Buenos Aires, El Ateneo Grand Splendid Bookstore
GRAN SPLENDID, EL ATENEO Di Grazia Fresu
"È uno
spazio che ti cattura. Se ci entri ti sentirai come in quel vecchio film di
Buñel, L'Angelo sterminatore, assolutamente impossibilitato ad uscirne e il
tempo non avrà più nessuna importanza".
Tutte le
città, per chi le attraversa senza occhi di turista, senza il consumistico
possesso di foto scattate al ritmo di secondi, senza l’ansia di estrarre in un
contatto fugace il senso, sono come le città invisibili di Calvino, misteri che
s’incontrano in un gioco di specchi, nella giostra dei sogni, nel tracciato
delle memorie, scatole cinesi della scrittura e dell’oralità, accessi
all’impossibile, trame di un ordito che ci consegna all’ infinita necessità del
viaggio. Ma fra tutte, alcune hanno la perfezione di un cristallo e sembrano
catturare, nelle sfaccettature della luce dove l’oscurità è incubo e presagio,
più verità e più mistero.
Buenos Aires è
per me una di queste città. Nonostante la sua struttura a griglia con
strade che formano angoli retti, non ti trasmette la perfezione ordinata di una
metropoli geometrica, costruita per esibire una visione razionale del mondo;
nei suoi quartieri, nelle sue piazze, nelle sue vie, nei suoi giardini che
tracciano un labirinto della storia e dell’anima, tante volte cantato dai suoi
scrittori, esistono luoghi, essi stessi labirinto, mistero, voragine, dove
l’esistenza può precipitarti dentro in un momento fino ad allora imprecisato e
insignificante della vita. Dopo niente è più uguale a prima, né lo sguardo né
il passo né il piacere.
Nel pomeriggio
di una di quelle primavere porteñas che stendono sotto un cielo
azzurro, smaltato e perfetto, un mantello profumato di fiori viola, la città,
come un pentagono slabbrato, sembra assopire un poco i suoi rumori.
Ho qualche ora
a disposizione tra la mia mattinata di lavoro e l’appuntamento con
un’amica per la tarda serata. Ore per camminare, scesa dalla
metropolitana, el subte, che mi ha portato in meno di mezz’ora dal mio
quartiere di Belgrano, al nord della città, al centro nevralgico
affollato e vivace, ore per godermi da sola il ritmo di un passo che contiene
esclusivamente le accelerazioni e le pause della mia curiosità e del mio
interesse. Soprattutto così ho conosciuto le città che ho amato, Roma e Buenos
Aires dove ho vissuto a lungo, e Parigi che, anche nel tempo breve e solitario
del nostro incontro, mi ha guarita di colpo, tra i rosoni gotici di Notre
Dame, le passeggiate lungo la Senna, le tavole di formaggi cremosi in piccoli
bistrôt, l’incanto del Museo d’Orsay, una ferita d’amore profonda e in
apparenza inguaribile. Perché camminare senza l’altro, senza compagni
d’avventure, non ti consente maschere, non ti distrae con parole, non ti
confonde con pensieri non tuoi o col bisogno di condivisione. Così le città mi
hanno regalato segreti, incontri, precipizi, la bellezza senza esitazioni.
Dopo, solo molto dopo è stato possibile raccontare e raccontarsi nella
sedimentata memoria dei giorni e delle emozioni.
Avenida Santa
Fe è una strada elegante che attraversa l’altrettanto elegante quartiere
di Barrio Norte, affollata di negozi, di bar, di ristoranti, di cinema, di
librerie; migliaia di persone la percorrono ogni giorno per lavoro o per
svago, si specchiano in sfolgoranti vetrine per il desiderio o il
possesso, trionfo spesso di un consumismo globale, mercanzie che trovi ovunque
nel mondo, omologazioni rassicuranti di tipologie, e poi di colpo raffinatezze
per il corpo o per l’anima che ti sorprendono e ti seducono, in questo “grande
teatro a cielo aperto”, come la chiamò lo scrittore Rubi Rubens,
dove tutti si muovono come attori e spettatori dello stesso rito,
"el paseo" (il passeggio) elevato a metafora stessa del
vivere porteño. Ne sono catturata, cerco un qualcosa che non trovi posto
nel mio catalogo di oggetti consueti e lo trovo: su lastre di vetro contro un
velluto scuro si allinea una coreografia di scarpe, non fatte per camminare,
scarpe da tango, volumi diversi, eccessivi, vibranti di vernice rossa o nera,
la classica charol col cinturino sottile perché il piede ruoti agile
nell’ "ocho" che la gamba disegna o si arrampichi sensuale e sicuro
lungo il fianco dell’uomo che ti guida, tacchi altissimi, tripudio d’argento,
d’oro, bordure verdi e azzurre, le suole arcuate per inventarsi passi
arditi, abbracci, "compás" e "milonghe" dove un giorno ti
raggiungeranno codici sconosciuti, linguaggi di corpi altri che imparerai ad
amare. Cammino contemplando le facciate di palazzi liberty, che qui
chiamano modernisti, stucchi nelle finestre e nei balconi, architravi ove
si intrecciano foglie e fiori di pietra, portoni imponenti con battenti di
lucidi ottoni; mi piacciono gli androni arredati con mobili di legno scuro,
lampade e tappeti, come se le case cominciassero molto prima, sul ciglio stesso
della strada e rivelassero a chi passa quello che i portieri custodiscono nella
dignità delle loro giacche scure, le vite degli assenti senza nome. Nella
vetrina d’angolo di un negozio d’artigianato, tra cose che fanno solo folklore
e hanno perso la traccia originaria che le rese un tempo necessarie e per
questo belle, hanno appeso un poncho amaranto, con una larga banda
chiara che lo attraversa verticalmente. Qualche straniero lo comprerà con
l’illusione di vestirsi per poco dell’anima "gaucha" o forse, senza
neppure saperlo di cosa è veramente tessuto quel mantello chiuso sul petto, lo
mostrerà a casa sua una sera per sentirsi diverso o stupire i suoi ospiti, poi
il "poncho" giacerà nel fondo di un armadio, dimenticato insieme a
tutto quello che comprammo con denaro e non con l’anima. Per me quel
"poncho" è lo stesso che sta appeso in un piccolo
armadio con la porta a vetri nel Museo di Caprera, portato da Garibaldi dopo le
sue campagne di guerra sudamericane. Quel capo desueto nella mia prima visione
di bambina, sogno di improbabili "pampas" di cui non avevo mai
sentito nulla, cristallizzato per noi italiani nell’iconografia di un mito
risorgimentale, mi guarda ora come un ponte sull’oceano che ha raccontato il
viaggio tra due rive. Mi commuove nella foggia del suo tessuto ruvido la storia
di questa gente e della mia che l’Atlantico divide.
I bar, lungo i
due marciapiedi, non sono come i nostri, spazi chiusi con porte e finestre
strette che difendono dalla strada e poi possono dilagare fuori con sedie e
tavolini su piazze dove la storia e l’arte dispiegano scenari mozzafiato,
quasi pentiti dall’aria di caverna magmatica che li nutre all’interno. I bar
qui hanno quasi sempre grandi vetrate che collocano tutto, banconi, tavolini,
sedie, lampade, avventori come su un palcoscenico. Tutti vedono la strada e la
strada li vede, intercambia spazi, accoglienza , mormorii, freddo e
calore in un flusso ininterrotto dal fuori al dentro e viceversa che non sembra
aver tregua. Nessuno, come da noi, consuma un caffè o qualsiasi altra cosa in
piedi, tutti stanno seduti, sembrano di colpo avere tempo, quello che fino ad
un attimo prima consumavano con la veloce accelerazione del "porteño"
che, quando cammina, vive convulsamente la sua città concitata. Le
"medialunas" che servono sono più piccole e più buone dei
nostri cornetti, una morbidezza salata e dolce che ti persuade d’essere
entrato nella locanda fatta per i tuoi sensi. Ma il caffè versato quasi sempre
in tazze grandi, quello, anche quando lo chiamano “espresso italiano”, si sente
troppo leggero al palato e aspro, non ha l’aroma, il gusto pastoso e forte del
nostro. Lo bevi perché sei in un bar e bisogna pur consumare il rito, ma sai
che l’energia non ti viene da quel liquido marrone che spesso neppure
nasconde il fondo della tazza, ma ti viene dall’idea, dalla memoria che
hai del caffè, da tutte le infinite volte che nel tuo paese te lo sei
regalato: a casa da sola, nelle pause del tuo lavoro, o con amici sulla
riva del mare, tra il profumo delle zagare e dei gelsomini, o con lui, al
risveglio, tra complicità e risa nelle pieghe scomposte del letto.
Stai seduto
nel bar per guardare ed essere guardato. Per quanto cerchi di mimetizzarmi,
sono una straniera e si vede, non so perché, nonostante i quindici milioni di
discendenti di italiani che abitano questo paese, c’è sempre qualcuno che mi
dice, senza che abbia aperto bocca, nel qual caso sarebbe comprensibile che il
mio accento mi tradisse, “Usted no es de acá, usted es italiana,
verdad?" (Lei non è di qui, lei è italiana, vero?) e a queste parole
che segnano un confine tra me e loro, ne seguono spessissimo altre che
raccontano di nonni, di padri, di zii arrivati un tempo dall'Italia in questa
terra della speranza, mi raccontano storie piccole con sapore a lavoro duro , a
spaghetti, a romanza d'opera ascoltata dai vecchi nei momenti di nostalgia. Non
mi riconosco in queste memorie di un'Italia contadina che già da molto tempo
non esiste più, però sì mi riconosco nel bisogno d'appartenenza, nello
struggimento e nella nostalgia depositate in quelle memorie e avrei voglia di
raccontare un'altra Italia, di cui pure loro sanno dai giornali, dal cinema,
dalla televisione, che non ha niente a che vedere con le loro radici, solo con
le mie, ma quasi sempre taccio e lascio che quel paese mitico mai esistito si
sieda tra noi e ci faccia sentire vicini. Sto pensando di entrare in uno dei
tanti negozi o bar per riposare un poco del brusio della strada che sembra
aumentare, mentre il cielo va perdendo un po' del suo azzurro e si macchia di
un arancio intenso a occidente, tra le cime stagliate degli alberi.
E allora lo
vedo, dall'altro lato della strada, Santa Fe 1860, un edificio
biancogrigio gessoso con balconi traforati, l'entrata monumentale e la scritta:
"Gran Splendid" e più sotto "El Ateneo", la libreria
che il giornale britannico The Guardian ha messo al secondo posto,
nella lista delle dieci librerie più importanti del mondo, per la sua bellezza
architettonica,che si è conservata intatta al suo interno, dal 1919, anno della
sua inaugurazione come teatro, fino ad oggi, dopo la conversione in
libreria nel 2000.
Un luogo
speciale per gli amanti dei libri come me. "È uno spazio che ti
cattura. Se ci entri ti sentirai come in quel vecchio film di Buñel, L'Angelo
sterminatore, assolutamente impossibilitato ad uscirne e il tempo non avrà più
nessuna importanza.". Le parole della mia amica mi risuonano nella testa
come una sfida e un intrigante filo d'Arianna e mi piace l'idea dell'improbabile
e del misterioso che vi si cela. Mi piace che questa libreria sia stata un
teatro e un cinema e che in questo pomeriggio i miei amori possano convivere
nello stesso luogo come in un abbraccio. So che possiede intorno a 120.000
titoli nel suo stock e più di 3000 persone la visitano ogni giorno e so che
voglio ritagliarmi in questo quotidiano flusso di assetati lo spazio esatto
della mia sete.
Di solito
nelle librerie la magia la fanno i libri e sono loro che raccontano le storie.
Qui il luogo stesso è un grande libro che racconta la sua stessa storia e
quella del Paese. Agli inizi del Novecento l'Argentina viveva un'epoca di
grande splendore; aveva offerto terre e lavoro a migliaia di emigranti che
sbarcavano incessantemente, carichi di passati dolorosi e speranze.
Ma a sbarcare
non sono stati soltanto, come si crede, contadini analfabeti o piccoli
artigiani, sbarcarono anche intellettuali, musicisti, pittori, architetti che
lasciarono ovunque la loro impronta culturale e umana. Per merito loro Buenos
Aires si trasformò in poco tempo in una grande metropoli, crogiolo interessante
e stimolante di lingue e di culture. Tra questi emigranti Mordechai
David (detto Max) Glucksman, impresario di origine austriaca, finanziò la
costruzione,disegnata dagli architetti Peró y Torres Armengol e
construita dagli architetti Pizoney e Falcope. Nel 1919 un grande
cine-teatro venne inaugurato sulle fondamenta del vecchio Teatro Nacional
Norte. Era il Gran Splendid,una imponente sala con quattro file di
palchi e una platea per 500 persone. Qui diedero spettacolo le più importanti
figure del tango, come Gardel e persino un tango gli è stato dedicato (Gran
Splendid di Firpo del 1927).
So tutto
questo prima di entrare, come so che El Ateneo è un marchio
registrato con molti locali sparsi per il paese, anche se con la maggiore
concentrazione a Buenos Aires, ma intuisco, sento che questa specifica libreria
non è come tutte le altre, pur belle e ben fornite. Oltrepasso la soglia
e non so dove e come mi s'anniderà dentro l'emozione.
Un fantastico
ibrido mi si apre davanti agli occhi come un ventaglio, una conchiglia, un
antro, siamo in un teatro all'italiana: appena entri, dove c'erano i
botteghini di vendita, sono allineati i libri tascabili, buoni titoli a prezzi
abbordabili, per dirti subito che la raffinata bellezza di questa cavea non è
lì per respingerti, ma per facilitarti la strada verso il suo cuore illuminato
e elegante. Lì hanno inizio la spirale dei palchi e la moderna scala meccanica
che ti porta al sotterraneo dove scoprirai i libri per bambini e la musica.
L'attenzione mi va verso il fondo, al palcoscenico che un sipario di velluto
rosso incornicia, mostrando su quello che era una volta lo scenario, ancora con
i suoi listoni di legno, un bar pasticceria e ristorante, piccoli
tavolini con sedie e poltrone che sembrano accoglienti e in un angolo un
pianoforte che suonerà tra un momento. Attraverso lentamente la vecchia platea
dove, come colonne in un tempio, le scaffalature dei libri si allineano a
formare corridoi paralleli al palco, raggi di un ellisse che porta lo sguardo
verso l'alto, dove palchi scolpiti in uno splendore dorato, gli stessi da cui
vedere una commedia o sentire musica, ospitano altri libri, altre poltrone,
altri lettori attenti immersi in un silenzio religioso. All'ultimo piano si
espongono foto, quadri, sculture, oggetti. La libreria è affollata, ovunque
vedo corpi, mani che cercano e occhi che leggono. La gente si aggira tra i
corridoi guidata dalle scritte che indicano temi e autori, si sofferma un poco,
sceglie e va a sedersi in platea o nei palchi o in scena, ritagliandosi il suo
prezioso silenzio e legge. Sì, perché qui puoi leggerti un libro intero e
nessun commesso verrá a dirti che devi comprarlo, qui i commessi sono sacerdoti
dell'ineffabile e sanno che, se puoi stare tre o quattro ore inchiodato dentro
il vortice di un libro, sei già cultore del rito e se non comprerai quel libro
ne comprarai un altro o molti altri, quel giorno o in altri momenti, poco
importa. Per questo la libreria vende quasi 1.000.000 di titoli all'anno.
Dove sono
finiti i porteños rumorosi della strada e dei bar? Chi sono questi
elfi, queste fate, giovani, adulti, vecchi con lo stesso sguardo attento e il
sorriso dei piaceri segreti che affiora nei volti? Chi sono io tra loro, in una
mimesi perfetta, senza barriere di condizioni, di esperienze, di saperi?
Cammino con un passo senza peso sopra un pavimento ovattato, non oso ancora
avvicinarmi a uno scaffale, cercare un autore o un titolo, come se ancora
avessi bisogno dell'attimo sospeso prima della scelta, prima di quelle parole,
di quella storia, di quel cammino. E so che il luogo opera tutto questo incanto
e i libri sono qui nel santuario che li esalta e li sacralizza e sacralizza
anche noi, pulendoci del fango della strada.
E allora alzo
gli occhi al soffitto e la vedo: una metafora straordinaria, un doppio che mi
sovrasta. La cupola che abbraccia tutto lo spazio, dipinta da Nazareno Orlandi,
un artista italiano che ha decorato con la sua arte molti luoghi della città,
mostra la sua severa leggerezza, sembra lo specchio di quel mondo di
pagine e parole che sta sotto. Nella sua rotonda saggezza bordata di
ghirlande, di colombe, di angeli e ninfe, dipinta in un tripudio di rose e di
figure, mi guarda una donna giunonica e sensuale, lontana dalle
rappresentazioni d'avanguardia del femminile che appartengono all'arte del
Novecento, ma che non erano ancora entrate nella sensibilità degli
artisti che operavano in quegli anni nella città di Buenos Aires. È la
rappresentazione allegorica della Pace che, appena finita la prima guerra
mondiale, era il sogno di tutti, soprattutto di quegli emigranti in fuga da
un'Europa devastata e da incubo che l'hanno dipinta come una madre e
amante amorosa, a protezione delle loro teste, dei loro divertimenti e
dei loro sogni. Al suo fianco, rispettosamente, si arrendono le grandi potenze
coinvolte nel conflitto e la osannano. Penso: che cosa meravigliosa dipingere
la Pace sulla volta di una teatro e conservarla per una libreria dove la pace
viene nell'incomparabile piacere della lettura che lascia fuori la violenza,
l'impotenza, lo sconforto, la volgarità, la rabbia di un mondo che spesso
sembra aver perso la logica e il senso! Tutto qui dentro è armonia.
Le sfumature
pastello della cupola continuano a raccontare dal lato opposto della Pace
un'altra storia. Un gioco di donne questo, un dialogo del femminile che si
tesse su quest'universo di libri e di lettori: un'altra donna morbida seducente
sostiene un proiettore cinematografico che produce un nastro di pellicola: il
cinema, la settima arte, la tecnologia si tendono verso la Pace, le danno
i loro strumenti e si fanno solidali con i suoi fini.
Non mi importa
che questa cupola non sia un capolavoro, che possa essere accusata di un certo
accademismo, ma quello che mi sovrasta è talmente giusto per il luogo, è
talmente segno di ciò che qui dentro si consuma, che una perfezione altra si
attesta in quelle pennellate e seduce. Qualcuno suona il piano, non conosco la
musica, ma questa sconosciuta ritmata e soave mi guida ora con dolcezza nel mio
deambulare segreto: gli scaffali di letteratura spagnola, quelli delle
letterature straniere, le traduzioni italiane, la poesia, la saggistica, vago
come in un lucido sogno e scelgo quel libro, quella poltrona, quel silenzio.
La mia amica
mi attenderá invano nel luogo dell'incontro.
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