Omar Ortiz - Gemelas
Ovidio - Eroidi. Cidippe ad Aconzio
Mi
è giunta la tua lettera, Aconzio, dove è solita giungere e ha quasi
insidiato i miei occhi. Ho avuto molta paura ed ho letto il tuo scritto
in silenzio, perché la mia lingua, inconsapevolmente, non giurasse su
qualche divinità. E credo che tu mi avresti di nuovo ingannata se, come
tu stesso ammetti, non sapessi che è sufficiente esserti stata promessa
una volta. E stavo per non leggere, ma,
se fossi stata inflessibile con te, forse sarebbe aumentata la collera
inesorabile della dea. Benché faccia di tutto, benché offra a Diana il
sacro incenso, ella tuttavia ti favorisce più del giusto e, come vuoi
che si creda, ti difende con la sua collera che non dimentica: a mala
pena con il suo Ippolito si comportò così. Ma lei, vergine, avrebbe
fatto meglio a proteggere i miei verginali anni, che temo ella voglia
siano pochi per me. Infatti il mio indebolimento persiste senza una
causa apparente ed io, spossata, non trovo giovamento nell'aiuto di
nessun medico. Lo credi che sono indebolita al punto di scrivere questa
risposta a fatica e che a fatica riesco a sollevare, appoggiando sul
gomito, le mie membra esangui? Ora si aggiunge il timore che qualcuno,
oltre alla nutrice al corrente di tutto, si accorga che fra noi c'è un
colloquio epistolare. Costei siede davanti alla porta e a coloro che
chiedono che cosa io stia facendo dentro, risponde: "Dorme", perché mi
sia possibile scriverti in tranquillità. Poi, quando il sonno, il
migliore pretesto per un lungo isolamento, cessa di essere credibile per
l'eccessiva durata e quando ormai lei vede arrivare chi sarebbe
difficile non lasciare entrare, tossisce e mi avverte con il segnale
convenuto. In fretta lascio le parole incompiute, così come erano e la
lettera iniziata viene nascosta nel mio seno trepidante. Quando poi la
riprendo di lì, affatica di nuovo le mie dita: vedi tu stesso che grande
sforzo sia per me. Possa io morire se, a dire il vero, tu ne eri degno;
ma io sono più generosa del dovuto e di quanto tu meriti. Dunque io,
tante volte in precarie condizioni di salute per causa tua, sono e sono
stata punita per le tue trovate? Questa è la ricompensa che mi è toccata
perché tu esalti lo splendore della mia bellezza e l'esserti piaciuta
si ritorce contro di me? Se ti fossi sembrata brutta, cosa che
preferirei, il mio corpo disprezzato non avrebbe bisogno di nessun
aiuto; ora mi lamento perché sono ammirata, ora mi fate morire con la
vostra rivalità e sono io ad essere colpita proprio dalle mie stesse
doti. Mentre tu non ti ritiri e quell'altro non si considera secondo,
mentre tu contrasti le sue aspirazioni, egli le tue, io sono sballottata
come una nave che il soffio di Borea senza tregua sospinge al largo e
la furia delle onde respinge indietro; e quando è imminente il giorno
sperato dagli amati genitori, contemporaneamente una febbre
incontrollata si impadronisce del mio corpo. Ora, al momento stesso
delle mie nozze, la spietata Persefone bussa anzitempo alla mia porta.
Ormai mi vergogno e temo, benché io non ne abbia coscienza, di dare
l'impressione di aver meritato lo sdegno degli dèi. Uno pretende che
questo fenomeno avvenga per caso, un altro afferma che questo sposo non è
gradito agli dèi. E non credere che non vi siano dicerie anche contro
di te; certuni attribuiscono questi avvenimenti ai tuoi sortilegi. Il
motivo è occulto, ma il mio male è evidente; mentre voi respingete la
pace e provocate aspri scontri, io ne sono vittima. Ma dimmi, e
ingannami come è tuo solito: che cosa farai per odio, se per amore mi
fai così male? Se fai del male al tuo amore, il nemico lo amerai con
giudizio; ti prego allora, per salvarmi, di avere l'intenzione di
volermi rovinare! O non ti preoccupi più, ormai, della fanciulla
desiderata, che tu, crudele, lasci morire per un male che non merita,
oppure, se invano supplichi per me la dea implacabile, perché ti vanti
con me? Non sei affatto nei suoi favori. Scegli cosa dare ad intendere;
non vuoi placare Diana: allora ti sei dimenticato di me; non ne sei
capace: allora è lei che si è dimenticata di te. Preferirei non avere
mai conosciuto Delo nelle acque dell'Egeo, o almeno, non in quelle
circostanze. Allora la mia nave affrontò un mare difficile e l'ora di
inizio del viaggio fu infausta. Con quale piede mi incamminai? Con quale
piede uscii dalla soglia? Con quale piede toccai il tavolato dipinto
della nave veloce? Due volte le vele furono respinte dal vento
contrario: ma sono pazza, mento! Era favorevole. Era favorevole quel
vento che mi respingeva mentre proseguivo e che mi impediva un viaggio
malaugurato. Oh, se fosse stato costante contro le mie vele! Ma è
sciocco lamentarsi della mutevolezza del vento. Sollecitata dalla fama
del luogo, avevo fretta di visitare Delo e mi sembrava di avanzare su di
una imbarcazione pigra; quante volte rimproverai la lentezza dei remi e
mi lamentai che venisse data poca velatura al vento! E avevo già
superato Micono, già Teno e Andro e ormai Delo, la luminosa, era davanti
ai miei occhi. Come la vidi da lontano dissi: "Isola perché mi sfuggi?
Vai forse errando, come per il passato, nel vasto mare?". Ero scesa a
terra al cadere del giorno, quando ormai il Sole stava per togliere il
giogo ai suoi cavalli purpurei. Quando poi il dio li richiamò al
consueto levarsi, per ordine di mia madre mi vengono acconciati i
capelli. Ella stessa mi mise alle dita pietre preziose e oro fra i
capelli e fu proprio lei a ricoprirmi le spalle con una veste. Appena
uscite onoriamo gli dèi ai quali è consacrata l'isola e offriamo biondo
incenso e vino. E mentre mia madre tinge l'altare del sangue delle
vittime e getta le viscere a pezzi tra le fiamme fumanti, la mia nutrice
sollecita mi guida in altri templi e ci aggiriamo qua e là per i luoghi
sacri. Ora passeggio sotto i portici, ora ammiro i doni dei re e le
statue che si innalzano ovunque. Ammiro anche l'altare costruito con
innumerevoli corna e l'albero al quale si appoggiò la dea partoriente e
inoltre tutto quello che Delo possiede - non ricordo, e non ho voglia di
descrivere tutto ciò che vidi in quel luogo. Forse, mentre guardavo
queste cose ero guardata da te, Aconzio, e la mia semplicità ti sembrò
facile preda. Ritorno al tempio di Diana, che si erge alto sui gradini:
quale luogo doveva essere più sicuro di questo? Viene gettata davanti ai
miei piedi una mela con versi di questo tenore... Ahimè, stavo quasi
per ripeterti il giuramento! La mia nutrice la raccolse e, stupefatta,
mi disse: "Leggi bene!" - ed io lessi, o grande poeta, il tuo inganno.
Nel pronunciare la parola matrimonio, turbata per la vergogna sentii che
le mie guance erano completamente arrossite e tenevo gli occhi come
inchiodati al grembo, occhi divenuti complici del tuo proposito. Perché,
disonesto, gioisci? Quale gloria pensi di aver acquistato o quale
merito hai come uomo per esserti preso gioco di una fanciulla inesperta?
Io non ti stavo innanzi munita di pelta e con una scure in pugno, come
Pentesilea in territorio troiano; tu non hai riportato come bottino di
guerra nessuna cintura di Amazzone d'oro cesellato, come quella presa a
Ippolita. Perché ti inorgoglisci se le tue parole mi hanno ingannata e
io, fanciulla poco avveduta, sono caduta nel tuo tranello? Una mela ha
ingannato Cidippe, una mela la figlia di Scheneo: tu, ora, sarai dunque
un secondo Ippomene? Ma sarebbe stato meglio, se davvero ti possedeva
questo fanciullo che tu dici avere non so quali fiaccole, seguire la
consuetudine dei galantuomini e non guastare la speranza con un inganno:
tu avresti dovuto persuadermi con le preghiere, non vincermi a
tradimento. Perché, dal momento che mi volevi, non ritenevi di dover
manifestare i motivi per i quali io dovevo scegliere te? Perché volevi
costringermi piuttosto che persuadermi, se potevo essere conquistata
dopo aver ascoltato la tua proposta di matrimonio? Che vantaggio ti
porta la formula di un giuramento e che la mia lingua abbia chiamato a
testimone la dea presente? È la mente che giura: io non ho giurato nulla
con quella; solo la mente può aggiungere fede alle parole. Giurano la
volontà e la decisione consapevole dell'animo e nessun obbligo ha valore
se non quelli contratti per propria convinzione. Se di mia volontà ti
promisi le nozze con me, esigi il dovuto diritto del letto promesso. Ma
se non ti ho dato nulla, se non una voce senz'anima, possiedi
inutilmente parole svuotate del loro valore. Non sono io che ho giurato,
io ho letto le parole di un giuramento: non dovevo sceglierti come
marito in questo modo. Inganna altre, così; sostituisci una lettera alla
mela; se questo metodo funziona, porta via ai ricchi i loro grandi
patrimoni. Fa' giurare ai re di darti i loro regni e che sia tua
qualunque cosa ti piaccia, in tutto il mondo! Sei molto più grande,
credimi, della stessa Diana, se una tua lettera ha un potere tanto
efficace. Tuttavia, dopo averti detto questo ed essermi rifiutata a te
con fermezza, dopo aver esaurientemente esposto il motivo della mia
promessa, temo, lo confesso, la collera della inflessibile figlia di
Latona e ho il sospetto che venga di là la malattia che affligge il mio
corpo. Infatti perché ogni volta che vengono preparate le cerimonie
nuziali, altrettante volte il corpo della promessa sposa cade malato?
Per tre volte Imeneo, arrivando dinanzi agli altari preparati per me, è
fuggito volgendo le spalle sulla soglia del talamo; a fatica si
rianimano le fiaccole tante volte alimentate dalla sua mano svogliata, a
fatica tiene accese le torce, agitando la fiamma. Spesso dai suoi
capelli inghirlandati stillano unguenti e trascina il mantello
splendente di croco. Non appena ha toccato la soglia e vede lacrime e
paura di morte e molte cose che contrastano con i suoi ornamenti, egli
stesso leva via le corone dalla fronte, le getta lontano e deterge dalle
chiome rilucenti il denso amomo; si vergogna di apparire gioioso in un
triste consesso e quel rossore che era sul manto passa sul suo viso. Ma
le mie membra, ah sventurata! bruciano di febbre e le coperte mi pesano
più del dovuto; vedo i miei genitori in lacrime chini sul mio viso e al
posto della fiaccola nuziale, mi è accanto la fiaccola di morte. Dea che
ti compiaci della faretra dipinta, abbi pietà di chi soffre e concedimi
l'aiuto salutare di tuo fratello. È vergognoso per te che sia lui ad
allontanare le cause della mia morte e che sia tu, al contrario ad avere
la responsabilità della mia fine. Forse quando volevi lavarti in una
sorgente ombrosa, ho diretto, incauta, il mio sguardo al tuo bagno? O
forse, fra tanti altari degli dèi, ho trascurato i tuoi, o vostra madre è
stata disprezzata da mia madre? Io non ho commesso nessuna colpa se non
quella di aver letto un falso giuramento, di essere stata capace di
leggere versi infausti. Offri anche tu incenso per me, se il tuo amore
non è una finzione; mi rechino aiuto le mani che mi hanno fatto del
male! Perché colei che si adira, se non è ancora tua la fanciulla che ti
è stata promessa, non fa in modo che possa diventarlo? Finché sono
viva, puoi sperare tutto da me: perché la dea crudele toglie a me la
vita, a te la speranza di avermi? E tu non credere che colui al quale
sono destinata in moglie, tocchi con le sue mani il mio corpo malato e
lo accarezzi! Certo, egli mi siede accanto, per quanto gli è concesso,
ma non dimentica che il mio è il letto di una vergine. Sembra anche che
ormai si sia accorto di qualcosa sul mio conto, spesso infatti gli
scendono lacrime per un motivo segreto; mi accarezza con meno ardore e
raramente... qualche bacio e con voce incerta mi chiama sua; e non mi
stupisco che se ne sia accorto, dal momento che mi tradisco con segni
evidenti: quando lui arriva, mi giro sul fianco destro, non parlo, fingo
di dormire, tenendo gli occhi chiusi e respingo la sua mano che cerca
di toccarmi. Geme e sospira in silenzio dal profondo del petto e ritiene
che io sia offesa, sebbene lui non lo meriti. Ahimè, tu ne gioisci e ti
piace questo spettacolo! Ahimè, ti ho confessato i miei sentimenti!
Invece tu, che mi tendevi le reti, meriteresti a maggior diritto la mia
collera se io fossi capace di provarne! Mi scrivi che ti sia concesso di
venire a visitare il mio corpo malato - sei lontano da me e tuttavia
anche da lì mi fai del male. Ero curiosa di sapere perché tu ti
chiamassi Aconzio: è perché possiedi una punta acuminata che ferisce a
distanza. Sicuramente io non mi sono ancora ristabilita da una tale
ferita, colpita a distanza dal tuo scritto come da un giavellotto. Ma
perché vorresti venire qui? Senza dubbio per vedere un corpo che muove a
compassione, doppio trofeo del tuo ingegno! Sono consunta dalla
magrezza, il mio incarnato è esangue come, mi ricordo, era il colore
della mela. Il candore del mio viso non traspare più, luminoso, sotto un
diffuso rossore: tale è solitamente l'aspetto del marmo appena
tagliato, tale è il colore dell'argento nei banchetti, che si appanna al
gelido contatto dell'acqua. Se mi vedessi ora, diresti di non avermi
mai vista prima; dirai: "Questa non è donna che meriti di essere
conquistata con la mia astuzia". Mi dispenserai dal mantenere la
promessa, perché non debba unirmi a te e desidererai che la dea non se
ne ricordi. Forse farai anche in modo che io giuri di nuovo il contrario
e mi invierai un'altra formula da leggere. Tuttavia vorrei che tu
riuscissi a vedermi, come tu stesso chiedevi e ... lo stato di
indebolimento della tua promessa sposa. Anche se tu, Aconzio, hai un
cuore più duro del ferro, tu stesso chiederesti perdono per le mie
parole. Tuttavia, perché tu lo sappia, si sta chiedendo a Delfi, al dio
che vaticina il destino, con quale mezzo io possa recuperare la salute.
Anche lui (non so... mormorano voci imprecisate) anche lui, che è stato
ugualmente testimone, si lamenta, che non sia stata mantenuta la parola
data. Questo dice il dio e vate, questo dicono anche i miei versi, ma al
tuo desiderio non manca nessun verso! Da dove ti viene questo favore? A
meno che tu non abbia trovato per caso un nuovo scritto, la cui lettura
inganni i grandi dèi; e se tu tieni dalla tua parte gli dèi, anch'io
seguo il volere divino e di buon grado, secondo i tuoi desideri, ti
porgo le mie mani, ormai vinte. Ho confessato a mia madre il patto
stretto dalla mia lingua ingannata, tenendo gli occhi fissi a terra,
pieni di vergogna. Il resto dipende da te; io ho fatto anche più di
quanto dovesse una fanciulla, poiché la mia lettera non ha avuto timore
di parlare con te. Ho già affaticato abbastanza con la penna le mie
deboli membra e la mia mano malata rifiuta di prolungare il suo compito.
Che mi resta da dire, se non che la mia lettera aggiunga l'augurio di
buona salute che desidero ormai godere con te?
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