The Moon nymph - Luis Ricardo Faléro
Il funambolo e la luna - Ghiannis Ritsos
I
Sempre l’amore – diceva Ione, - principio e fine;
e di nuovo l’amore oltre la morte. Ah, Ione –
che notti stellate; e le stelle primaverili brillavano nell’aria
come i bicchieri di cristallo del nuovo locale sul mare. Era
di giugno;
arrivavano, partivano navi cariche di frutta, luci, chitarre –
un eterno spostamento da un luogo all’altro, da un viso
all’altro,
una silenziosa affermazione al di sopra d’ogni rifiuto –
l’acqua intorno alla pietra –
migliaia di promesse e movimenti – un ginocchio, uno
sguardo, una bocca –
aspetta; non andare; non andatevene; viviamolo qui –
disse Alkis –
l’istantaneo, l’eterno, l’inesauribile.
Una donna
scendeva la scala della nave reggendo una cappelliera. Sulla
chiatta accanto
avevano caricato quattro cavalli, due rosso, due neri.
Guardavano
con triste stupore gli scaricatori, gli argani, le navi, i
marinai,
i bagliori d’acqua. Socchiudevano gli occhi. Ogni tanto
un tremito impercettibile passava sul loro orecchio. E tu,
ubriaco vacillavi
in un punto del decollo, impigliato in una rete immensa
che forse hai intrecciato tu stesso per la grande pesca.
Comunque
le maglie di questa rete erano grandi come porte,
entravi, uscivi o a volte restavi
su una delle mille soglie, mangiando un’uva grossa,
gli acini a cinque a cinque. Il succo ti colava sul mento,
lungo il collo,
e leccavi avidamente le tue dita o le dita delle mani e dei
piedi
di nove belle donne nude.
Altre donne
Scendevano dai quartieri vicini,
si fermavano davanti alle teche di vetro degli usurai,
scambiavano due parole
con qualche esitazione, come avessero un fuoco nelle
tasche. Lasciavano sul cristallo
certi grandi gioielli di famiglia, offuscati dal tempo,
chilometri di catenine d’oro, orologi guasti a tre casse,
fibbie, braccialetti, anelli. Ne ricavavano poco o nulla
e se ne andavano in fretta verso il mercato del pesce. Non
tornavano mai a prenderseli;
sapevano già che la vita, con tutti i suoi spaghi, le carte da
imballaggio, le scatole di cartone, le immagini
è più ricca del proprio ricordo.
Proprio allora Christos
Spartì le sue vesti, spartì la sua carne, le sue ossa
E rimase carnale, carnale, carnale,
uno e molteplice – bello stallone
che generava cavalli, fanciulle, ragazzi, veicoli a ruote,
uova, fiumi, vacche,
e un melo con sette uccelli su ogni ramo;
che generava e ingrandiva incessantemente
vacche, cavalli, fanciulle, ragazze, cipressi,
finché infine salì sul colle fitto di ulivi,
e tra le statue degli undici efebi nudi e gozzoviglianti fece
il suo proclama –
il grande proclama della feroce innocenza del mondo.
E noi non sapevamo che diavolo gli prenda ogni tanto alla
poesia
che scaglia contro le ciance arroganti degli altissimi vènti
versi spensierati dai capelli sciolti, e altri della
rassegnazione,
e altri simili a donatori do sangue professionisti che
attendono in silenzio sulle panchine verdi
fuori nel giardino fiorito dell’Ospedale. Attendono pensosi
finché entrano nelle sacre scale delle piccole resurrezioni
coi lunghi lacci di gomma, i recipienti in vetro;
o gli altri versi, deportazioni, scioperi, carceri, donne virili
su mostruosi affreschi,
il bel funambolo, amante della luna, sospeso su in cielo,
fanciulli con canestri sul capo e vedove di giustiziati coi
fazzoletti neri,
i “gloria nel più alto dei cieli” della rivoluzione mondiale
a vele spiegate
e dei ragazzini scalzi dai lunghi riccioli entusiasti
appuntati con cardi d’oro e piccoli gigli blu.
Perciò, nonostante la pletora di oggetti, eventi,
contraddizioni castighi, giornali,
bisognerebbe aggiungere anche acque, platani e pani e
osanna e fucili,
e una domenica con ombrelli gialli e ciechi e turisti
e armoniche. E nei cesti dei venditori ambulanti tristi
erano ammucchiati
migliaia di pettini multicolori. E soprattutto questi non
dimenticare
di aggiungerli al monte Ararat, finché si svuoti ogni cosa e
non resti
di fronte al Cielo immacolato, che il Corpo umano solo,
sano, nudo.
II
Sempre l’amore – come diceva Ione – principio e fine;
e di nuovo l’amore, oltre la morte. Ione –
era digiuno, splendido meriggio, e Ione seminudo,
una catenina d’oro con una piccola croce sull’ampio petto,
le gambe prese da antiche statue di aurighi. E forse un
giorno sarebbe partito
su una barca a vela bianca; - perché la bellezza – disse Elena –
deve svanire presto.
- Ciane, Melpomene, Giacinta, -
- chiamava Persèfone, dal balcone. il suo peplo rosa
Ondeggiava fin giù sulla spiaggia. – Nausica, Gelsomina,
Ismene, Elettra. I nomi
delle ragazze salivano più in alto dei gabbiani, per poi
cadere mollemente in mare
simili a isolette con rematori, barche da pesca, sedie di
paglia. Un ragazzo
pescava con la canna sotto il faro.
Telis rideva,
gli brillavano i denti sul viso abbronzato. Telis
ah, fossi lo stesso sole; si sdraiassero sotto di me ragazze e
ragazzi,
e io a bruciarli, ad abbronzarli – mani, piedi, seni, schiene,
ventri, cosce, menti, guance, con migliaia di raggi
li perforerei, penetrerei in loro, sotto il loro costume,
sotto la loro pelle, più dentro, più dentro,
fin nella profonda frescura della nascita e della morte, e più
dentro ancora
fin nella più profonda voluttà dell’assenza di nascita e di
morte.
E il corpo di Artèmide era bianco e rosa, tutto dipinto a
fiorellini rossi,
un grande giardino rosso. E Telis
aveva in bocca una dura mandorla gemella. Non la spaccò.
La teneva in bocca,
gli rendeva amara la saliva e gli impediva di parlare;
sentiva solo dentro di sé il ruggito di 109 leoni di felicità,
come se tra i denti
avesse quel sottilissimo apparecchio di metallo che portano
i ragazzi dodicenni dagli incisivi sporgenti,
quei ragazzi tristi e scontrosi che frequentano scuole
private in lingue straniere.
E allora Artèmide diventava una Città con alti lampioni
accesi,
con giovani ciclisti e un autobus rosso,
soldati rimiravano i nuovi orologi da polso davanti alle
gioiellerie,
e si udiva la gamba di legno dello zoppo sulla terrazza
vicina
e soprattutto si udiva il rubinetto del bagno lasciato
aperto, forse apposta,
perché il flusso è l’unica cosa immobile, immutabile ed
eterna della nostra vita.
E Petros sembrava adirato come se avessimo tralasciato
qualcosa di importante
come se avessimo fatto un torto a qualcuno. Ma gli donava
l’ira sulle labbra, sulle sopracciglia, sul mento,
assai più dell’indulgenza o del disprezzo. Né ci
soffermavamo a lungo allora
su simili osservazioni filologiche, perché le notti correvano
forsennate
sui portapacchi degli autobus, sugli ammazzati, indossando
i lunghi lenzuoli dei nostri amori. Si strascicavano i
lenzuoli sulle strade
spazzando fiori calpestati del Venerdì Santo, gelsomini,
foglie d’alloro, fiori d’arancio,
scatole di fiammiferi, stuzzicadenti, trucioli di bare e di
armadi popolari,
pacchetti di sigarette vuoti, bandierine di carta,
preservativi e stelle.
E naturalmente bisogna che tu tenga in mano un’arancia
amara,
e bada: non tralasciare la zampa anteriore sinistra di questa
formica che sale
camminando sghemba, in modo un po’ buffo, sul muro
color granata con i ragni morti
mentre nelle sale interne segrete i dodici congressisti si
sono addormentati
e sul lungo tavolo nudo resta il campanello del presidente:
impenetrabile, onniveggente, molto grande, come una
campana
dopo la funzione serale del Sabato dei Morti. E il cameriere
astuto, ma bello,
se ne sta sulla porta mangiucchiando una buccia d’arancia
con un significato
affatto personale (e generale). Simili minime non –
omissioni
reclamizzano perfino le notti più oscure e malfamate.
Così, ben oltre la mezzanotte, il corridoio della Torre
profuma ancora
di pesce alla griglia, olio limone e origano. Il giovane
funambolo
giunge all’estremità della fune tesa sopra il crepaccio;
scende,
passo leggero e sandali dorati. Scompare dietro gli alberi.
E gli scarponi dei militari,
allineati davanti alla grande Porta di marmo,
respirano con froge di mitici mostri dilatate
in un profondissimo ritmo di quiete – inspirano, espirano,
inspirano, espirano, - respirano
la contraddittoria, erotica bellezza del mondo.
III
Corpo con corpo, mille corpi, diecimila, senza contare gli
altri,
quelli dei sogni. Amore. E le notti non hanno apparenze né
riserve;
le notti squillano tutte di capezzoli rosa eretti e di lunghi
testicoli neri,
di fiumi sbrigliati e alberi e cavalli. Tremolano e scintillano
nell’aria
gocce d’acqua, stille di vapori, pollini di stelle e fiori,
nelle tasche rivivono briciole di tabacco,
e la radice di ogni piuma affonda la punta in una goccia
sferica di sangue.
Giasone adolescente
ha in mano una melagrana e si guarda le unghie. Non ha
imparato ancora
che lo sperma riempie gli enigmi e libera i miti.
Miti su miti, rifugi, incarnazioni dell’inattuabile, sigarette
per le strade,
le occhiate frequenti all’orologio al polso, che attende
il tocco dell’altra mano o delle manette
perché tutto e tutti attendono dietro i vapori caldi sui vetri
di trattorie popolari,
luci, buzukia, farmacie, fioristi, birre, aspirine,
e i tre scalzi camminano nel parco
e l’altro in bagno si insapona i testicoli con insistenza,
mentre la donna nuda davanti allo specchio si passa la lacca
sui capelli,
forma una torre con poggioli, con cinque cicogne e tre
bandiere
e passano i camion con i giustiziati.
In fondo al giardino
brevi bagliori di posate, gesti, bicchieri, piatti, parole,
interrompono con linee spezzate il buio. Ogni tanto una
parola
rimane sospesa in aria con le ali spiegate, come una grossa
farfalla d’oro
e subito dopo cade al suolo e si spegne triste
come se una madre avesse spento una lampada a petrolio
nella stanza di un giovane flautista.
Dunque, vi dicevo – disse Fedros – non ricordo nemmeno
cosa; perché il ricordo è nato ora,
e l’ora bisogna rammentarlo perché diventi sempre. Una
botte enorme
dal monte rotola nel mare. O, notturno diurni colori,
cambi di guardia, marinai, mozzi, comandanti di
bastimenti, puttane,
l’ombra verde della grande nave e i delfini che dormono sul
fianco destro
e i fuochisti ubriachi che fanno lunghissime pisciate in
acqua
e la fica aperta della luna, smangiata, rossorosa sopra le
alberature delle navi.
Levati la rosa dai capelli, dunque; levati anche le scarpe
bianche;
così, mia gioia. Migliaia di pesci passeggiarono per aria,
migliaia di stelle nel tuo sangue. Galline gialle vanno su e
giù
per le scale di Cnosso. Il bel funambolo
cambia la sua liscia asta d’equilibrio con un giglio. Ogni
cosa attende
di prendere e donarsi.
Un angelo
entra zoppicando nella posta centrale. Potrebbe
volare leggero sulle nostre spalle, così
non si vedrebbe affatto che è zoppo. Lui, al contrario,
zoppica lentamente e semplicemente. Questo mi piace in
modo particolare. Anzi,
quando si è fermato paziente davanti allo sportello per
comprare
tre francobolli per l’estero, proprio in quell’istante mi è
parso
che avesse ritratto completamente le ali dentro il corpo
col sistema automatico della tartaruga che ritrae le zampe.
Ma poco dopo
questa grande semplicità dell’Angelo e la sua modestia
smisurata
mi sono parse sospette e ricercate. Quindi ho attaccato i
francobolli sulla busta
e ho imbucato lesto nella cassetta la mia nuova lettera a
Nefertiti.
Poi d’improvviso arrivò l’inverno e i capopartigiani
accesero il grande camino,
e davanti al fuoco si stesero possenti mani d’operai
e le ombre delle mani coprirono i loro volti,
e solo di tanto in tanto si distinguevano, tinte di rosso
dalle fiamme, due voraci nari,
un mento volitivo e il lobo di un orecchio che aveva udito
profondi segreti carnali e il crepitio della luna sul
granturco secco.
Ma nella seconda stanza, sul materasso in terra, fingevano
di dormire
le tre donne, vestite di molti abiti pesanti,
gelose l’una dell’altra, e il telaio di Penelope
stava in un angolo, con finta indifferenza, e i fili di lana
profumavano
di peli d’uomo sudati sul ventre, nelle ascelle, sul petto.
Fuori s’udivano i cavalli, legati per la zampa alla cavezza,
pascolare
sui prati falciati; e il grande freddo e le stelle splendevano
su loro
tanto che si ritirava la pelle delle cose e la materia si
rapprendeva
in un diamante, come un pugno onnipotente che dentro il
palmo tiene stretto Dio.
IV
Ciò che attende il momento opportuno a occhi socchiusi
dietro lunghe tende
o dietro i vestiti della gente o tra gli alberi -
un brandello di carne, un sorriso serrato, l’ombra di un
ricciolo,
i grandi asciugamani da bagno e gli specchi testimoni di
altre cose –
Dopo la pioggia un po’ di luce gialla faceva impallidire le
facciate della case; cadeva
un silenzio sonnambolico sulla città ombrata di viola;
le targhe di metallo sulle porte degli ambulatori brillavano
imperlate. Allora
pensavamo a quella grande tristezza di un peccato
impunito
o alla tristezza di un cane solitario steso sul fango della
strada
o al bel funambolo che, stanco, si è ritirato dietro i vetri
della luna.
Eppure quel pallore trasparente dominava a poco a poco
nello spazio e nel tempo
e nell’aria c’era un profumo d’incenso in vecchie chiese
chiuse
e un profumo di legno piallato in povere falegnamerie di
quartiere
all’angolo delle vie Kòrakas e Papanastasìu, là dove
s’incontrarono verso sera
il carbonaio e la studentessa del Conservatorio. E sul fondo
si vide
allontanarsi come un’ombra l’antico rabdomante –
una pausa istantanea tra due battiti del polso di Alcmena,
un nuovo istantaneo ripudio della vanità.
Cominciavano già ad accendersi le luci nelle vetrine dei
negozi, nei teatri, nei cinema,
avveniva un mutamento impercettibile al centro della
sostanza,
un’immobile oscillazione che congiunge il fragile
all’infrangibile;
le case diventavano navi all’ancora;
primeggiavano, naturalmente, i letti;
i lenzuoli non erano dei morti.
Il corpo, il sudore, il grido, - legame e libertà.
Alekos era uscito a comprare le sigarette. Guardava
le riviste appese al chiosco dell’invalido. Una molletta da
bucato
era fissata proprio sul seno nudo di una donna; -
il pollice, l’indice, il medio son sempre destinati
al capezzolo, - così come le mollette da bucato di plastica
o di legno; -
in casa di estrema necessità prendi un pennarello
e disegni capezzoli i rosa e rossi in fila
come punti di sospensione.
Simili coperture
ci erano diventate abituali, ormai. Ci divertivamo
coi malintesi, coi fraintendimenti e con le false
interpretazioni dei terzi –
Oh, che file di punti di sospensione, - come negli anni
della nostra infanzia e adolescenza –
imbarazzi e stelle durante notti estive sul mare di
Montemasià
o di Ghithion – (o non erano forse già da allora capezzoli
le stelle?). dopo la gita
avevamo sempre il mal di testa.
Elena portava
un gran cappello di paglia, come un pagliaio intero,
e c’erano molti uccelli e acque e una barca rossa;
il rematore guardava le coline coperte di pini,
le ragazze guardavano il rematore abbronzato –
Ogni cosa finisce per tornare, come si dice, alla sua fonte;
una macchia rossa qui o là, - il rosso sempre al centro –
i tetti rossi, l’uva rossa,
peperoni rossi, caicchi rossi, la tua bocca ancor più rossa,
grandi tramonti autunnali dorati anch’essi rossi.
Pesci saltavano nei bassi fondali; una nave arrivava;
un’altra si allontanava; fischiavano entrambe. Fischi di navi
riempivano le case, sedevano sulle sedie, s’infilavano sotto
i letti
dove si riparavano dal vento vecchi scarponi militari,
stivali di partigiani, sandali di bambini e pantofole di
vecchi,
o si guardavano allo specchio con una sigaretta all’angolo
della bocca –
che separazioni e ritorni, finché alle estremità
s’incontrino
come il funambolo raccoglie la sua fune in una splendida
ciambella,
come si morde la coda il serpente, come si chiude il cerchio
allargandosi a tutto l’orizzonte, allargandosi
incessantemente
intorno a questa macchia rossa – primo e ultimo punto di
sospensione –
intorno a questo invisibile, purpureo, inarrestabile cuore
del mondo.
V
Bel mattutino azzurro; il rombo di un mare dimenticato;
il tenero luccichio sui ciottoli bianchi. Acquietante
inutilità
delle cose utili, come dicevamo.
Ione
appoggiò le mani sulle ginocchia in una posa
che più tardi tentammo inutilmente di imitare. E Alekos
disse
quasi senza riferimento alcuno: l’immobilità
deriva la sua forza dalla mobilità che contiene (e che
trasmette)
come il piede o la mano della statua o il ricciolo
che le ombreggia appena il sopracciglio destro. Ma sul colle
di fronte
apparvero i soldati a braccia nude che trasportavano grosse
botti e calderoni,
e d’improvviso lanciarono un grido collettivo gli uccelli
come se solo loro
avessero visto il delitto sotto gli alberi, accanto al lago, e
una moltitudine di insetti
sciamarono dall’acqua putrida in un balenio d’oro.
Persèfone
sventolava la mano sinistra in un gesto ambivalente
per scacciare gli insetti o per afferrarne uno. E in effetti
le rimasero in mano tre insetti schiacciati
simili a macchie trasparenti di un’idea sconosciuta.
Ma tu
riflettevi con insistenza sull’instancabilità e
sull’insaziabilità del desiderio della carne,
guardavi sotto un’anta della porta le zampe dei cavalli
una domenica storica e poi un comunissimo lunedì
quando la triste fioraia minorenne coi giacinti
girava per i tavoli dei ristoranti di campagna
e i visi calmi dei fumi guardavano dai tetti.
Allora Glauco si fermò e s’insalivò il pollice senza alcun
motivo
- indizio forse dell’antica suzione o forse
del desiderio di una nuova. Non disse niente. Si limitò
a guardare la statua di Agìa, il vincitore del pentathlon, il
cui sguardo,
ovunque stessi, qui o là più lontano, ti fissava
bello, altero, e nello stesso tempo estraneo. Una lumaca
nuda
saliva lenta sulla sua coscia lasciandosi dietro
un’argentea scia grassa e densa.
E d’improvviso Petros
si voltò verso Persèfone, le prese la mano
e le asciugò la palma con il fazzoletto – un grande
fazzoletto paesano
a quadri blu, che coprì le ginocchia di Persèfone
e metà paesaggio come un sipario. Dietro il sipario calato
indovinavi i gesti degli attori che avevano finito la loro
parte e, benché ancora truccati,
si accasciavano, con naturalezza ormai, sulle poltrone nere,
e un bambino sedeva sul pavimento e roteava una trottola
come se ritmasse la rotazione della terra.
L’elettricista
aveva spento le luci e acceso una sigaretta.
Dalle fessure delle scene soffiava un vento fresco e salutare
donando a tutti una sensazione di benessere e la
cognizione del benessere.
Tempo di aquiloni – disse Glauco, e sorrise astutamente.
Poi ricordammo le foglie del gelso e i bachi da seta in casa
di Age,
le crisalidi che riempivano le camere, spossate,
da una finestra entrava la luce che illuminava di traverso la
libreria,
La ballata del carcere di Reading, De profundis, Dafni e
Cloe,
e d’improvviso la luce fu nascosta da una foglia di fico,
come quelle
che hanno sotto il ventre la statue dopo Cristo.
Di che retorica ci avevano riempito le teste di adolescenti;
poi ci fu un periodo di assoluta negazione, poi un altro di
fiducia cieca,
poi lo sprezzo dei significati e delle conclusioni
poi il funambolo senz’ali, che danzava in punta di piedi su
un raggio teso sopra il caos
poi Chrisa si appuntava come spilla sulla camicetta un
vecchio orecchino
e ogni tanto le cadeva e tutti noi a cercarlo sotto i tavoli
della pasticceria
e indugiavamo a lungo ammirando le gambe delle donne,
chini a quattro zampe,
vivendo la bellezza, la felicità e la salute dei quadrupedi e
allo stesso tempo degli angeli.
Ah, il semplice, profondo, altero corpo umano. Le notti
sentivano di terra, sudore, sperma, immoralità.
Dalla finestra entrava la fragranza della piccola pineta
dirimpetto;
insetti e piccoli rettili sussurravano i loro segreti. Dalla
cucina di Elena
arrivava il profumo intenso del polpo alla brace, di cipolla
fresca e d’aceto;
ti veniva l’acquolina in bocca: il sangue pulsava sulle punte
delle dita
e nelle camere dormivano i grandi letti
rifatti con lanose coperte rosse simili a orsi rossi
ipnotizzati.
VI
Sui monti con i pastori – anni antichi sprofondati nella
notte –
unici numeri quelli delle pecore e delle stelle;
un odore di pelle, di luna, di ligustro. Le donne
erano rimaste giù a valle
a badare alla madia, ai bambini, al campo di grano, alla
brocca e all’unica capra.
Qui si udiva lo stridio del ramo oscuro che cresce,
il crepitio della peluria che esplode sul pube e nelle ascelle
dei pastorelli,
innumerevoli insetti sciamavano e ronzavano intorno a
ogni stella,
campanacci di becchi aprivano nuovi crateri sulla luna,
grossi animali si accoppiavano tutta notte in un impeto
sismico
e si udivano i mugghianti ordini di Dio alle sue creature
finché ai primi albori sovrastava indomito il flusso del
fiume che trasportava in mezzo al mare
aghi di pino, foglie, sperma, bastoni, rane, cornacchie
morte.
Vennero? Non vennero i cavalieri? Dove lasciarono i
cavalli?
Dove nascosero gli zecchini del vecchio e le mutande della
ninfa?
Le statue si destavano a mezzanotte, battevano le ciglia,
il sangue scorreva nelle loro vene di marmo, gli induriva il
membro,
il marmo si arrossava, ed esalava vapore da ogni poro,
e i boscaioli, crac e crac, tagliavano alberi giganteschi e li
spingevano giù per la discesa
e ogni cosa gemeva, civette, lupi, farfalle, per il grande
ingravida mento.
Ma tu leggevi le tracce del tempo e della sorte sullo
scheletro di una foglia di platano
e non lo confessasti né a tua madre né al passero;
incidesti fori sulla canna e trasformasti in suono la parola
così che parlasse conservando il suo segreto, perché le
radici
sono rettili sotto terra e fiori a sei ali in aria.
Questo talismano che ha appeso al petto il mago
trimillenario -
umido suolo della notte, una stella, tre chicchi di grano e i
verbo del popolo –
bada di non abbandonarlo neanche quando scendi in città,
che non ti mangino il cuore e la lingua gli ingranaggi
estranei
perché questa patria non ha altra proprietà né castello che
il suo canto.
Ritornavamo spesso su questo punto. Non è il ricordo –
disse Ione –
di alte catene montuose che contemplano il mare quando
sorge il sole
indorando il creato fino al boschetto delle Prime creature.
No.
Questo è il sangue del melo e della pietra,
è il sangue e il canto della tortora,
la sterminata santità del corpo.
Quando spezzi
un ramo di fico, scorre il latte denso, ti si appiccicano le
dita, si uniscono
come se tenessi una presa di sale da mettere sul pane
o ti apprestassi a segnarti prima di dormire. E Alekos senza
volere
si fece il segno della croce e ci guardò stupito
come se noi ci fossimo segnati davanti a un’icona invisibile.
Poi le ragazze se ne andarono indispettite senza alcun
motivo,
salirono le scale della stazione, comprarono da sole i
biglietti,
aspettaroni il treno. E Persèfone disse: “Tornerò Lggiù;
l’estate è ormai finita”.
Uno zingaro
teneva due lepri uccise, una per mano. Il loro sangue nero
si era raggrumato tra i denti.
Il mendicante cieco
suonava la fisarmonica canticchiando una vecchia canzone
su un bosco di tigli,
su un ruscello d’argento e un usignolo.
“Io – disse Ciane –
ti conserverò il cappello di paglia fino all’estate prossima”.
Allora
una ragazzina le si avvicinò tenendo
un grande cesto colmo di uova d’anitra.
E d’improvviso una luce bianca inondò ogni cosa,
gli scalino, il lastricato, i binari,
perfino gli occhi del cieco.
Dietro i vetri del treno appena arrivato
splendevano visi e mani d’operai, e in un vagone
splendevano altri visi bianchi accanto ad ali bianche
spiegate. E allora,
in questa luce bianchissima, le due lepri saltarono dalle
mani dello zingaro
sgusciarono tra le gambe del Capostazione.
VII
Le piogge ci rinchiusero in casa. Elena, raffreddata, fingeva
di tossire.
Non le donava affatto lo stare dietro i vetri appannati
a osservare le scene della pioggia – ombrelli che si aprivano
e si chiudevano
o l’ortolano ambulante con l’impermeabile nero, il berretto
nero
sul suo triciclo carico d’arance
perdersi in una nebbia grigia e bianca come un rimorso
ignoto
per qualche errore ripetuto che non era nostro.
Sull’uscio si udivano gli inquilini che si pulivano le scarpe
infangate.
Le cose si abbassavano, perdevano la loro stabilità. Il
portinaio
camminava con un’ufficialità diversa nello spazio ristretto
al piano terra
gettando di tanto in tanto una strana occhiata allo
specchio d’ingresso
come se osservasse schemi ed eventi di un tempo e di uno
spazio indefiniti,
ombre e spettri di corpi nudi; - forse era qualche barcaiolo
che remava. Le mani grandi e scure. Sotto la pelle nera
bianchi a uno a uno gli ossi delle dita forti. Che fosse
lo zio e sposo di Persèfone? “Non ci ha scritto
nemmeno due parole”, disse Ciane, e caricò l’orologio al
polso.
Quando le ragazze scendevano a tre per volta in ascensore
dal terzo o dal quarto piano, credevano di andare
sottoterra a incontrare la loro amica. E anzi lo specchio
dell’ascensore pareva loro
un grigio laghetto verticale; - e forse proprio l’ le sere
estive
si bagnavano i piedi gli adolescenti morti.
Le ragazze,
appena arrivate giù, uscivano svelte dall’ascensore
e aprirono subito gli ombrelli, prima ancora di uscire in
strada
e li tenevano bassi sulle spalle, - oh, certo, per evitare
l’occhiata oscura e strabica del portinaio.
Ogni tanto
nel fluido scrosciare della pioggia s’udiva un rumore
come se cadesse una moneta di bronzo sulle mattonelle o
come se qualcuno
spaccasse noci con i denti – l’unico stabile rumore.
E solo Ione pareva essere fuori dalla pioggia, in un suo
paesaggio assolato
tanto che a volte ci sembrava un po’ finto, un po’
simulatore,
con quella sua insistenza su un’affermazione generale, quasi
avesse
un accordo segreto con l’elettricista del Teatro perché gli
puntasse addosso
un grande proiettore segreto, così da accertarsi e accertare
non solo la sua fede nella luce, ma soprattutto
l’indimostrabile realtà della luce.
“Davvero
una bella regia”, disse sottovoce Elena a Euridice
guardando dalla finestra il treno in ritardo che passava
dalla stazione di San Nicola.
E allora Alekos disse:
“Lasciate perdere la vostra malinconia rafferma e
provinciale, con le vecchie sedie nere,
coi vecchi libri polverosi rilegati in pelle,
coi gelsomini seccati negli album dei “Piccoli Segreti”. In
nome di Dio, ragazze,
le domeniche non c’è più la banda militare in piazza che
suona
arrangiamenti per fiati dal Barbiere di Siviglia e dal
Trovatore
né l’ufficiale della gendarmeria do Prèveza che compra le
sardine”.
Allora Crisòtemi, Elena e Euridice ci apparvero come le tre
sorelle di Cechov
nell’ultima scena, quando camminano tristi
nel bosco delle betulle. I loro lunghi abiti autunnali
trascinavano
mucchi di foglie morte, assieme al loro suono metallico
si udiva
in lontananza la marcia d’addio del Quinto Artiglieria
come una nuova musica di resurrezione.
Dunque, Ione
aveva ragione a insistere. Ricordammo allora
quei versi (non sapevamo di chi); e Elena
accendendo la sigaretta li mormorò: “Una foglia gialla che
cade al suolo
per innalzare al cielo almeno dieci foglie verdi”.
“Foglie verdi, foglie verdi”, cantò sorridendo Euridice,
fece una piroetta e andò in cucina a prendere il tè.
Fuori la pioggia era cessata; i vetri della finestra brillarono
per un istante; un passera
si posò sul davanzale; guardò dentro.
La luce batteva sul muro del caseggiato di fronte,
e nei vapori che salivano dalle cinque tazze
rivedemmo le movenze di danza delle braccia del
funambolo
in quell’equilibrio eterno e precario ma superbo.
VIII
Più tardi vestirono le statue. L’opera principale dell’artista
sembrava non il corpo ma l’abito. Comunque
gli iniziati, sotto le pieghe stupende delle tuniche,
vedevano stagliarsi con precisione ogni particolare del
corpo; nondimeno
era uno sforzo giusto per l’artista: riuscire a trasformare
la salda compattezza del marmo in aerea trasparenza
fornendo così pretesti e argomenti giusti
alla più profonda ammirazione degli spettatori.
Elena però
resta irremovibile. “Non mi piacciono affatto – disse –
simili espedienti. Hanno rivestito, coperto, nascosto tutto
quanto;
si può dire sepolto. Ovunque odore di morte”.
E Alekos,
come se non avesse sentito, continuava a sbriciolare la sua
ciambella
e a dar da mangiare ai cigni del lago. I suoi gesti
erano in assoluta sintonia con la voce di Elena, - avevano
cioè un’espressione
di tristezza e d’ira insieme.
Il tempo
sembrava stranamente lento. E la luce del giorno
era tutta concentrata e meditabonda.
“Crisòtemi, Crisòtemi”,
chiamò Polissena da dietro gli alberi; e si allontanarono
insieme
lasciandoci a cercare una risposta, una giustificazione.
Alekos si guardò intorno con imbarazzo; il suo sguardo
si fermò sui colli flessuosi dei cigni, - forse rammentò
il canto del cigno o Leda o i modellini di gesso
dei bei templi mai costruiti nel luminoso atelier di Nicia,
perché molti nessi di linee e di suoni seguivano
una curva bianca, una linea retta o spezzata,
un quadrato, un triangolo, un cerchio – quello
che Ione chiamava inesauribile, infinito, eterno.
E Artèmide:
“Si, posso capirlo, - disse, - ma non viverlo. Il colore
dominante
mi sembra il pallore di un’antica sonnolenza
sui muri interni ed esterni delle case, perfino sugli alberi,
perfino sui nomi più illustri della storia e della mitologia”.
Telis
sfregò un primo, un secondo, un sesto fiammifero,
e li gettò accesi nel lago; si udiva
un lieve sfrigolìo, come la sottolineatura discreta
di un sentimento indefinito che tentava di assumere forma.
E d’improvviso
migliaia di passeri sugli alberi, come una
risposta a questo. Sul fondo
si videro Crisòtemi e Polissena di ritorno
e un cervo mansueto in mezzo a loro. Allora Alekos
sussurrò qualcosa, quasi sconclusionato: “Ifigenia, Oreste,
i pavoni di Pirilampe, Filottete, Neottòlemo, lo Scandagliatore,
Fedra, il Funambolo, Agamennone, Aiace” –
tutta una parata di personaggi nostri, estranei,
personaggi che hanno coperto il nostro volto e con esso il nome –
i Tre Ciechi che ci donarono l’altra vista e una certa
percentuale di immortalità
nella più profonda anonimia e libertà personale.
Annottava con calma.
I cigni si ritirarono all’estremità del lago. I loro colli
sinuosi
formavano gigli e lire. La statua di Leda,
nuda, si specchiava nell’acqua con precisione inversa. Un cigno
affondò il lungo becco nella sua vulva d’acqua.
“Alekos, - gridò Elena –
sai se c’è qualcosa d’interessante al cinema? Stasera mi piacerebbe molto
un film di Bergman, di Oshima o di Pasolini”. Si
avvicinava la primavera. Crisòtemi
seguiva a pochi passi.
Nelle vetrine
si accesero d’un tratto le luci e risplenderono
i begli abiti femminili di seta a fiori,
e le camicie rosa con le maniche corte degli adolescenti.
Un manichino di cera
indossava un bichini viola – tre francobolli in tutto,
come disse Nicola, - nella mano sinistra
al posto della borsa teneva una piccola nave
con quattro vele e undici fiocchi.
I ragazzi
entrarono negli orinatoi. Le ragazze comprarono
bruscolini
e aspettando i maschi in cima alla scala di marmo
aprivano a uno a uno coi denti i bruscolini
con un bel gesto riflessivo, come se mandassero baci segreti al mondo.
IX
Due settimane dopo, il circo se ne andò. Smontarono le gabbie delle fiere, i tendoni, portarono via
i cinque cavalli bianchi che ballavano con tanta grazia
il valzer del Danubio. Il prestigiatore
all’ultimo spettacolo sembrava triste, quasi non gli bastasse
la sua professione miracolosa, seducente e bella. Così
le sette piccole ballerine – una tristezza lunare. Il
funambolo
parve per un istante estraneo, indifferente, distaccato dai suoi spettatori
mentre camminava solo e solitario lassù in aria,
guardando altrove, verso un punto a noi ignoto. Soltanto
il flessuoso domatore col suo costume dorato sorrideva
con un po’ di alterigia e autocompiacimento, ma anche con ironia. La sua lunga frusta
schioccava maestosa e di tanto in tanto sulle sedie delle prime file cadeva
qualche pelo castano-dorato dalle criniere dei leoni.
Se ne sono andati.
Completamente vuota la piazza del quartiere. Libero lo spazio.
Gli alberi intorno respirano. Solo per terra
restano i buchi dei grossi picchetti e dei montanti che
reggevano l’enorme tendone.
Il giorno dopo, un po’ di nebbia svaporava ondeggiando sul bordo della piazza
come se avessero dimenticato lì il bianco costume di tulle di una ballerinetta. Perciò
il postino si attardava a guardarsi intorno,
tenendo in mano una lettera senza destinatario.
Se ne sono andati.
Ci avevano stancato molto i megafoni, le luci, la
moltitudine incoerente e assortita di colori
e quel virtuosismo superbo e irresponsabile. Ci era venuta nostalgia
di un po’ di cielo vuoto nelle notti,
della loquela monotona e sommessa delle stelle,
dell’abbaiare di un cane accanto al pozzo,
di ciò ch’è uno tra la moltitudine, unico, inapparente,
integro
e di quest’amicizia misteriosa e inspiegabile col bel
funambolo.
Da qualche parte, in un’altra dimensione (dimensione
dell’abbagliamento) si svolgevano
fatti silenziosi, rappresentazioni, movimenti di statue;
un fiume inesauribile scorreva,
i ciottoli brillavano di un bagliore calmo,
ogni tanto cadeva una piuma e l’intera valle con le
margherite rimbombava
e subito dopo regnava di nuovo una calma sconfinata
mostrando l’immensità fino all’infinito.
Là, in una crepa, tra rocce altissime e scoscese
c’era il Battistero Segreto.
Una moltitudine di gente
vi si radunava dai pascoli dintorno,
dai villaggi bruciati con le tabaccherie e i granai distrutti dalle bombe –
una moltitudine di donne vestite a lutto, uomini mutilati,
bambini sordomuti, lebbrosi, pazzi, ciechi, ragazzine
allucinate,
montanari selvaggi con un agnello sulla spalla sinistra,
vecchie col bastone (le loro galline le seguivano
chiocciolando piano)
e uno con una volpe ferita in braccio.
Tutti si fermarono davanti al Battistero, si facevano il
segno della croce
si gettavano tre manciate d’acqua santa sulla testa;
e d’improvviso
i paralitici camminavano, i ciechi tornavano a vedere,
i sordomuti udivano l’inudibile e nel contempo il fiume
e balbettavano il primo “grazie”.
I piagati
ritrovavano il loro corpo invulnerato; si alzavano dai loro sgabelli
e rinvigoriti, nudi, si rimettevano in marcia verso l’amore.
Sotto i loro larghi piedi
crepitava la rena come il cielo d’agosto crepita di stelle. Gli ambulanti
coi loro cesti, anziché perline, cinture, pettinini,
avevano piccole stelle cadenti con meccanismi segreti che suonavano
una preghiera o una polca infantile o una breve marcia
della pace come quelle vecchie stelle degli antenati.
Così
per la valle e le forre risuonavano fino ai confini del mondo i silenziosi gloria dei resuscitati.
Allora, dalla vetta del monte più azzurro si vide
la luna tartaruga a sei ali sorgere tutta d’oro e fluttuare
concentrata in una lenta solennità sopra l’universo sacro. Il Funambolo
splendeva tutto camminando sulla sua fune, sotto la luna,
con una superba destrezza che dissimulava il rischio e la fatica, e perfino il travaglio dell’arte.
E quei suoi movimenti, quasi oscillasse su due leggerissime ali,
e quel timore in noi : “cade, non cade”, “cade, non
cade”,
diventava un canto immenso, invulnerabile, profondo
che colmava di fiducia la notte intera, e il tempo tutto fino al futuro più remoto,
che colmava di gioia perfino il sonno di quanti già
dormivano
sotto le verande di legno, sui balconi, sulle terrazze o
distesi sull’erba.
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