L’ultimo viaggio di Ulisse - Giovanni Pascoli
XVII
l’amore
E con la luce rosea dell’aurora
non udì più ruggito di leoni,
che stanchi alfine di vegliar, col muso
dormian disteso su le lunghe zampe.
Dormiva anch’ella, allo smorir dell’alba,
pallida e scinta sopra il noto letto.
E il vecchio Eroe parlava al vecchio Aedo:
Prenda ciascuno una sua via: ch’è meglio.
Ma diamo un segno; con la cetra, Aedo,
tu, che ritrova pur da lungi il cuore.
Ma s’io ritrovi ciò che il cuor mi vuole,
ti getto allora un alalà di guerra,
quale gettavo nella mischia orrenda
eroe di bronzo sopra i morti ignudi,
io; che il cuore lo intenda anche da lungi.
Disse, e taceva dei leoni uditi
nell’alta notte, e della dea canora.
E prese ognuno la sua via diversa
per macchie e boschi, e monti e valli, e nulla
udì l’Eroe, se non ruggir le quercie
a qualche rara raffica, e cantare
lontan lontano eternamente il mare.
E non vide la casa, nè i leoni
dormir col muso su le lunghe zampe,
nè la sua dea. Ma declinava il sole,
e tutte già s’ombravano le strade.
E mise allora un alalà di guerra
per ritrovare il vecchio Aedo, almeno;
e porse attento ad ogni aura l’orecchio
se udisse almeno della cetra il canto;
e sì, l’udì; traendo a lei, l’udiva,
sempre più mesta, sempre più soave,
cantar l’amore che dormia nel cuore,
e che destato solo allor ti muore.
La udì più presso, e non la vide, e vide
nel folto mucchio delle foglie secche
morto l’Aedo; e forse ora, movendo
pel cammino invisibile, tra i pioppi
e i salici che gettano il lor frutto,
toccava ancora con le morte dita
l’eburnea cetra: così mesto il canto
n’era, e così lontano e così vano.
Ma era in alto, a un ramo della quercia,
la cetra arguta, ove l’avea sospesa
Femio, morendo, a che l’Eroe chiamasse
brillando al sole o tintinnando al vento:
al vento che scotea gli alberi, al vento
che portava il singulto ermo del mare.
E l’Eroe pianse, e s’avviò notturno
alla sua nave, abbandonando morto
il dolce Aedo, sopra cui moveva
le foglie secche e l’aurea cetra il vento.
XVII
l’amore
E con la luce rosea dell’aurora
non udì più ruggito di leoni,
che stanchi alfine di vegliar, col muso
dormian disteso su le lunghe zampe.
Dormiva anch’ella, allo smorir dell’alba,
pallida e scinta sopra il noto letto.
E il vecchio Eroe parlava al vecchio Aedo:
Prenda ciascuno una sua via: ch’è meglio.
Ma diamo un segno; con la cetra, Aedo,
tu, che ritrova pur da lungi il cuore.
Ma s’io ritrovi ciò che il cuor mi vuole,
ti getto allora un alalà di guerra,
quale gettavo nella mischia orrenda
eroe di bronzo sopra i morti ignudi,
io; che il cuore lo intenda anche da lungi.
Disse, e taceva dei leoni uditi
nell’alta notte, e della dea canora.
E prese ognuno la sua via diversa
per macchie e boschi, e monti e valli, e nulla
udì l’Eroe, se non ruggir le quercie
a qualche rara raffica, e cantare
lontan lontano eternamente il mare.
E non vide la casa, nè i leoni
dormir col muso su le lunghe zampe,
nè la sua dea. Ma declinava il sole,
e tutte già s’ombravano le strade.
E mise allora un alalà di guerra
per ritrovare il vecchio Aedo, almeno;
e porse attento ad ogni aura l’orecchio
se udisse almeno della cetra il canto;
e sì, l’udì; traendo a lei, l’udiva,
sempre più mesta, sempre più soave,
cantar l’amore che dormia nel cuore,
e che destato solo allor ti muore.
La udì più presso, e non la vide, e vide
nel folto mucchio delle foglie secche
morto l’Aedo; e forse ora, movendo
pel cammino invisibile, tra i pioppi
e i salici che gettano il lor frutto,
toccava ancora con le morte dita
l’eburnea cetra: così mesto il canto
n’era, e così lontano e così vano.
Ma era in alto, a un ramo della quercia,
la cetra arguta, ove l’avea sospesa
Femio, morendo, a che l’Eroe chiamasse
brillando al sole o tintinnando al vento:
al vento che scotea gli alberi, al vento
che portava il singulto ermo del mare.
E l’Eroe pianse, e s’avviò notturno
alla sua nave, abbandonando morto
il dolce Aedo, sopra cui moveva
le foglie secche e l’aurea cetra il vento.
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