Raffaello - Espulsione di Eliodoro
Canto su alcune rovine – Pablo Neruda
Questo che fu creato e dominato,
questo che fu inumidito, usato, visto,
giace – povero fazzoletto – tra le onde
di terra e nero zolfo.
Come il bocciolo o il seno
si levano verso il cielo, come il fiore che sale
dall'osso distrutto, così le forme
del mondo apparvero. Oh palpebre,
oh colonne, oh scale.
Oh profonde materie
aggregate e pure: quanto fino a essere campane!
Quanto fino a essere orologi! Alluminio
d'azzurre proporzioni, cemento
incollato al sogno degli esseri!
La polvere si riunisce,
la gomma, il fango, gli oggetti crescono
e le pareti s'innalzano
come pergole di oscura pelle umana.
Lì dentro in bianco, in rame,
in fuoco, in abbandono, le carte crescevano,
il pianto abominevole, le ricette
portate nella notte in farmacia mentre
qualcuno aveva la febbre,
la secca tempia della mente, la porta
che l'uomo ha costruito
per non aprirla mai.
Tutto se n'è andato, è caduto
brutalmente appassito.
Utensili feriti, tele
notturne, schiuma sporca, orine giustamente
versate, guance, vetro, lana,
canfora, cerchi di filo e di pelle, tutto,
tutto da una ruota restituito alla polvere,
al disorganizzato sogno dei metalli,
tutto il profumo, tutto l'incanto,
tutto riunito in nulla, tutto caduto
per non nascere più.
Sete celeste, colombe
con cintura di farina: epoche
di polline e di grappolo, guardate come
il legno si distrugge
fino a giungere al lutto: non vi sono radici
per l'uomo: tutto riposa appena
su un tremore di pioggia.
Guardate come è marcita
la chitarra sulla bocca della fragrante fidanzata:
guardate come le parole che tanto costruirono,
ora sono sterminio: guardate sopra la calce e tra il marmo distrutto
la traccia – già con muschio – del singhiozzo.
Questo che fu creato e dominato,
questo che fu inumidito, usato, visto,
giace – povero fazzoletto – tra le onde
di terra e nero zolfo.
Come il bocciolo o il seno
si levano verso il cielo, come il fiore che sale
dall'osso distrutto, così le forme
del mondo apparvero. Oh palpebre,
oh colonne, oh scale.
Oh profonde materie
aggregate e pure: quanto fino a essere campane!
Quanto fino a essere orologi! Alluminio
d'azzurre proporzioni, cemento
incollato al sogno degli esseri!
La polvere si riunisce,
la gomma, il fango, gli oggetti crescono
e le pareti s'innalzano
come pergole di oscura pelle umana.
Lì dentro in bianco, in rame,
in fuoco, in abbandono, le carte crescevano,
il pianto abominevole, le ricette
portate nella notte in farmacia mentre
qualcuno aveva la febbre,
la secca tempia della mente, la porta
che l'uomo ha costruito
per non aprirla mai.
Tutto se n'è andato, è caduto
brutalmente appassito.
Utensili feriti, tele
notturne, schiuma sporca, orine giustamente
versate, guance, vetro, lana,
canfora, cerchi di filo e di pelle, tutto,
tutto da una ruota restituito alla polvere,
al disorganizzato sogno dei metalli,
tutto il profumo, tutto l'incanto,
tutto riunito in nulla, tutto caduto
per non nascere più.
Sete celeste, colombe
con cintura di farina: epoche
di polline e di grappolo, guardate come
il legno si distrugge
fino a giungere al lutto: non vi sono radici
per l'uomo: tutto riposa appena
su un tremore di pioggia.
Guardate come è marcita
la chitarra sulla bocca della fragrante fidanzata:
guardate come le parole che tanto costruirono,
ora sono sterminio: guardate sopra la calce e tra il marmo distrutto
la traccia – già con muschio – del singhiozzo.
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