziosa
con notte futura,
solitudine come il pane terrestre,
solitudine come un fiume di chitarre!
Il mondo si racchiude
in una sola goccia
di miele, in una stella,
tutto è azzurro tra le foglie,
tutta l’altezza tremolante
canta.

E la donna che tocca
la terra e la chitarra
alza nella sua voce
il duello
e l’allegria
della profonda ora.
Il tempo e la distanza
cadono alla chitarra:
siamo un sogno,
un canto
interrotto:
il cuore campestre
se ne va per i cammini a cavallo:
suona e suona la notte e il suo silenzio,
canta e canta la terra e la sua chitarra.

da Un amore – Dino Buzzati

opera di Georgy Kurasov
da Un amore – Dino Buzzati

A un tratto Antonio si accorse che dinanzi a lui camminava una ragazza. Indossava un abito color lillà-cenere con profilature bianche, di tessuto a pied-de-poule, un corpetto tipo bolero della stessa stoffa, molto stretto in vita, la sottana gonfia e corta, come si usava. Il braccio destro teso in giù a sostenere una grossa borsa di pelle, camminava a passi decisi, imperiosi, quasi arroganti, senza muovere le anche, con un portamento bellissimo e
orgoglioso di sé, facendo battere, con un autoritario a piombo, i tacchi alti e sottili. Nel moto le giovanissime gambe avevano un rapido guizzo interno, dalla caviglia, su per la svasatura dei polpacci, e oltre, lungo la emozionante progressione muscolare che si perdeva nella gonna.
Come quasi tutte le donne, sebbene l’illuminazione interna impedisse un nitido riflesso, la ragazza volgeva spesso la faccia alle vetrine, a specchiarsi. Ma rapidamente, senza una precisa intenzione: come per una abitudine divenuta istinto. Antonio così poteva intravedere il tipo.
Lo scorcio della guancia disegnato senza un pentimento, il naso diritto e sporgente con espressione curiosa, i capelli lunghi e nerissimi tesi all’indietro e raccolti in un compatto chignon. La bocca non riusciva a vederla, ma la poteva prevedere data la linea affilata del mento. Doveva essere piccola, ferma e presuntuosa.

da Un amore – Dino Buzzati

dipinto di Fabian Perez
da Un amore – Dino Buzzati

Lo colpì anche la rotondità compatta delle braccia, così rara. In cui c’erano un naturale vigore popolaresco e insieme una innocenza infantile. Mentre lei le sollevava per infilarsi dalla testa il vestito, egli vide che le ascelle non erano rase: strano, in una ballerina.
«Sembra fatto su misura» disse la signora Ermelina. Senza parlare Laide si avvicinò a uno specchio appeso a una parete. E alzando le braccia si sistemò i lunghi capelli, rimasti impigliati nel vestito.
Mentre teneva le braccia così alzate, e gli voltava la schiena, girò la testa, guardando Antonio, con un piccolo sorriso malizioso. Si rendeva forse conto di essere, in quella posa, molto bella? Se n’era accorta da sola, con la fulminea intuizione delle donne, esaminandosi allo specchio? O qualcuno glielo aveva insegnato?
Così girato, il volto si presentava di fronte, nel suo taglio genuino, con una proterva sicurezza di sé, come a dire: mi vedi? vero che sono diversa dalle altre? vero che ti piaccio? Però senza civetteria lasciva. Le bambine fanno così, guardando la mamma, il papà, i fratelli, quando le vestono per la prima comunione.
Ma in quel preciso momento ci fu nelle profondità di lui uno scatto, una specie di misterioso rintocco, come quando in una grande solitaria campagna si sente una voce lontanissima che chiama. Egli certo non poteva assolutamente capire cosa stava accadendo in quell’attimo, non poteva sospettarne l’importanza. All’improvviso, in uno di quei baleni per cui di colpo si rivelano le oscure impronte dei giorni perduti, si ricordò di avere già vista quella ragazza.

In quell’età ch’io misurar solea - Giambattista Felice Zappi

Eric Bowman - Sun Hat
In quell’età ch’io misurar solea - Giambattista Felice Zappi

In quell’età ch’io misurar solea
me col mio capro, e ’l capro era maggiore,
io amava Clori, che insin da quell’ore
meraviglia e non donna a me parea.

Un dì le dissi: “Io t’amo”, e ’l disse il core
poiché tanto la lingua non sapea.
Ed ella un bacio diemmi, e mi dicea:
“Pargoletto, ah, non sai che cosa è amore”.

Ella d’altri s’accese, altri di lei,
io poi giunsi all’età ch’uom s’innamora,
l’età degl’infelici affanni miei.

Clori or mi sprezza, io l’amo insin d’allora.
Non si ricorda del mio amor costei;
io mi ricordo di quel bacio ancora.

da Un amore – Dino Buzzati

dipinto di Eric Bowman
da Un amore – Dino Buzzati

Lui subito la baciò sulla bocca. Lei ci stava, con apparente piacere, infilandogli fra le labbra la lingua, senza intemperanze oscene, però, anzi con un certo ritegno quasi casto.
Poi Antonio rialzò il capo a guardarla. Quel faccino allegro e infantile sotto di lui, fra il nero dei lunghi capelli sparsi. Pareva trovarsi a suo agio.
«È vero che sei ballerina?»
«Sì.»
«E dove lavori?» le chiese, facendo finta che Ermelina non glielo avesse detto.
«In un teatro dove vai anche tu.»
Cosa voleva dire? aveva saputo chi era Antonio, che faceva lo scenografo? O alludeva genericamente alla categoria sociale, come se tutti i borghesi di una certa classe dovessero tutti frequentare la Scala?
«Ci vado come?»
«Un teatro dove vai anche tu.»
«Sei ballerina della Scala?»
Col capo lei fece cenno di sì. Una confessione che la rendeva soddisfatta.
«Complimenti. Verrò ad applaudirti.»
«Grazie.»
«E scusa, come mai non hai le ascelle depilate?»
«Taci, che devo andare dall’estetista.»
«Ma alla Scala, per ballare come fai?»
«Per quello, ci sono delle specie di coppette che si mettono alle ascelle, e così, ballando, non si vedono i peli.» Fece una piccola smorfia arricciando il labbro superiore, come fanno le bambine un po’ civette, quando vogliono farsi perdonare.

da Un amore – Dino Buzzati

dipinto di Edgar Degas
da Un amore – Dino Buzzati

A questo punto la signora Ermelina chiese:
«Le fa niente, dottore, se proviamo un abito?»
«S’immagini.» Dorigo sapeva che la Ermelina, per mascherare il suo lavoro di ruffiana, diceva di tenere una boutique. Nella camera da letto c’era infatti, su tutta una parete, un armadio a muro, pieno probabilmente di vestiti. Del resto quel diversivo semplificava le ipocrite cerimonie dell’attesa. Per una convenzione di decenza, ogni volta l’andata a letto era preceduta da un quarto d’ora di chiacchiere sul più e sul meno, in tono di allegria forzata. Dopodiché, esauriti gli argomenti a portata di mano, si faceva un imbarazzato silenzio. Finché la signora Ermelina: «Su, da bravi, volete andare di là?».
Quando non era la stessa ragazza a prendere per mano lui, invitandolo ad alzarsi; simulazione di desiderio che aveva sempre un certo effetto.
La signora Ermelina portò un vestito di grossa maglia di lana, colore caffelatte. «Questo sì tiene caldo.»
Senza la più lontana ombra di imbarazzo, Laide si sfilò il pullover grigio e la gonna pieghettata a disegno scozzese.
Rimase in sottoveste nera. Antonio notò le gambe. Erano snelle, forti, sode, i polpacci sviluppati ma ancora da bimba, senza quel blocco di muscoli sporgenti che hanno quasi tutte le ballerine.

da Essere un gatto – Matt Haig

Carla Prina - 1942, composizione-assoluta n°8 , Il mio gatto siamese
da Essere un gatto – Matt Haig

No. Questo era il classico, comunissimo gatto nero, con due occhi, anche se uno, il sinistro, era circondato da una macchia bianca.
«Ciao, gatto» disse Rissa, e si chinò ad accarezzarlo. «Mi piacerebbe tanto un gatto!»
«E perché non ne prendi uno?» domandò Barney.
«Oh, mamma e papà sostengono che sarebbe un po’ rischioso, visto che viviamo sul fiume. Ma io ribatto: ‘Andiamo, gente, i gatti non sono mica stupidi. Stanno in equilibrio sulle balaustre, quindi è improbabile che cadano giù da una barca’».
Barney rimase in piedi mentre Rissa continuava ad accarezzare l’animaletto.
«Come sarebbe bello» osservò Rissa, «starsene tutto il giorno sdraiati a farsi accarezzare da dei giganti, senza un pensiero al mondo!»
A quel punto il gatto guardò Barney, come se si aspettasse una risposta da lui.
«Eh, sì. Davvero».
«Be’, comunque sia, io devo andare, Signor Compleanno» disse Rissa alzandosi. Doveva fare ancora un chilometro abbondante di strada prima di arrivare a casa, ma non era un problema. A Rissa piaceva camminare. «Papà mi aspetta nel suo orticello per raccogliere delle verdure da cucinare al curry. Cibo vegetariano, naturalmente. Ma, se per caso tu non avessi niente di meglio da fare che ascoltare mio padre cantare vecchie canzonette, sei invitato. È stonatissimo».

da Un amore – Dino Buzzati

Edgar Degas (1834-1917), Deux danseuses jaune et rose
da Un amore – Dino Buzzati

Con la stessa disinvoltura che se fosse stata sola in un locale ermeticamente chiuso, senza la minima simulazione di pudore, mentre lui la esaminava pregustandola, si tolse la sottoveste, poi le calze. Sotto, portava delle mutandine viola e una guêpière, di un viola più chiaro con liste verticali nere, piuttosto ricercata. La Ermelina ci teneva che le ragazze della sua scuderia curassero la biancheria intima. Questo era l’importante, con una clientela scelta come la sua. Se poi i vestiti e i cappotti erano strapelati, poco male.
La testa reclinata, le labbra contratte nello sforzo, Laide aprì i ganci della guêpière, sulla schiena. Poi la schiuse, come una conchiglia. Restò nuda.
Era il classico corpo della ballerina, snella, le anche strette, le cosce lunghe e slanciate, i seni piccoli da bambina. Sembrava un disegno di Degas. Fece una corsa verso il letto.
«Hai ragione tu, che freddo» e si infilò ridendo sotto le lenzuola, fra le braccia di lui.

27 dicembre 2019

dal racconto “La biro” - Enzo Montano

Dal racconto “La biro”

La signora Ingrid scese con molta circospezione, forse a causa di dolori articolari o affetto verso l’auto? Il racconto dell’amico cliente aveva imposto una serie di riconsiderazioni sull’idea che si era fatto della signora.
Richiuse la portiera con delicatezza, si diresse verso la porta vetrina. Federico l’apri.
«Buongiorno signore» disse Ingrid «posso chiederle un’informazione?».
La voce bassa e vellutata, con marcato accento tedesco, sembrava incespicare ogni volta nelle parole seppure fluisse spedita, scandendole con precisione. Se ci fosse un modo di parlare a stampatello, non poteva essere che il modo in cui Ingrid scandiva impeccabilmente le parole.
«Buongiorno, signora» rispose lui sorridendo «in cosa posso esserle utile?».
«Non so, signore» rispose la donna mentre tirava fuori dalla borsa un astuccio dal quale estrasse un paio di occhiali «volevo chiederle se e possibile sistemare questi occhiali per la lettura. Sa, i libri mi fanno tanta compagnia ma la vista comincia a fare dei grossi capricci. Lo so che sono dei vecchi occhiali, ma sono molto affezionata perche mi ricordano momenti belli.»
«Mi faccia vedere.»
Con molta probabilità la signora Ingrid era legata a quel vecchio paio di occhiali perche li aveva scelti assieme al marito durante un momento di spensieratezza nella sua città.
«Se non si può, le devo chiedere la cortesia di aiutarmi a scegliere un paio di occhiali nuovi.»
«Solo un momento signora.»
Federico prese gli occhiali e li rivoltò tra le sue mani esperte. Erano di ottima qualità ma, come aveva detto la signora, avevano fatto abbondantemente il loro lavoro, si era incrinata la montatura che conteneva la lente sinistra. Quest’ultima, infatti, era delicatamente avvolta nel morbido pannetto utilizzato per la pulizia degli occhiali. Capì che il loro valore era soprattutto affettivo, immateriale e intimo. Con qualche aiuto, avrebbero potuto continuare a fare gli occhiali nella loro quasi integrità ancora per un po’ di tempo.
Ingrid attendeva il parere del professionista.
«Le posso chiedere se utilizza questi ottimi occhiali per la sola lettura?»
«Si, solo per leggere, da lontano vedo ancora bene, ma io leggo quasi sempre, perciò li uso molto spesso.»
«Gli occhiali si possono riparare. Non potranno durare a lungo, ma se attende solo qualche minuto faccio la riparazione, non ci sarà bisogno di molto, solo un po’ di calore e una colla specifica.»
«Lei mi rende felice, signore, non ci speravo. Mi ha reso bellissima anche questa giornata buia. Potrò leggere appena a casa, con i miei carissimi occhiali.»
«Potrà leggere subito signora.»
«Che bello! Vede, sto leggendo un libro che parla della resistenza al nazifascismo. Racconta la storia dei partigiani che agirono in Piemonte. Il mio defunto marito mi parlava molto spesso della Resistenza, della democrazia, del sacrificio di giovani donne e di giovani uomini per lasciare un mondo migliore a chi sarebbe venuto dopo.»
«Mi dispiace per suo marito, signora.»
«È passato tanto tempo ma e sempre con me.»

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Ti accarezzo le ginocchia - Biagio Marin

Salvatore Fiume - Figure in un interno, Tecnica mista su stoffa, cm. 71,5x90
Ti accarezzo le ginocchia - Biagio Marin

Ti accarezzo le ginocchia
more, ed i capelli neri.

Sei come un’anfora cotta
piena di vino.
E le braccia sono le anse.

E ti prendo e ti bevo.
Sotto il sole senza fine.

Dolore: Chi Sono? - Akosua Dufia Boakye

Felice Casorati - Nudo rosa accovacciato,1955, - Olio su tela cm 90x60
Dolore: Chi Sono? - Akosua Dufia Boakye

Il dolore ha un suo fascino,
quello della guarigione.
Quando cominci a guarire
ti dimentichi del dolore,
non lo senti più.
Il dolore ha un suo spessore,
ti insegna sempre qualcosa.
Impari la lezione e il dolore poi lo ricordi,
lo senti.
Il dolore poi è cattivo.
La sua cattiveria è la morte.
Quando la morte arriva
il dolore lo dimentichi,
non lo senti più

Traduzione di Stefania Gliedman

Lei Mare - Nana Akosua Hanson

Ubaldo Oppi - Studio per giovane donna al mare, 1926, olio su cartone, 99 × 67 cm
Lei Mare - Nana Akosua Hanson

Lei mi porterà via
Se la fisso abbastanza a lungo
E intensamente
Mi bisbigliò all’orecchio una volta una donna saggia
Se avessi danzato abbastanza a lungo
E intensamente per Lei Mare
Lei Mare avrebbe danzato dentro le sue onde
Mi avrebbe portata nell’esultanza delle sue profondità infinite
Quella grossa, fragorosa risata che fa tremare il centro della terra
Se avessi riso abbastanza a lungo e intensamente per Lei Mare
La vecchia saggia l’aveva fatto

E ora è lei il Mare e il Mare è lei
Lei Mare Mare Lei

Se diventassi Mare…. A lungo e intensamente…
Lei diventerebbe me e io diventerei Lei.

Traduzione di Pina Piccolo

Fuoco, fuoco - Adam Zagajewski

Giacomo Balla - Estate, 1918
Fuoco, fuoco - Adam Zagajewski

Il fuoco di Cartesio, il fuoco di Pascal,
la cenere, la scintilla.
Di notte brucia un falò invisibile,
il fuoco, che ardendo non distrugge
ma crea, come se in un attimo
volesse restituire ciò che le fiamme
hanno rubato in molti continenti,
la biblioteca di Alessandria, la fede
dei Romani ed il terrore di una bimba
in Nuova Zelanda.
Il fuoco come gli eserciti
dei Mongoli devasta e brucia le città
di legno e di pietra, e poi eleva
case leggere e palazzi invisibili,
impone a Cartesio
distruggi la filosofia e costruiscine una nuova,
si tramuta nel roveto ardente,
sveglia Pascal, percuote le campane
e le fonde per eccesso di zelo.
Avete visto come legge i libri?
Pagina per pagina, lentamente,
come chi ha appena imparato
a sillabare.
Fuoco, fuoco, il fuoco
eterno di Eraclito, l’avido messaggero,
il ragazzo dalle labbra nere come bacche.

Traduzione di Valeria Rossella
Poesia n. 200 dicembre 2005
400 poeti del 900
Crocetti Editore 2005

Approvazione dell’anima - Brenda Dokmah Bakomora

Ernesto Treccani - Gli innamorati
Approvazione dell’anima - Brenda Dokmah Bakomora

Sono qui a raccontarti la storia di una donna che si odiava
Non perché fosse povera o brutta
Non perché fosse orfana o senza tetto
Ma si odiava ugualmente

E sono qui a raccontarti la storia di un uomo che odiava la sua vita
Ne temeva ogni singolo momento
Si svegliava ogni giorno con il fardello di questo mondo
Che gli gravava pesante sulle spalle sottili

Avevano tutto
Palazzi, automobili, denaro, qualunque cosa ti venga in mente
Avevano già provato tutto
Droghe, alcol, ecstasy, alpinismo, paracadutismo, ogni pazzesca avventura

Ma erano tristi nell’anima
Il vuoto nel cuore continuava ad allargarsi
Continuavano a versare lacrime appena erano soli
Erano davvero infelici

Ogni passo della loro vita era monitorato dalla società
Dovevano seguire il modello approvato
Conformarsi al sistema di norme e regole della società

La cravatta svolazzante lo soffocava
Quei tacchi altissimi le stroncavano i piedi
Il completo troppo caldo
Il corsetto troppo stretto
Solo per raggiungere l’aspetto approvato di una vera signora

Lei muore di fame
Eppure ogni notte svuota il piatto nella spazzatura perché sa che, anche se non lo rifiutasse il suo corpo, lei stessa lo vomiterebbe nel lavandino, anoressia
Conformità

Lui affoga nell’alcol
Perché le pillole non servono
Non riesce a dormire perché sa che neppure nel sonno può vivere il proprio sogno, ma solo quello di suo padre

Tutto deciso sin dalla nascita
Frequentare una buona scuola, trovare un buon lavoro
Sistemarsi e aver figli
Lei ha dovuto sposarsi per denaro

Lui ha dovuto sposarsi per il potere e la posizione
Niente amore, amore mai, solo dovere

Le voci dicevano che non si poteva trascinare il buon nome della famiglia nel fango
Nessuno dei miei figli sposerà una ballerina
Nessuna delle mie figlie sposerà un comico

Hanno ignorato la costante chiamata del cuore
Lei voleva solo macchiarsi le mani di vernice e dipingere un nuovo mondo in cui fosse libera di volare
Lui voleva solo scrivere dolce dolce poesia

Voleva raccontare la storia della donna africana
La sua bellezza, le sue lotte e la sua forza

Eppure, la vera pittrice era imbottigliata dentro di lei
Il vero scrittore schiacciato dentro di lui
Schiacciato perché la mamma lo vuole medico e il babbo lo vuole ingegnere

Schiacciati finché il loro vero sé è scomparso
e non è rimasto altro per cui vivere
Così sono diventati strani esseri senza anima
Che percorrono la terra tutti variopinti
Ma contano i giorni che li separano dalla morte agognata

Ecco la ricompensa a conformarsi: piaci a tutti tranne che a te stesso
Segui la tua passione
Vivi per te
Non rinunciare ai tuoi sogni per compiacere famiglia o società
Perché sei straordinariamente forte.

Traduzione di Maria Luisa Vezzali

Voglio finalmente sapere tutto del dolore - Christine Lavant

dipinto di Edson Campos
Voglio finalmente sapere tutto del dolore - Christine Lavant

Voglio finalmente sapere tutto del dolore!
Rompi la campana di vetro della devozione
e porta via l'ombra del mio angelo.
Voglio andare là, dove la tua mano rinsecchisce
nel cervello dei pazzi, nella crudeltà
di cuori rattrappiti che, morsi dall'ira,
si lacerano da soli per spargere la rabbia
nel sangue del mondo.
Il mio angelo se ne va, con la tenda della grazia
sulle spalle, e una scintilla delle tue braci
ha fuso ora tutto il vetro.
Sono colma di superbia e rumino il coraggio
pazzo e borioso, l'ultimo pane che mi resta
da tutto il raccolto della devozione.
Sei stato molto benevolo, Signore, e molto intelligente,
perché senza di te la campana di vetro l'avrei rotta io.
Adesso voglio dare la caccia al mio cuore con i cani
e farlo sbranare, per risparmiare
un lavoro ributtante alla morte.
Sia grazie a te – ora ne so abbastanza.

Traduzione di Anna Ruchat
Poesia n. 322 Gennaio 2017
Christine Lavant. Porta via l'ombra del mio angelo
a cura di Anna Ruchat

L’adolescente – Giacomo Zanella

dipinto di Yuri Krotov
L’adolescente – Giacomo Zanella
I
Ha quindici anni, e l’anima s’inforsa
Come nomarlo. Lo diran fanciullo
O giovine i miei canti? Angelo o creta?
Chè le tempeste de’ maturi giorni
Già gli ruggono in core, e l’innocenza
Virginali fragranze anco vi spande.
Vedi con quanta tenerezza al collo
Della madre si avventa, e volto il capo
Guata ad un’ora timido e confuso
La cara treccia giovanil che spunta
Là fra i roseti del giardino. Ignora
Qual sua gloria sarà; ma della gloria
Già l’infiamma il pensier: non sa che brami,
Ma di fervide brame un incessante
Affollar lo combatte. Oh, se disciolta
Gli fosse la catena! oh, se potesse
Coll’aquila levato oltre que’ monti
Batter l’ala a più liberi orizzonti!

II.
Al rezzo delle piante, in sul tappeto
Molle dell’erbe romoroso coro
Tripudia di fanciulli, a cui due lustri
Ridono appena sul vermiglio viso.
Lì son vividi fior, limpide fonti
E cantanti usignuoli: aerea volta
Tesson gli opachi rami, onde lampeggia
Tremolo il sol ch’ all’occidente inchina.
Ma di fiori, di fonti e d’usignuoli
Al fanciullo non cal, che li calpesta
O gl’intorbida o scaccia, e sull’occaso
Spegnersi lascia inosservato il sole.
Silenzïoso dal materno collo
Si spicca il giovanetto e delle piante
Nella cercata oscurità s’aggira.
Fiori, fonti, usignuoli, avvolte frondi
E purpurei tramonti al cor gli danno
Ineffabil dolcezza: ode una voce
Dall’universo uscir, che non compresa
Pur nell’alma gli suona e l’innamora;
Che ad altri mondi lo solleva e questo,
Pur gli fa benedir dove dimora.
Tal de’ mobili regni hanno confine
Infanzia e giovinezza! Ha picciol’alma
Lieve, incostante il fanciulletto: ardenti,
Smisurati fantasimi al garzone
Affaticano il core. Oh, se disciolta
Gli fosse la catena! oh, se potesse
Coll'aquila levarsi oltre que’ monti
Navigando a più liberi orizzonti!
III.
Ma che vuoi, dell’infanzia il limitare
Valicato, che vuoi, bel garzoncello?
Che sogni sono i tuoi? Sogni la gloria,
Sogni l’amore? Tu nol sai. Sull’erba
Steso neglettamente all’accerchiante
Ampia giogaia delle tue montagne
Giri lo sguardo e di veder le mura
Di una carcer t’avvisi. A più diffuso
Lume di soli, a più largo aere aperto
Alle fughe dell’ala infaticata
Bramosamente aneli, e ti dibatti
Contro i tuoi ferri insanguinando il petto,
Giovin falco mal domo. Io non ti chiedo
Che sia l’amore: tu l’ignori. Il lampo
De’ neri occhi ti piace o degli azzurri?
Candida o bruna è la beltà che segui
Tacendo e disïando? Ami la rosa
Anco nel verde calice ravvolta,
O di sue pompe in sul meriggio altera?
Tu nol sai: ma nell’anima indistinto
T’arde un desìo d’amor, che di bei volti
Fuggitivi ti popola le valli
D’immaginati elisi. Oh, se disciolta
Ti fosse la catena! oh, se potessi
Coll'aquila volando oltre que’ monti
Profondarti a più liberi orizzonti!
IV.
Batte alle porte del futuro indarno
Il timido garzon, che di sua vita
Il certo corso ed i gran fini ignora.
Altro ei non sa, se non che vago, arcano,
Di battaglie foriero e di trionfi
Un desìo lo divora e lo sospinge
Ad ardua meta. Ei sa che a sommo i cieli
Non isfolgora il sole, occhio del mondo,
Perchè dell'uomo illumini i codardi
Ozi e le pompe inutili e la tomba
Che spregiato l'inghiotte ed incompianto
Pur dagli occhi de’ suoi. Sente che il core
Ha bisogno d’un core, in cui riversi
I segreti suoi pianti e le speranze;
Che con sè lietamente alle fumose
Mura ripari di un tugurio e scorga
Nelle canne la porpora; che l’ami
D’un amor, qual de’ teneri poeti
Spira negl’ inni e mai non vide il mondo.
Cotal vaneggia il giovincel che al collo
Della madre si avventa, e volto il capo
Guata ad un’ora timido e confuso
La cara treccia giovanil che spunta
Là fra i roseti del giardino. Angusta
Gli è la valle natìa: d’aria, di luce
Fiera sete lo strugge. Oh, se disciolta
Gli fosse la catena! oh, se potesse
Coll’aquila levato oltre que’ monti
Batter l’ala a più liberi orizzonti!

Come si può fuggire dalla vita lo stento - Esopo

Alighiero Boetti - Piscine
Come si può fuggire dalla vita lo stento - Esopo

Come si può fuggire
Della vita lo stento?
Infinite le cose
Sono che dàn tormento.
Fuggirle o sopportarle
Non è facile cura.
Oh! come dolci sono
Gli obbietti di natura.
Bella la terra e il mare,
La luna e il sole belli,
Ma tutto il resto arreca
E timore e flagelli.
Se di goder qualcosa
Esser può ch’un si vanti,
In cambio, a lui tremenda
Nemesi sorge innanti

Superbi colli - Baldassare Castiglione

Antonio Donghi - Le villeggianti, 1934, dettaglio
Superbi colli - Baldassare Castiglione

Superbi colli, e voi sacre ruine,
che ’l nome sol di Roma ancor tenete,
ahi che reliquie miserande avete
di tant’anime eccelse e pellegrine!
Colossi, archi, teatri, opre divine,
trïonfal pompe glorïose e liete,
in poco cener pur converse siete
e fatte al vulgo vil favola alfine.
Così, se ben un tempo al tempo guerra
fanno l’opre famose, a passo lento
e l’opre e i nomi il tempo invido atterra.
Vivrò dunque fra’ miei martir contento;
ché se ’l tempo dà fine a ciò ch’è in terra,
darà forse ancor fine al mio tormento.

Quanti pesci ci sono nel mare - Gianni Rodari

Quanti pesci ci sono nel mare - Gianni Rodari

Tre pescatori di Livorno
disputarono un anno e un giorno

per stabilire e sentenziare
quanti pesci ci sono nel mare.

Disse il primo: "Ce n'è più di sette,
senza contare le acciughette".

Disse il secondo: "Ce n'è più di mille,
senza contare scampi ed anguille".

Il terzo disse: "Più di un milione!"
E tutti e tre avevano ragione.

da "Filastrocche in cielo e in terra", Editori Riuniti

Il dottor Cetriolo - Gianni Rodari

dipinto di Felice Casorati
Il dottor Cetriolo - Gianni Rodari

Il nuovo collega è un tipo scherzoso. La mattina, quando arriviamo in ufficio, è il primo a salutare. La persona più gentile di tutto il ministero
della Pubblica Istruzione. Però, ecco, saluta a modo suo. "Buongiorno, dottor. Diavoletto.. ." mi fa sorridendo.
"Diavoletto sarà lei, e diavolini i suoi bambini - rispondo, - io mi chiamo Cifariello".
"E non è la stessa cosa, scusi?".
"Se riesce a dimostrarmelo, non le tiro questo timbro rotondo sul naso".
Afferro saldamente il timbro e aspetto. "In principio - egli dice - c'era la parola 'luce', figlia della parola latina lux'. Siamo d'accordo?".
" Fin qui ci sto".
" Allora faccIamo un altro passettino: a 'lux e venuto anche il nome del primo angelo ribelle, Lucifero. Ci sta?".
"Non vedo ancora la parentela tra me e Lucifero".
"Ora ci arriviamo. Da Lucifero in dialetto siciliano viene 'cifaru, che vuoI dire diavolo. Cifariello è un diminutivo di 'cifaru'. Ecco perché mi sono
permesso di chiamarla scherzosamente dottor Diavoletto. Si è offeso?".
Sono costretto a posare il timbro. Ma lo scherzoso collega non se ne accorge nemmeno. Si è già voltato a salutare un nuovo arrivato:
"Buongiorno, signor Rodolfo".
"Rodolfo io? Guardi che si sbaglia. Il mio cognome è Rùffolo, il mio none è Adalberto, mio padre si chiamava Bartolomeo.
Rodolfo non c' entrà'.
"Mi perdoni - dice il collega. - Il cognome Rùffolo, come altri dello stesso tipo, per esempio Ruffo, per esempio Ruffini, potrebbe derivare dal cognome latino Rufus, che a sua volta derivò dalla parola sannitica 'rufus', cioè 'rosso'. Se io accettassi questa teoria, potrei dunque chiamarla signor Rossi, o signor Rossino. lo però sono dell'opinione che Ruffo, Rùffolo, Ruffini e simili derivino dal germanico Rolf... forma contratta del nome Rudolf. ..Dunque se io la chiamo Rodolfo non faccio che leggere nel suo cognome la sua stessa storia segretà'.
"Nella mia famiglia - esclama il dottor Rùffolo - non abbiamo segreti, non abbiamo niente da nascondere, sa? Finiamola con questi scherzi".
"Approvo, -interviene il dottor Gelmetti - è ora di finirla. Sa come mi ha chiamato, ieri, il qui presente collega? Guglielmino, mi ha chiamato.
E si è anche messo a ridere perché protestavo".
"Ma per forza, - ribadì lo scherzoso collega - Gelmetti viene dal nome lombardo Gelmo, forma dialettale di Guglielmo. E Guglielmo viene dal
tedesco Wilhelm, nel quale nome si distinguono due parti 'wil' (cioè Wille) che significa 'volontà' e 'helm', che proviene dal gotico 'hilms', che
voleva dire 'elmo'. A fare la somma di tutte queste voci e significati, invece di chiamarla Gelmetti io potrei chiamarla Guglielmo, 'che della sua volontà si fa un elmo'. Non le pare un complimento?".
Altri colleghi si affollano intorno a noi, per seguire la disputa. Molti chiedono informazioni sul proprio cognome.
."Mi chiamo Parpaglioni. Le dice qualcosa?".
"Il suo cognome deriva dal latino volgare 'parpalià, derivato dal latino 'papillo', che voleva dire 'farfallà".
"Ma allora - commenta il dottor Parpaglioni - com'è che non svolazzo?".
"A proposito, - intervengo io - lei però non ci ha ancora detto come si chiama, caro collegà'.
"No - strilla il caro collega, impallidendo, - non lo saprete mai!".
"Confessa, confessa!" gli gridiamo tutti insieme. "O confessi o non verrai mai con noi a bere il caffè!".
"Ebbene - egli mormora con un fil di voce - confesserò. Mi chiamo.. .Gurchi".
"Ma è un bellissimo cognome!". .
Sembra un tltolo nobilare.
"Sembra un cognome straniero!".
"Signori - continua il dottor Gurchi, il mio cognome viene dal tedesco.
In tedesco 'gurke' vuoI dire 'cetriolo'.. .
lo non sono che un 'citrullus vulgaris"'.
E scoppia a piangere. Noi allora a consolarlo, ad asciugargli le lacrime:
"Su, su, tanto nessuno se ne accorge... .
"Su, stia allegro - gli dico io, - venga, le offro un cappuccino".
E Finalmente egli mi sorride: "Grazie, dottor Diavoletto".

da Buio a Mezzogiorno - Arthur Koestler

da Buio a Mezzogiorno - Arthur Koestler

In tutti i corridoi della nuova prigione modello era accesa la luce elettrica. Illuminava tetra i ballatoi di ferro, le nude pareti imbiancate con calce, le porte delle celle coi cartellini dei nomi e gli spioncini. Quella luce incolore e il suono nitido e senza eco dei loro passi sul pavimento di mattonelle erano così familiari a Rubasciov che per pochi secondi egli si baloccò con l’illusione di sognare ancora. Cercò di forzarsi a credere che tutto ciò non era reale. “Se riesco a persuadermi ch’è tutto un sogno”, si disse, “allora sarà veramente un sogno.”
Cercò così intensamente che quasi si stordì; ma subito dopo una profonda vergogna lo colse. “Bisogna arrivare fino in fondo”, pensò. “Sino alla fine.” Giunsero alla cella 404. Sopra lo spioncino un cartellino col suo nome: Nicolaj Salmanovic Rubasciov. “Hanno preparato tutto in modo esemplare”, si disse; il suo nome sul cartellino gli dette un’impressione d’irrealtà. Avrebbe voluto chiedere al secondino un’altra coperta, ma la porte s’era già chiusa alle sue spalle.

da Nati due volte – Giuseppe Pontiggia

da Nati due volte – Giuseppe Pontiggia

Si chiama Elisa Bauer. È di Bolzano. Ha trentadue anni. Non ha mai avuto un disabile in classe ed è visibilmente agitata, quando la incontriamo per la prima volta. Ha preferito venirci a trovare lei, abitiamo a trecento metri dalla scuola.
I capelli biondi raccolti sulla nuca, si muove con una agilità elastica ed elegante, tanto attraente quanto chiusa in se stessa. qualcosa di più prossimo alla ginnastica che alla sensualità. È bella e ha una concentrazione assorta, una freddezza scostante, tipica delle donne che paventano l’emotività.
Tiene gli occhi abbassati, mentre le parliamo, a turno, del bambino. Siamo ormai esperti nel descriverlo in modi accattivanti. Sorridiamo con disinvolta scioltezza. Strategia sbagliata. Lei si sta convincendo, temo, che il bambino sia un mostro. Ci ha chiesto di che cosa soffre e la definizione, tetra paresi spastica distonica, deve averla atterrita.
Chiudo un attimo gli occhi, mentre Franca le chiarisce alcune deficienze di Paolo. Commettiamo sempre l’errore di attenuarle. Perfino con i medici, anzi soprattutto con loro. Cerchiamo che non si stanchi prima della visita, gli raccomandiamo quello che ci manca, la calma. Ci angosciamo ogni volta che sbaglia più del solito, quasi per dare una giustificazione oggettiva al nostro panico. Temo che siamo noi una coppia di mostri, assillati dalla paura, concordi solo nella speranza assurda di superarla.
Dovremmo semmai presentarlo nelle condizioni peggiori, per eludere una diagnosi accomodante e ottenerne una più attendibile.
I medici, quando si accorgono dei nostri raggiri, reagiscono con malcelata insofferenza. Quante fatiche inutili per influenzarli, mostrando che il bambino è più normale di quanto credono. Mai la verità è stata per noi così sfuggente e angosciosa.
La resistenza muta della signorina Bauer mi sta soffocando. Allora dico, senza guardare Franca alla mia destra, ma immaginando la sua reazione:
«Il suo sarà un compito durissimo. Ne sappiamo qualcosa. Dovrà impegnarsi a fondo. E magari si pentirà di averlo voluto in classe.»
Non è vero, non lo penso, ma lei alza finalmente gli occhi, mi dedica uno sguardo pacificato.
«Adesso non esagerare!» interviene Franca al mio fianco. Io le stringo il braccio fino a farle male, ci fissiamo un attimo con furore reciproco, mentre la signorina Bauer che non si è accorta di nulla e ha abbassato gli occhi, dice:
«Mi sembra un discorso costruttivo. Era questo che volevo sentirle dire.»
Franca si tocca il braccio. So che cosa mi aspetta dopo. Anche lei lo sa. Lo sappiamo tutti e due (forse è questo il matrimonio). La signorina Bauer aggiunge:
«Io preferisco essere preparata al peggio, non al meglio!»
«Ha ragione!» esclamo, come se lo scoprissi in quel momento.
La signorina Bauer alza gli occhi luminosi, velati di commozione:
«Sono fatta così. Nel lavoro mi è sempre di aiuto. Non crede che sia un bene?»
«Ma certo!» le concedo quell’entusiasmo di cui siamo prodighi quando non ci costa nulla. È ciò che differenzia, nello studio di un artista, i visitatori dagli acquirenti.

dal racconto “Il raccolto” - Enzo Montano

dal racconto “Il raccolto”


Al risveglio mise in atto la più brillante soluzione concepita da mente umana che prese corpo nel brevissimo dormiveglia che aveva preceduto la più che meritata siesta.
Afferrò risolutamente una robusta fune, la legò all’anello di un angolo del telone su cui era ammassato il grano, assicurò quindi saldamente l’altra estremità ai guarnimenti del mulo a cui aveva autorevolmente delegato la fatica di spostare il frutto del raccolto risultato in esubero rispetto alle sue ponderate previsioni. L’idea era di una semplicità disarmante: il mulo avrebbe trascinato il telone, cosi il grano sarebbe stato messo rapidamente al riparo, nel porticato antistante la casa.
Ma quello che Peppe non aveva strappato dagli angoli bui dell’imponderabilità era il fatto che gli zoccoli del mulo non avrebbero fatto presa sul pavimento liscio del porticato, che il mulo sarebbe caduto fratturandosi la zampa anteriore destra, che lo strappo violento avrebbe tirato via il telone e che il grano sarebbe rimasto sparso nell’aia, dove in breve sarebbero accorse le sue numerose galline e tutti i colombi della contrada a gozzovigliare come in un antico baccanale.
L’intervento di alcuni vicini evitò il peggio. Buona parte del grano fu raccolto e messo al sicuro. Il mulo fu venduto, meglio dire quasi regalato, al macello dal momento che il veterinario non aveva concesso altre possibilità alla povera bestia.
La colpa del disastro fu attribuita in egual misura ad Annina, alla sfortuna e al mulo. A quest’ultimo anche l’aggravante di essersi condannato al macello e di aver prodotto un danno alle poco floride finanze domestiche.
Peppe, travolto dall’accanimento della malasorte, vittima ingiusta di cosi ‘codardo oltraggio’, andò al bar nel tentativo di trovare conforto nella distrazione. Si sedette a un tavolino appartato, quasi in penombra, dove la sua immaginazione gli fece intravedere il profilo della sfortuna che, nella sua mente irata, assumeva le sembianze di una donna dai capelli arruffati, gli occhi di fuoco e il viso bitorzoluto. Sembrava la brutta copia di Maga Magò. Con quella presenza inquietante, Peppe ingaggiò una singolare tenzone che durò quattordici birre, nove colmi bicchierini di Stock 84, cinque di vermouth rosso e altrettanti di marsala all’uovo. Si smarrì nelle profondità di una buia vallata dove, tra una strana vegetazione fatta di spighe gigantesche, scorrevano torrenti di brandy e birra, marsala e vermouth.
Gli amici lo accompagnarono a casa dove si svegliò nel tardo pomeriggio di due giorni dopo.


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