Caravaggio - La crocifissione di San Pietro (dettaglio), 1600-1601, olio su tela, cm 230×175. Roma, Santa Maria del Popolo
30 luglio 2020
29 luglio 2020
Sonia la russa - Edgar Lee Masters
Edward Hopper - The Girlie Show, 1941, olio su tela, 81.3 x 96.5 cm, collezione privata
Sonia la russa - Edgar Lee Masters
Io, nata a Weimar
da madre francese
e da padre tedesco, professore molto dotto,
rimasta orfana a quattordici anni,
diventai ballerina, nota sotto il nome di Sonia la russa,
sempre su e giù per i boulevard di Parigi,
amante dapprima di parecchi duchi e conti,
e più tardi di artisti poveri e di poeti.
A quarant'anni, passée, visitai New York
e incontrai sul bastimento il vecchio Patrick Hummer,
rubicondo e vigoroso, benché sui sessanta,
che ritornava dall'aver venduto un carico
di bestiame in Germania, ad Amburgo.
Egli mi portò a Spoon River e qui vivemmo insieme
per vent'anni - la gente credeva che fossimo sposati!
Questa quercia vicino a me è la dimora preferita
di gazze azzurre che ciarlano, ciarlano tutto il giorno.
E perché no? Persino la mia polvere ride
pensando a quella cosa umoristica che è la vita.
Io, nata a Weimar
da madre francese
e da padre tedesco, professore molto dotto,
rimasta orfana a quattordici anni,
diventai ballerina, nota sotto il nome di Sonia la russa,
sempre su e giù per i boulevard di Parigi,
amante dapprima di parecchi duchi e conti,
e più tardi di artisti poveri e di poeti.
A quarant'anni, passée, visitai New York
e incontrai sul bastimento il vecchio Patrick Hummer,
rubicondo e vigoroso, benché sui sessanta,
che ritornava dall'aver venduto un carico
di bestiame in Germania, ad Amburgo.
Egli mi portò a Spoon River e qui vivemmo insieme
per vent'anni - la gente credeva che fossimo sposati!
Questa quercia vicino a me è la dimora preferita
di gazze azzurre che ciarlano, ciarlano tutto il giorno.
E perché no? Persino la mia polvere ride
pensando a quella cosa umoristica che è la vita.
trad. Fernanda Pivano
La tua poesia ha lasciato la strada - Dominique Grandmont
Edward Hopper - Portrait of Orleans, 1950, olio su tela 66 x 101.6 cm , Fine Arts Museums of San Francisco
La tua poesia ha lasciato la strada - Dominique Grandmont
La tua poesia ha lasciato la strada
senza rumore perché il
rumore non fa parte
della poesia e se tu non hai
realizzato come
un simile racconto poteva
accompagnarsi a una così
grande bellezza così tranquilla
quella della sera dei motori delle
foreste è questa neve ma
caduta senza prevedere chi
avrebbe ricoperto fino a queste parole
La tua poesia ha lasciato la strada
senza rumore perché il
rumore non fa parte
della poesia e se tu non hai
realizzato come
un simile racconto poteva
accompagnarsi a una così
grande bellezza così tranquilla
quella della sera dei motori delle
foreste è questa neve ma
caduta senza prevedere chi
avrebbe ricoperto fino a queste parole
28 luglio 2020
L’uomo sull’etichetta dello shampoo – Nené Giorgadze
L’uomo sull’etichetta dello shampoo – Nené Giorgadze
Mentre fa la doccia, d’improvviso
lei nota il sorriso di un giovane appassionato.
“Sembra vero non disegnato sulla plastica,
e guarda con bramosia…”
pensa, guardandosi la pelle rugosa.
Suo marito ha usato quello shampoo finché è morto.
“Sorprendente come non ci avessi fatto caso prima,
avrà certamente anche un corpo muscoloso”.
La donna sta sotto la doccia con gli occhi chiusi
e si strofina il seno vizzo.
È ossessionata da quell’immagine sul flacone
dello shampoo. Va a letto nuda, pensa a lui,
toccandosi i genitali non più giovani.
Prima di uscire di casa, si mette accuratamente
il rossetto e si pettina a lungo i capelli rossicci tinti.
Una volta va da lei una vecchia amica.
si siedono su comode poltrone,
bevono. Socchiudendo gli occhi, l’amica le chiede
quale sia il suo segreto, come mai sia così ringiovanita.
“Quindi è un bel ragazzo? Ed è grandioso a letto?
Peccato che tu non abbia le sue foto”.
Quando lo shampoo finisce, lei si reca
Al negozio, come a un appuntamento. Gli sorride,
lo saluta a bassa voce e lo tocca con delicatezza.
Dopo aver pagato, ripone dolcemente lo shampoo
Nella borsa. Non getta via i flaconi vuoti,
li conserva in una scatola,
ma tiene il primo sotto il cuscino.
Un giorno si accorge che il volto sul flacone
è diverso. “È accaduto qualcosa!”. Ha un sobbalzo al cuore.
Corre subito a casa, cerca su internet
Il numero dell’azienda produttrice, e telefona.
Alla ragazza che risponde chiede confusamente che
Spieghino che cosa sia successo all’uomo che
È stato a lungo sull’etichetta dello shampoo. La ragazza,
molto stupita, le chiede di restare in attesa.
La donna trascorre invano la serata al telefono
E conclude che dev’essere successo qualcosa.
L’indomani la donna si veste di nero.
Non usa più il rossetto e non si tinge
I capelli, gli occhi perdono la loro brillantezza.
Molto rapidamente invecchia di nuovo.
L’uomo sull’etichetta dello shampoo
Non era più sotto il cuscino, ma
Accanto alla fotografia del marito defunto.
Traduzione di Paolo Galvagni
Nené Giorgadze
L’uomo sull’etichetta dello shampoo a cura di Paolo Galvagni
“Poesia” n. 335, marzo 2018. Crocetti Editore
Mentre fa la doccia, d’improvviso
lei nota il sorriso di un giovane appassionato.
“Sembra vero non disegnato sulla plastica,
e guarda con bramosia…”
pensa, guardandosi la pelle rugosa.
Suo marito ha usato quello shampoo finché è morto.
“Sorprendente come non ci avessi fatto caso prima,
avrà certamente anche un corpo muscoloso”.
La donna sta sotto la doccia con gli occhi chiusi
e si strofina il seno vizzo.
È ossessionata da quell’immagine sul flacone
dello shampoo. Va a letto nuda, pensa a lui,
toccandosi i genitali non più giovani.
Prima di uscire di casa, si mette accuratamente
il rossetto e si pettina a lungo i capelli rossicci tinti.
Una volta va da lei una vecchia amica.
si siedono su comode poltrone,
bevono. Socchiudendo gli occhi, l’amica le chiede
quale sia il suo segreto, come mai sia così ringiovanita.
“Quindi è un bel ragazzo? Ed è grandioso a letto?
Peccato che tu non abbia le sue foto”.
Quando lo shampoo finisce, lei si reca
Al negozio, come a un appuntamento. Gli sorride,
lo saluta a bassa voce e lo tocca con delicatezza.
Dopo aver pagato, ripone dolcemente lo shampoo
Nella borsa. Non getta via i flaconi vuoti,
li conserva in una scatola,
ma tiene il primo sotto il cuscino.
Un giorno si accorge che il volto sul flacone
è diverso. “È accaduto qualcosa!”. Ha un sobbalzo al cuore.
Corre subito a casa, cerca su internet
Il numero dell’azienda produttrice, e telefona.
Alla ragazza che risponde chiede confusamente che
Spieghino che cosa sia successo all’uomo che
È stato a lungo sull’etichetta dello shampoo. La ragazza,
molto stupita, le chiede di restare in attesa.
La donna trascorre invano la serata al telefono
E conclude che dev’essere successo qualcosa.
L’indomani la donna si veste di nero.
Non usa più il rossetto e non si tinge
I capelli, gli occhi perdono la loro brillantezza.
Molto rapidamente invecchia di nuovo.
L’uomo sull’etichetta dello shampoo
Non era più sotto il cuscino, ma
Accanto alla fotografia del marito defunto.
Traduzione di Paolo Galvagni
Nené Giorgadze
L’uomo sull’etichetta dello shampoo a cura di Paolo Galvagni
“Poesia” n. 335, marzo 2018. Crocetti Editore
Cinabro, saturo di autoriflessione – Patricija Dodič
Tintoretto - Susanna e i vecchioni, 1557 circa, olio su tela 147×194 cm, Kunsthistorisches Museum, Vienna
Cinabro, saturo di autoriflessione – Patricija Dodič
Intorpidita nell’anatomia delle parole sciacquo l’inverno dal sangue.
Seni voluttuosi e qualche cicatrice.
Mascherata in nebbia svaporo come l’afa prima della tempesta.
Concentrata.
Oltre l’immaginazione smaltata canterei le mie ansie fino all’esaurimento.
Attraverso veli di sollecitudine mi scatenerei selvaggiamente.
Sparsa come le briciole chiedo una nuova accensione delle stelle.
Gli errori spariscono con la raccolta delle spine.
Toglierò il nocciolo a quel paio di pensieri strampalati.
Ammanterò di cinabro il nostro giorno.
Trad. Jolka Milič
da Fili d’aquilone
Intorpidita nell’anatomia delle parole sciacquo l’inverno dal sangue.
Seni voluttuosi e qualche cicatrice.
Mascherata in nebbia svaporo come l’afa prima della tempesta.
Concentrata.
Oltre l’immaginazione smaltata canterei le mie ansie fino all’esaurimento.
Attraverso veli di sollecitudine mi scatenerei selvaggiamente.
Sparsa come le briciole chiedo una nuova accensione delle stelle.
Gli errori spariscono con la raccolta delle spine.
Toglierò il nocciolo a quel paio di pensieri strampalati.
Ammanterò di cinabro il nostro giorno.
Trad. Jolka Milič
da Fili d’aquilone
Peccato - Fourough - Farroukhzad
AntonioMolinari - Adamo ed
Eva, 1701/1704, olio su tela 120.6 x 149.8 cm, David Owsley Museum of
Art, Ball State University in Muncie, Indiana
Peccato - Fourough - Farroukhzad
Peccai un peccato pieno di piacere,
In un abbraccio che era caldo e ardente.
Peccai tra braccia
Che erano roventi, assetate di vendetta
e come ferro.
In quel luogo solitario, buio e silenzioso,
Guardai i suoi occhi pieni di segreti.
Ansimante, il mio cuore trasalì nel petto
Alla supplica del suo sguardo
implorante.
In quel luogo solitario, buio e silenzioso,
Sedetti confusa accanto a lui.
Le sue labbra sulle mie labbra stillarono desiderio.
Dimenticai le pene del mio folle cuore.
Sussurrai al suo orecchio frasi d'amore:
Voglio te, o mio amato,
Voglio te, o abbraccio vivifico,
Te, o folle amato mio.
Desiderio divampò nei suoi occhi;
Vino rosso danzò nella coppa.
Ebbro, il mio corpo contro il suo corpo
Fremette nel soffice letto.
Peccai un peccato pieno di piacere,
Accanto a un corpo tremante e privo di sensi;
O Dio, io non so che feci
In quel luogo solitario, buio e silenzioso.
Peccai un peccato pieno di piacere,
In un abbraccio che era caldo e ardente.
Peccai tra braccia
Che erano roventi, assetate di vendetta
e come ferro.
In quel luogo solitario, buio e silenzioso,
Guardai i suoi occhi pieni di segreti.
Ansimante, il mio cuore trasalì nel petto
Alla supplica del suo sguardo
implorante.
In quel luogo solitario, buio e silenzioso,
Sedetti confusa accanto a lui.
Le sue labbra sulle mie labbra stillarono desiderio.
Dimenticai le pene del mio folle cuore.
Sussurrai al suo orecchio frasi d'amore:
Voglio te, o mio amato,
Voglio te, o abbraccio vivifico,
Te, o folle amato mio.
Desiderio divampò nei suoi occhi;
Vino rosso danzò nella coppa.
Ebbro, il mio corpo contro il suo corpo
Fremette nel soffice letto.
Peccai un peccato pieno di piacere,
Accanto a un corpo tremante e privo di sensi;
O Dio, io non so che feci
In quel luogo solitario, buio e silenzioso.
Il canto – Pablo Neruda
François Boucher - Giove nelle
vesti di Diana con la ninfa Callisto, 1759, olio su tela 57,7 x 69,8
cm, Nelson-Atkins Museum of Art, Kansas City
Il canto – Pablo NerudaLa torre del pane, la struttura che l’arca costruisce nell’altezza
con la melodia che eleva la sua fertile fermezza
e il petalo duro del canto che cresce sulla rosa,
così la tua presenza e la tua assenza e il peso della tua chioma,
il fresco calore del tuo corpo di avena nel letto,
la pelle vittoriosa che la tua primavera collocò al fianco
del mio cuore che batteva sulla pietra del muro,
il fermo contatto di frumento e d’oro dei tuoi devastati fianchi,
la tua voce che rovesciava dolcezza selvaggia come una cascata,
la tua bocca che amò la pressione dei miei baci tardivi,
fu come se il giorno e la notte spezzassero il legame mostrando socchiusa
la porta che unisce e separa la luce dall’ombra
e per l’apertura si affacciasse il distante dominio
che l’uomo cercava tritando la pietra, l’ombra, il vuoto.
da Le Metamorfosi - Ovidio
Pietro Liberi - Giove nelle vesti di Diana con la ninfa Callisto, olio su tela, 116,8 x 170,2 cm
da Le Metamorfosi - Ovidio
Alto era il sole, ormai giunto oltre la metà del suo cammino,
quando lei entrò in un bosco inviolato dal tempo dei tempi:
qui dalla sua spalla depone la faretra, allenta la tensione
dell'arco, e si sdraia sul tappeto erboso del suolo,
appoggiando il capo reclinato sulla sua faretra dipinta.
Come Giove la vide così stanca e indifesa, si disse:
«Di questa tresca certo mia moglie non saprà nulla,
e anche se venisse a saperla, vale, vale bene una diatriba!».
Subito assume l'aspetto e il portamento di Diana,
dicendo: «O vergine, che compagna mi sei fra le compagne,
su quali monti hai cacciato?». Dal prato balza la fanciulla
e: «Benvenuta, dea,» risponde, «che, se anche mi sente,
per me sei più grande di Giove!». Sorride lui, divertito
nel sentirsi preferito a sé stesso, e la bacia con impeto
sulla bocca, con troppo impeto, come non s'addice a una vergine.
E mentre lei si accinge a raccontare in quale bosco
ha cacciato, la cinge in un amplesso e nel violarla si rivela.
Lei si ribella, sì, per quanto almeno può fare una donna
(o se tu l'avessi vista, Saturnia, saresti più comprensiva!);
si ribella, sì, ma quale fanciulla o chi altro mai
potrebbe vincere il sommo Giove? In cielo ritorna vincitore
Giove, mentre lei ora odia quei boschi e quegli alberi che sanno;
e fuggendo di lì quasi si scorda di raccogliere
la faretra con le sue frecce e l'arco appeso a un ramo.
Alto era il sole, ormai giunto oltre la metà del suo cammino,
quando lei entrò in un bosco inviolato dal tempo dei tempi:
qui dalla sua spalla depone la faretra, allenta la tensione
dell'arco, e si sdraia sul tappeto erboso del suolo,
appoggiando il capo reclinato sulla sua faretra dipinta.
Come Giove la vide così stanca e indifesa, si disse:
«Di questa tresca certo mia moglie non saprà nulla,
e anche se venisse a saperla, vale, vale bene una diatriba!».
Subito assume l'aspetto e il portamento di Diana,
dicendo: «O vergine, che compagna mi sei fra le compagne,
su quali monti hai cacciato?». Dal prato balza la fanciulla
e: «Benvenuta, dea,» risponde, «che, se anche mi sente,
per me sei più grande di Giove!». Sorride lui, divertito
nel sentirsi preferito a sé stesso, e la bacia con impeto
sulla bocca, con troppo impeto, come non s'addice a una vergine.
E mentre lei si accinge a raccontare in quale bosco
ha cacciato, la cinge in un amplesso e nel violarla si rivela.
Lei si ribella, sì, per quanto almeno può fare una donna
(o se tu l'avessi vista, Saturnia, saresti più comprensiva!);
si ribella, sì, ma quale fanciulla o chi altro mai
potrebbe vincere il sommo Giove? In cielo ritorna vincitore
Giove, mentre lei ora odia quei boschi e quegli alberi che sanno;
e fuggendo di lì quasi si scorda di raccogliere
la faretra con le sue frecce e l'arco appeso a un ramo.
da "Inni Omerici", ad Artemide - Omero
Peter Paul Rubens - Diana ritorna dalla caccia, dettaglio, 1615, olio su tela cm 211,5x145, Museo Nazionale, Belgrado
da "Inni Omerici", ad Artemide - Omero
D’Ècate la sorella, Artèmide cantami, o Musa,
che con Apollo crebbe, la vergine vaga di frecce,
che, poi che nel Melèto coperto di giunchi i corsieri
tuffò, l’aureo cocchio dirige veloce su Smirne,
sulla vitifera Chio. Qui Febo dall’arco d’argento
siede, ed attende la Dea che avventa lontano le frecce.
E tu del canto mio t’allieta, e con te l’altre Dive
tutte: io per prima te vo’ cantare, da te cominciare:
e, cominciando da te, lodarti in un inno novello.
trad. Ettore Romagnoli
D’Ècate la sorella, Artèmide cantami, o Musa,
che con Apollo crebbe, la vergine vaga di frecce,
che, poi che nel Melèto coperto di giunchi i corsieri
tuffò, l’aureo cocchio dirige veloce su Smirne,
sulla vitifera Chio. Qui Febo dall’arco d’argento
siede, ed attende la Dea che avventa lontano le frecce.
E tu del canto mio t’allieta, e con te l’altre Dive
tutte: io per prima te vo’ cantare, da te cominciare:
e, cominciando da te, lodarti in un inno novello.
trad. Ettore Romagnoli
25 luglio 2020
da “Un amore” – Dino Buzzati
dipinto di Viktor Sheleg
da “Un amore” – Dino Buzzati
Al riverbero dei lampioni rari e fiochi, avanza per una cinquantina di metri ma la casa gialla con la lampada all’ingresso non c’è, ora Antonio nota che dinanzi a un portone sta una prostituta in attesa che fuma, ha i capelli corvini a pallone, lo guarda con un dolciastro sorriso, allora Antonio le chiede:
«Mi scusi signorina lei mi sa dire per caso l’asilo Elena?»
Si schiudono le rosse labbra, un dente d’oro luccica.
«A me lo chiedi bel signore, a me?» e fa una fiammeggiante risata. «Ma là caro, dove c’è quella casa gialla.»
Fa segno, Antonio si volta perché la donna ha fatto segno alla strada da dove lui viene, adesso sì la vede poco più in là la casa gialla ha una piccola porta d’ingresso e proprio sopra un lanternino acceso di ferro battuto coi vetri rossi smerigliati, curioso c’era passato proprio davanti senza vederla, addirittura incomprensibile.
«Grazie» fa Antonio e si avvicina alla casa gialla. La porta è chiusa. Antonio guarda in su. È una casa a due piani, abbastanza in ordine, ma vecchia, le persiane sono tutte chiuse, ma da un paio filtra luce. Che strano ospizio, pensa, neanche una targa, poi si decide a suonare.
Al riverbero dei lampioni rari e fiochi, avanza per una cinquantina di metri ma la casa gialla con la lampada all’ingresso non c’è, ora Antonio nota che dinanzi a un portone sta una prostituta in attesa che fuma, ha i capelli corvini a pallone, lo guarda con un dolciastro sorriso, allora Antonio le chiede:
«Mi scusi signorina lei mi sa dire per caso l’asilo Elena?»
Si schiudono le rosse labbra, un dente d’oro luccica.
«A me lo chiedi bel signore, a me?» e fa una fiammeggiante risata. «Ma là caro, dove c’è quella casa gialla.»
Fa segno, Antonio si volta perché la donna ha fatto segno alla strada da dove lui viene, adesso sì la vede poco più in là la casa gialla ha una piccola porta d’ingresso e proprio sopra un lanternino acceso di ferro battuto coi vetri rossi smerigliati, curioso c’era passato proprio davanti senza vederla, addirittura incomprensibile.
«Grazie» fa Antonio e si avvicina alla casa gialla. La porta è chiusa. Antonio guarda in su. È una casa a due piani, abbastanza in ordine, ma vecchia, le persiane sono tutte chiuse, ma da un paio filtra luce. Che strano ospizio, pensa, neanche una targa, poi si decide a suonare.
I fili del telegrafo, 9 – Marina Cvetaeva
dipinto di Viktor Sheleg
I fili del telegrafo – Marina Cvetaeva
9
Primavera… sopore… dormiremo.
Separati – eppure: ogni distanza
annulla il sonno… E forse
in sogno ci si potrà vedere.
Onniveggente, il sogno
sa sempre chi riunire.
A chi confiderò il mio affanno?
A chi dirò la mia tristezza
disumana – creatura
senza padre, disperata
di definire… Ah, la pena
di chi piange da solo!
Su quanto come sabbia presto
scivolerà via dalla memoria. Di chi sa:
sono occupati nella vita i posti
e i cuori – presi a nolo: impiegati
senza ferie. Senza fine. Morti
per vivere – in vita – senza amore. Sepolti vivi
dal mattino – prima luce! – nell’archivio,
nell’Eliso degli storpi!
Su noi due – muti, mansueti: più dell’erba,
dell’acqua che ristagna. Sulla rovina
acerba che ci schianta. Sul rimprovero
del vento: schia-vi, schia-vi…
traduzione di Serena Vitale
da Marina Cvetaeva, Dopo la Russia, a cura di Serena Vitale
Corriere delle Sera - Un secolo di poesia, a cura di Nicola Crocetti
9
Primavera… sopore… dormiremo.
Separati – eppure: ogni distanza
annulla il sonno… E forse
in sogno ci si potrà vedere.
Onniveggente, il sogno
sa sempre chi riunire.
A chi confiderò il mio affanno?
A chi dirò la mia tristezza
disumana – creatura
senza padre, disperata
di definire… Ah, la pena
di chi piange da solo!
Su quanto come sabbia presto
scivolerà via dalla memoria. Di chi sa:
sono occupati nella vita i posti
e i cuori – presi a nolo: impiegati
senza ferie. Senza fine. Morti
per vivere – in vita – senza amore. Sepolti vivi
dal mattino – prima luce! – nell’archivio,
nell’Eliso degli storpi!
Su noi due – muti, mansueti: più dell’erba,
dell’acqua che ristagna. Sulla rovina
acerba che ci schianta. Sul rimprovero
del vento: schia-vi, schia-vi…
traduzione di Serena Vitale
da Marina Cvetaeva, Dopo la Russia, a cura di Serena Vitale
Corriere delle Sera - Un secolo di poesia, a cura di Nicola Crocetti
All’una la mia fortuna alle due il tuo orologio – Oscar Hahn
dipinto di Viktor Sheleg
All’una la mia fortuna alle due il tuo orologio – Oscar Hahn
Sono stato tutta notte davanti alla tua porta
aspettando che uscissero i tuoi sogni
All’una uscì una galleria di specchi
Alle due uscì un letto pieno d’acqua
Alle tre uscì un hotel in fiamme
Alle quattro uscimmo io e te facendo l’amore
Alle cinque uscì un uomo con la pistola
Alle sei si udì uno sparò e ti svegliasti
Alle sette uscisti di corsa da casa tua
Alle otto ci incontrammo all’Hotel Valdivia
Alle nove ci moltiplicammo negli specchi
Alle dieci ci sdraiammo sul letto ad acqua
Alle undici facemmo l’amore fino allo sterminio
Adesso è mezzogiorno
e ho tra le mie braccia il corpo di tutti i miei crimini.
Sono stato tutta notte davanti alla tua porta
aspettando che uscissero i tuoi sogni
All’una uscì una galleria di specchi
Alle due uscì un letto pieno d’acqua
Alle tre uscì un hotel in fiamme
Alle quattro uscimmo io e te facendo l’amore
Alle cinque uscì un uomo con la pistola
Alle sei si udì uno sparò e ti svegliasti
Alle sette uscisti di corsa da casa tua
Alle otto ci incontrammo all’Hotel Valdivia
Alle nove ci moltiplicammo negli specchi
Alle dieci ci sdraiammo sul letto ad acqua
Alle undici facemmo l’amore fino allo sterminio
Adesso è mezzogiorno
e ho tra le mie braccia il corpo di tutti i miei crimini.
Chiudo il tuo libro - Sibilla Aleramo
dipinto di Victor Bauer
Chiudo il tuo libro - Sibilla Aleramo
Chiudo il tuo libro,
snodo le mie trecce,
o cuor selvaggio,
musico cuore…
con la tua vita intera
sei nei miei canti
come un addio a me.
Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,
meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,
liberi singhiozzando, senza mai vederci,
né mai saperci, con notturni occhi.
Or nei tuoi canti
la tua vita intera
è come un addio a me.
Cuor selvaggio,
musico cuore,
chiudo il tuo libro,
le mie trecce snodo.
Chiudo il tuo libro,
snodo le mie trecce,
o cuor selvaggio,
musico cuore…
con la tua vita intera
sei nei miei canti
come un addio a me.
Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,
meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,
liberi singhiozzando, senza mai vederci,
né mai saperci, con notturni occhi.
Or nei tuoi canti
la tua vita intera
è come un addio a me.
Cuor selvaggio,
musico cuore,
chiudo il tuo libro,
le mie trecce snodo.
Passa la mano tra i miei capelli - Osep Palau I Fabre
AmedeoModigliani - Ritratto di Lunia Czechowska, 1919
Passa la mano tra i miei capelli - Osep Palau I Fabre
Passa la mano tra i miei capelli, Anna,
passa la mano.
Sarò un bambino per i tuoi consigli, Anna
- un vecchio.
Guarda la neve sulla mia fronte, Anna,
e i disinganni.
Mi pesa vivere in questo mondo, Anna:
ho già mille anni
La viva fiamma che mi consuma, Anna,
non ha riposo,
e non vedo niente perché sono luce, Anna,
vivo senza corpo.
Passa la mano tra i miei capelli, Anna,
passa la mano.
Senza dire niente dammi un consiglio, ora,
che sono stanco.
a Blanca
Passa la mano tra i miei capelli, Anna,
passa la mano.
Sarò un bambino per i tuoi consigli, Anna
- un vecchio.
Guarda la neve sulla mia fronte, Anna,
e i disinganni.
Mi pesa vivere in questo mondo, Anna:
ho già mille anni
La viva fiamma che mi consuma, Anna,
non ha riposo,
e non vedo niente perché sono luce, Anna,
vivo senza corpo.
Passa la mano tra i miei capelli, Anna,
passa la mano.
Senza dire niente dammi un consiglio, ora,
che sono stanco.
24 luglio 2020
Ode a una stella – Pablo Neruda
Joseph Mallord William Turner - La stella della sera, 1830, olio su tela, 92,5×123 cm, National Gallery, Londra
Ode a una stella – Pablo Neruda
Affacciato di notte
sulla terrazza
di un grattacielo altissimo e amaro
potei toccare la volta notturna
e in un atto di amore straordinario
mi impadronii di una celeste stella.
Scura era la notte
e io mi facevo scivolare
per la strada
con la stella rubata in una tasca.
Di cristallo tremolante
sembrava
ed era
improvvisamente
come se portasse
un pacchetto di ghiaccio
o una spada di arcangelo nella cintura.
La riposi
timoroso
sotto il letto
perché non la scoprisse nessuno,
ma la luce
attraversò
per primo
la lana del materasso,
poi
le tegole,
il tetto della mia casa.
Scomode
si fecero
per me
le più private attività.
Sempre con questa luce
di astrale acetilene
che palpitava come se volesse
ritornare alla notte,
io non potevo
preoccuparmi di tutti
i miei doveri
e così fu che dimenticai di pagare i miei conti
e restai senza pane né provviste.
Nel frattempo, nella strada,
si ammutinavano
passanti, mondani
venditori
attratti senza dubbio
dal fulgore insolito
che vedevano uscire dalla mia finestra.
Allora
presi
un’altra volta la mia stella,
con attenzione
la avvolsi nel mio fazzoletto
e mascherato tra l’affollamento
potei passare senza essere riconosciuto.
Mi diressi all’ovest,
al fiume Verde,
che lì sotto i salici
è tranquillo.
Presi la stella della notte fredda
e soavemente
la misi sopra le acque.
E non mi sorpresi
che si allontanasse
come un pesce insolubile
muovendo
nella notte del fiume
il suo corpo di diamante.
Affacciato di notte
sulla terrazza
di un grattacielo altissimo e amaro
potei toccare la volta notturna
e in un atto di amore straordinario
mi impadronii di una celeste stella.
Scura era la notte
e io mi facevo scivolare
per la strada
con la stella rubata in una tasca.
Di cristallo tremolante
sembrava
ed era
improvvisamente
come se portasse
un pacchetto di ghiaccio
o una spada di arcangelo nella cintura.
La riposi
timoroso
sotto il letto
perché non la scoprisse nessuno,
ma la luce
attraversò
per primo
la lana del materasso,
poi
le tegole,
il tetto della mia casa.
Scomode
si fecero
per me
le più private attività.
Sempre con questa luce
di astrale acetilene
che palpitava come se volesse
ritornare alla notte,
io non potevo
preoccuparmi di tutti
i miei doveri
e così fu che dimenticai di pagare i miei conti
e restai senza pane né provviste.
Nel frattempo, nella strada,
si ammutinavano
passanti, mondani
venditori
attratti senza dubbio
dal fulgore insolito
che vedevano uscire dalla mia finestra.
Allora
presi
un’altra volta la mia stella,
con attenzione
la avvolsi nel mio fazzoletto
e mascherato tra l’affollamento
potei passare senza essere riconosciuto.
Mi diressi all’ovest,
al fiume Verde,
che lì sotto i salici
è tranquillo.
Presi la stella della notte fredda
e soavemente
la misi sopra le acque.
E non mi sorpresi
che si allontanasse
come un pesce insolubile
muovendo
nella notte del fiume
il suo corpo di diamante.
Elogio del tempo – Marina Cvetaeva
Joseph Mallord William Turner - Il salotto, 1828
Elogio del tempo – Marina Cvetaeva
Selciato di fuggiaschi!
Un boato e - a rompicollo,
a perdifiato - ruote! Tempo,
tu mi lasci - indietro!
Acchiappalo! tra i calendari, nella gabbia
degli abbracci... ma scivola frusciando
il rivolo di sabbia! Tempo,
io non starò - al tuo gioco!
Lancette di quadranti, arterie
di rughe - di Americhe
tutte le scoperte e le sorprese...
Tempo, tu mi ruberai - sul peso!
Mi tradirai: ripudio
di mogli sempre nuove!
Io ti ho già perso,
tempo, treno di diversa
destinazione!
Giacché io sono nata fuori
tempo! Ti sfianchi invano,
non convinci! Califfo per un'ora!
Tempo, io - ti manco!
traduzione di Serena Vitale
da Marina Cvetaeva, Dopo la Russia, a cura di Serena Vitale
Corriere delle Sera - Un secolo di poesia, a cura di Nicola Crocetti
a Vera Arenskaja
Selciato di fuggiaschi!
Un boato e - a rompicollo,
a perdifiato - ruote! Tempo,
tu mi lasci - indietro!
Acchiappalo! tra i calendari, nella gabbia
degli abbracci... ma scivola frusciando
il rivolo di sabbia! Tempo,
io non starò - al tuo gioco!
Lancette di quadranti, arterie
di rughe - di Americhe
tutte le scoperte e le sorprese...
Tempo, tu mi ruberai - sul peso!
Mi tradirai: ripudio
di mogli sempre nuove!
Io ti ho già perso,
tempo, treno di diversa
destinazione!
Giacché io sono nata fuori
tempo! Ti sfianchi invano,
non convinci! Califfo per un'ora!
Tempo, io - ti manco!
traduzione di Serena Vitale
da Marina Cvetaeva, Dopo la Russia, a cura di Serena Vitale
Corriere delle Sera - Un secolo di poesia, a cura di Nicola Crocetti
da “Le metamorfosi” – Ovidio
Joseph Mallord William Turner - Storm over the mountains, 1842-3c
da “Le metamorfosi” – Ovidio
Quando così ebbe spartito in ordine quella congerie
e organizzato in membra i frammenti, quel dio, chiunque fosse,
prima agglomerò la terra in un grande globo,
perché fosse uniforme in ogni parte;
poi ordinò ai flutti, gonfiati dall'impeto dei venti,
di espandersi a cingere le coste lungo la terra.
E aggiunse fonti, stagni immensi e laghi;
strinse tra le rive tortuose le correnti dei fiumi,
che secondo il percorso scompaiono sottoterra
o arrivano al mare e, raccolti in quella più ampia distesa,
invece che sugli argini, s'infrangono sulle scogliere.
E al suo comando si stesero campi, s'incisero valli,
fronde coprirono i boschi, sorsero montagne rocciose.
Così come il cielo è diviso in due zone a sinistra
e altrettante a destra, con una più torrida al centro,
la divinità ne distinse la materia interna
in modo uguale e sulla terra sono impresse fasce identiche.
Quella mediana è inabitabile per la calura;
due oppresse dalla neve; e altrettante ne collocò in mezzo
che rese temperate mescolando fuoco e gelo.
Su tutte incombe l'aria, che è più pesante del fuoco
quanto più leggera è l'acqua del suolo.
Lì comandò che si raccogliessero nebbie e nuvole,
e ancora i tuoni che avrebbero poi turbato i nostri cuori,
e i venti che con i fulmini scatenano lampi.
Quando così ebbe spartito in ordine quella congerie
e organizzato in membra i frammenti, quel dio, chiunque fosse,
prima agglomerò la terra in un grande globo,
perché fosse uniforme in ogni parte;
poi ordinò ai flutti, gonfiati dall'impeto dei venti,
di espandersi a cingere le coste lungo la terra.
E aggiunse fonti, stagni immensi e laghi;
strinse tra le rive tortuose le correnti dei fiumi,
che secondo il percorso scompaiono sottoterra
o arrivano al mare e, raccolti in quella più ampia distesa,
invece che sugli argini, s'infrangono sulle scogliere.
E al suo comando si stesero campi, s'incisero valli,
fronde coprirono i boschi, sorsero montagne rocciose.
Così come il cielo è diviso in due zone a sinistra
e altrettante a destra, con una più torrida al centro,
la divinità ne distinse la materia interna
in modo uguale e sulla terra sono impresse fasce identiche.
Quella mediana è inabitabile per la calura;
due oppresse dalla neve; e altrettante ne collocò in mezzo
che rese temperate mescolando fuoco e gelo.
Su tutte incombe l'aria, che è più pesante del fuoco
quanto più leggera è l'acqua del suolo.
Lì comandò che si raccogliessero nebbie e nuvole,
e ancora i tuoni che avrebbero poi turbato i nostri cuori,
e i venti che con i fulmini scatenano lampi.
da "Ulisse" - Enzo Montano
William Turner - Ulisse deride Polifemo, 1829, olio su tela
da "Ulisse" - Enzo Montano
Verso altri mari mi condanna il ricordo insopportabile
dei troppi compagni caduti in ogni tappa,
ognuno di loro un punto iridescente dritto a prua,
dirige le mie nere vele in orizzonti proibiti.
Egoismo
o sete di luce rubata agli abissi dell'ignoranza?
La conoscenza è l'aria dei cervelli,
oltre ogni profumo di sale di mirto
... e anche di menta
che sento ancora ogni giorno in ogni respiro
e tutti i giorni mi perdo nei profumi del mondo,
ad ogni alba piango ogni volta il miracolo
della rugiada sull'erba nuova della primavera.
Ma io sono Ulisse di Itaca,
ed ognuno di voi!
E Gibilterra è uno stretto tra Spagna e Marocco
una porta sull'immensità dell'oceano azzurro
aperta sull’immensità del sapere
sola utile arma per ogni cassandra:
spostare oltre l'inimmaginabile le colonne
opprimenti della superstizione, la vera sfida.
Proprietà Letteraria riservata
© by apollo Edizioni di Antonietta Meringola
C/da Cretarossa, 32 - 87043 Bisignano (Cosenza)
info@apolloedizioni.it
www.apolloedizioni.it
Verso altri mari mi condanna il ricordo insopportabile
dei troppi compagni caduti in ogni tappa,
ognuno di loro un punto iridescente dritto a prua,
dirige le mie nere vele in orizzonti proibiti.
Egoismo
o sete di luce rubata agli abissi dell'ignoranza?
La conoscenza è l'aria dei cervelli,
oltre ogni profumo di sale di mirto
... e anche di menta
che sento ancora ogni giorno in ogni respiro
e tutti i giorni mi perdo nei profumi del mondo,
ad ogni alba piango ogni volta il miracolo
della rugiada sull'erba nuova della primavera.
Ma io sono Ulisse di Itaca,
ed ognuno di voi!
E Gibilterra è uno stretto tra Spagna e Marocco
una porta sull'immensità dell'oceano azzurro
aperta sull’immensità del sapere
sola utile arma per ogni cassandra:
spostare oltre l'inimmaginabile le colonne
opprimenti della superstizione, la vera sfida.
Proprietà Letteraria riservata
© by apollo Edizioni di Antonietta Meringola
C/da Cretarossa, 32 - 87043 Bisignano (Cosenza)
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da “Le metamorfosi” – Ovidio
William Turner – L’eruzione Delle Souffrier Mountains Nell’Isola Di San Vincenzo – 1815
da “Le metamorfosi” – Ovidio
A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi
mi spinge l'estro. O dei, se vostre sono queste metamorfosi,
ispirate il mio disegno, così che il canto dalle origini
del mondo si snodi ininterrotto sino ai miei giorni.
Prima del mare, della terra e del cielo, che tutto copre,
unico era il volto della natura in tutto l'universo,
quello che è detto Caos, mole informe e confusa,
non più che materia inerte, una congerie di germi
differenti di cose mal combinate fra loro.
Non c'era Titano che donasse al mondo la luce,
né Febe che nuova crescendo unisse le sue corna;
in mezzo all'aria, retta dalla gravità,
non si librava la terra, né lungo i margini
dei continenti stendeva Anfitrite le sue braccia.
E per quanto lì ci fossero terra, mare ed aria,
malferma era la prima, non navigabile l'onda,
l'aria priva di luce: niente aveva forma stabile,
ogni cosa s'opponeva all'altra, perché in un corpo solo
il freddo lottava col caldo, l'umido col secco,
il molle col duro, il peso con l'assenza di peso.
Un dio, col favore di natura, sanò questi contrasti:
dal cielo separò la terra, dalla terra il mare
e dall'aria densa distinse il cielo limpido.
E districati gli elementi fuori dall'ammasso informe,
riunì quelli dispersi nello spazio in concorde armonia.
Il fuoco, imponderabile energia della volta celeste,
guizzò insediandosi negli strati più alti;
poco più sotto per la sua leggerezza si trova l'aria;
la terra, resa densa dai massicci elementi assorbiti,
rimase oppressa dal peso; e le correnti del mare,
occupati gli ultimi luoghi, avvolsero la terraferma.
A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi
mi spinge l'estro. O dei, se vostre sono queste metamorfosi,
ispirate il mio disegno, così che il canto dalle origini
del mondo si snodi ininterrotto sino ai miei giorni.
Prima del mare, della terra e del cielo, che tutto copre,
unico era il volto della natura in tutto l'universo,
quello che è detto Caos, mole informe e confusa,
non più che materia inerte, una congerie di germi
differenti di cose mal combinate fra loro.
Non c'era Titano che donasse al mondo la luce,
né Febe che nuova crescendo unisse le sue corna;
in mezzo all'aria, retta dalla gravità,
non si librava la terra, né lungo i margini
dei continenti stendeva Anfitrite le sue braccia.
E per quanto lì ci fossero terra, mare ed aria,
malferma era la prima, non navigabile l'onda,
l'aria priva di luce: niente aveva forma stabile,
ogni cosa s'opponeva all'altra, perché in un corpo solo
il freddo lottava col caldo, l'umido col secco,
il molle col duro, il peso con l'assenza di peso.
Un dio, col favore di natura, sanò questi contrasti:
dal cielo separò la terra, dalla terra il mare
e dall'aria densa distinse il cielo limpido.
E districati gli elementi fuori dall'ammasso informe,
riunì quelli dispersi nello spazio in concorde armonia.
Il fuoco, imponderabile energia della volta celeste,
guizzò insediandosi negli strati più alti;
poco più sotto per la sua leggerezza si trova l'aria;
la terra, resa densa dai massicci elementi assorbiti,
rimase oppressa dal peso; e le correnti del mare,
occupati gli ultimi luoghi, avvolsero la terraferma.
I fili del telegrafo, 6 – Marina Cvetaeva
Sally Storch - The black bag
I fili del telegrafo – Marina Cvetaeva
6
Nell’ora in cui in cielo doni
si recano dai Magi (ora
in cui scendo dalla mia montagna)
le cime cominciano a sapere.
Le intenzioni fanno ressa in cerchio.
I destini commossi, concordi: non
tradire! Nell’ora mia cieca
le anime cominciano a vedere.
traduzione di Serena Vitale
da Marina Cvetaeva, Dopo la Russia, a cura di Serena Vitale
Corriere delle Sera - Un secolo di poesia, a cura di Nicola Crocetti
6
Nell’ora in cui in cielo doni
si recano dai Magi (ora
in cui scendo dalla mia montagna)
le cime cominciano a sapere.
Le intenzioni fanno ressa in cerchio.
I destini commossi, concordi: non
tradire! Nell’ora mia cieca
le anime cominciano a vedere.
traduzione di Serena Vitale
da Marina Cvetaeva, Dopo la Russia, a cura di Serena Vitale
Corriere delle Sera - Un secolo di poesia, a cura di Nicola Crocetti
Specchio - Daria Menicanti
Edward Hopper - Interior (Model Reading), 1925, watercolor, Art Institute of Chicago.
Specchio - Daria Menicanti
Dallo specchio lo vedo appiattirsi
per l’altra stanza insistente beato
di lei, del suo vestito turchetto.
Dentro i bruschi capelli appassionati
lei la indovino casta duramente,
più dei suoi corti anni opulenta.
Ma lui uomo di lampi, lui di vasti
clamori e pianti esperito
libidamente a mano a mano l’ha,
malgrado me, sospinta –
e se la gode in piedi – in un angolo
…et moi dans mon coin
C. Aznavour
C. Aznavour
Dallo specchio lo vedo appiattirsi
per l’altra stanza insistente beato
di lei, del suo vestito turchetto.
Dentro i bruschi capelli appassionati
lei la indovino casta duramente,
più dei suoi corti anni opulenta.
Ma lui uomo di lampi, lui di vasti
clamori e pianti esperito
libidamente a mano a mano l’ha,
malgrado me, sospinta –
e se la gode in piedi – in un angolo
Lei - Daria Menicanti
Edward Hopper - Automat, 1927, olio su tela 71 x 91 cm, Des Moines Art Center
Lei - Daria Menicanti
Ciondolando succhiandosi le labbra
con i vezzi delle sirene
ti aggirava e annescava
e spalmando parole di burro
e montando parole di panna
con tenere cose come queste
aderiva aderiva: mai veduta
una pania compagna.
Ma tu sai che in amore
ogni legge è permessa:
c’è chi vince e chi muore
c’è chi tiene e chi molla.
Fu così che in quei giorni
me ne morii di colla.
Ciondolando succhiandosi le labbra
con i vezzi delle sirene
ti aggirava e annescava
e spalmando parole di burro
e montando parole di panna
con tenere cose come queste
aderiva aderiva: mai veduta
una pania compagna.
Ma tu sai che in amore
ogni legge è permessa:
c’è chi vince e chi muore
c’è chi tiene e chi molla.
Fu così che in quei giorni
me ne morii di colla.
Un tonfo cauto e sordo - Osip Mandel’stam
Edward Hopper - Mattina a Cape Code, 1950, olio su tela cm 87 x 102
Il bianco muove - Daria Menicanti
Edward Hopper - I nottambuli, 1942, olio su tela cm 84 x 152, Art Institute of Chicago Building
23 luglio 2020
da “La guerra dei poveri” – Nuto Revelli
da “La guerra dei poveri” – Nuto Revelli
22 gennaio. Alle 4 sveglia. C’incolonniamo con il battaglione. Incontro Melazzini, è malridotto, ha il naso giallo, congelato. Alessandria, il comandante della Cct (Compagnia comando Tirano), in gamba come sempre, fa distribuire il caffè ai suoi uomini. Riesco a berne un sorso.
Alle 5.30 riprendiamo il cammino. Colonne affiancate, sbandati tedeschi, italiani, ungheresi che s’infilano tra i reparti. Dopo tre ore di marcia, su un’interminabile piana, sostiamo per un attimo. solo noi stiamo fermi, fuori dalla pista, mentre le colonne continuano a rotolare. A due passi, un capitano anziano tende le mani, come se chiedesse l’elemosina: trema e piange. «Salvatemi, fatelo per i miei figli, per i miei bambini, salvatemi». Mi fa pena, fa pena anche agli altri. migliaia di uomini gli sono passati accanto, ignorandolo. Il nostro medico, il dottor Chiappa, lo sistema su una slitta.
Con la sosta il Tirano si è tagliato fuori, ha perso terreno, e non riesce a reinserirsi nelle colonne. Fuori pista non si può marciare. Maccagno tenta di arrestare i tedeschi, prepotenti come sempre: imbraccia un fucile mitragliatore con decisione e Perego, generoso e instancabile, gli dà man forte. Così riusciamo finalmente a sfilare.
Sulla sinistra un’oasi di poche isbe, sostano i quattro carri armati tedeschi, i soli mezzi corazzati che accompagnano l’immensa colonna della ritirata. Lontano, all’orizzonte, una bassa cresta. Si dice che sia lassù la linea tedesca e si spera. È sempre così: quando appare un ciglio lontano o una valle si spera. Sempre così, per centinaia di chilometri.
Anche i più disperati sperano: con i piedi in cancrena, con gli occhi chiusi dal congelamento, con pallottole e schegge nelle gambe e nei fianchi, vanno avanti piegati in due, le braccia penzoloni, trascinandosi sulla neve, cadendo e rialzandosi, ma vanno avanti, perché sperano nella linea tedesca.
Qui dove tutto è morte, dove basta un niente, una distorsione a un piede, una diarrea, e ci si ferma per sempre, il desiderio di vivre è immenso. Camminare vuol dire essere ancora vivi, fermarsi vuol dire morire. A centinaia sono stesi lungo la pista, gli sfiniti, i dissanguati; non li degniamo di uno sguardo, sono cose morte; passiamo correndo. I vivi, poiché molti sono ancora vivi, sentono la colonna che urla, che passa, che marcia verso la liberazione, e tentano di seguirci, magari strisciando, come se la linea tedesca fosse lì, a quattro passi.
Pochi, soltanto pochi dei disperati, arrivano fino a un villaggio e poi sostano, attendendo l’arrivo dei russi, alzeranno le braccia e saranno salvi, poiché i russi non ammazzano gli italiani. Alcuni alpini della 46, catturati dalle pattuglie corazzate che operano alle spalle delle nostre colonne, vennero disarmati. «Italianskij charoš: čikaj», gridarono i russi indicando la strada verso ovest, e gli alpini tornarono al reparto. Per i tedeschi, invece, nessuna pietà: tanti ne prendono, tanti ne ammazzano.
La marcia continua, fra urla e spinte; a tratti si corre per non essere tagliati fuori. Marcia maledetta. Basta perdere per un attimo il collegamento, perché masse di sbandati e colonne s’inseriscano e creino scompiglio. Allora per la compagnia o la parte di battaglione tagliata fuori non ci sarà più nulla da fare fino alla prossima sosta, si marcerà da isolati, a volte ritrovando il reparto proprio nell’attimo che precede un combattimento.
In pieno giorno arriviamo in una vasta conca dove trentamila uomini attendono via libera. È una massa nera e profonda che sente la vicinanza dei russi: attende che apriamo un varco.
22 gennaio. Alle 4 sveglia. C’incolonniamo con il battaglione. Incontro Melazzini, è malridotto, ha il naso giallo, congelato. Alessandria, il comandante della Cct (Compagnia comando Tirano), in gamba come sempre, fa distribuire il caffè ai suoi uomini. Riesco a berne un sorso.
Alle 5.30 riprendiamo il cammino. Colonne affiancate, sbandati tedeschi, italiani, ungheresi che s’infilano tra i reparti. Dopo tre ore di marcia, su un’interminabile piana, sostiamo per un attimo. solo noi stiamo fermi, fuori dalla pista, mentre le colonne continuano a rotolare. A due passi, un capitano anziano tende le mani, come se chiedesse l’elemosina: trema e piange. «Salvatemi, fatelo per i miei figli, per i miei bambini, salvatemi». Mi fa pena, fa pena anche agli altri. migliaia di uomini gli sono passati accanto, ignorandolo. Il nostro medico, il dottor Chiappa, lo sistema su una slitta.
Con la sosta il Tirano si è tagliato fuori, ha perso terreno, e non riesce a reinserirsi nelle colonne. Fuori pista non si può marciare. Maccagno tenta di arrestare i tedeschi, prepotenti come sempre: imbraccia un fucile mitragliatore con decisione e Perego, generoso e instancabile, gli dà man forte. Così riusciamo finalmente a sfilare.
Sulla sinistra un’oasi di poche isbe, sostano i quattro carri armati tedeschi, i soli mezzi corazzati che accompagnano l’immensa colonna della ritirata. Lontano, all’orizzonte, una bassa cresta. Si dice che sia lassù la linea tedesca e si spera. È sempre così: quando appare un ciglio lontano o una valle si spera. Sempre così, per centinaia di chilometri.
Anche i più disperati sperano: con i piedi in cancrena, con gli occhi chiusi dal congelamento, con pallottole e schegge nelle gambe e nei fianchi, vanno avanti piegati in due, le braccia penzoloni, trascinandosi sulla neve, cadendo e rialzandosi, ma vanno avanti, perché sperano nella linea tedesca.
Qui dove tutto è morte, dove basta un niente, una distorsione a un piede, una diarrea, e ci si ferma per sempre, il desiderio di vivre è immenso. Camminare vuol dire essere ancora vivi, fermarsi vuol dire morire. A centinaia sono stesi lungo la pista, gli sfiniti, i dissanguati; non li degniamo di uno sguardo, sono cose morte; passiamo correndo. I vivi, poiché molti sono ancora vivi, sentono la colonna che urla, che passa, che marcia verso la liberazione, e tentano di seguirci, magari strisciando, come se la linea tedesca fosse lì, a quattro passi.
Pochi, soltanto pochi dei disperati, arrivano fino a un villaggio e poi sostano, attendendo l’arrivo dei russi, alzeranno le braccia e saranno salvi, poiché i russi non ammazzano gli italiani. Alcuni alpini della 46, catturati dalle pattuglie corazzate che operano alle spalle delle nostre colonne, vennero disarmati. «Italianskij charoš: čikaj», gridarono i russi indicando la strada verso ovest, e gli alpini tornarono al reparto. Per i tedeschi, invece, nessuna pietà: tanti ne prendono, tanti ne ammazzano.
La marcia continua, fra urla e spinte; a tratti si corre per non essere tagliati fuori. Marcia maledetta. Basta perdere per un attimo il collegamento, perché masse di sbandati e colonne s’inseriscano e creino scompiglio. Allora per la compagnia o la parte di battaglione tagliata fuori non ci sarà più nulla da fare fino alla prossima sosta, si marcerà da isolati, a volte ritrovando il reparto proprio nell’attimo che precede un combattimento.
In pieno giorno arriviamo in una vasta conca dove trentamila uomini attendono via libera. È una massa nera e profonda che sente la vicinanza dei russi: attende che apriamo un varco.
Il clandestino – Mario Tobino
Il clandestino – Mario Tobino
C’era poi un altro fatto accuratamente taciuto, d’accordo tutti a non confessarlo: c’era il senso di colpa.
Tutti gli italiani – al di fuori di un’esigua e imbattibile schiera che col suo comportamento, anche davanti ai Tribunali speciali, era riuscita a sopravvivere e ad alimentare proseliti – tutti gli italiani erano responsabili di quella guerra. Le distinzioni tra i comuni cittadini erano pallide. Molti durante i vent’anni di dittatura dentro di sé o tra fidati amici avevano imprecato o avevano scherzato sopra il fascismo, ma era un fatto di nessuna importanza, erano soltanto parole. Moltissimi poi avevano applaudito, avevano ufficialmente osannato alle vittorie, nelle adunate si erano messi la maschera di invincibili guerrieri.
Poi era venuta la guerra mondiale e allora si era capito che la gloria era un affare ben diverso.
Le “oceaniche” adunate, le pacifiche e fiere parate militari, le divise di ogni forma e colore, la inebriante voce di Mussolini, i balilla, i moschettieri del Duce, erano stati una bella commedia, proprio congeniale alla generalità degli italiani. Anche i favorevoli tempi degli abissini, quei comodissimi e disarmati nemici, erano lontani. Ora la gloria costava la morte.
Allora, con la furbizia di Pulcinella si calcolò che il grande alleato, la Germania, avrebbe provveduto lei alla vittoria; l’Italia per il momento si metteva sotto la sua ala. Poi a guerra finita, le cose ben calme, ci avrebbe pensato il Duce, che era un genio, che avrebbe tramescolato ogni cosa e avrebbe fatto apparire anche gli italiani trionfanti eroi. Ci sarebbero state altre adunate, nuove sfolgoranti divise.
Se non che un giorno la cruda realtà si presentava, le notizie dal fronte di guerra erano nere, si moriva, si perdeva, quella furbizia non serviva a niente e quando cominciarono i bombardamenti aerei sulle città italiane allora piovve molto scetticismo persino sopra il genio del Duce; la sua sacra figura, che a tutto provvedeva, si appassì di delusione.
Quando col passare dei mesi si vide che anche i tedeschi erano piegati dal ferro anglo-americano, allora gli italiani cominciarono a desiderare che questa situazione a fondo cieco nella quale stupidamente si erano ingolfati trovasse in qualsiasi modo una via di soluzione. E la via – dimenticando tutto il passato – più illuminata sembrò la caduta del fascismo, rinnegare il Duce, mandarlo via, dare a lui e ai suoi gerarchi la colpa di tutto.
Passarono altri mesi, le vicende avanzarono più nere, la verità fu più vicina. Gli anglo-americani sbarcarono in Sicilia, i bombardamenti sulle città furono più fitti; gli alleati tedeschi combattevano con eroico furore, ma erano ormai avvolti dalla sconfitta, anche i più tonti l’avevano capito.
Come un bambino che ha preso imprevedutamente una cosa che scotta e balla, ansioso di posarla purchessia e possibilmente senza romperla, gli italiani volevano staccarsi da quella guerra che era legata al fascismo e ai nazisti, dividersi dal Duce e dai suoi gerarchi, scaricare su di loro le pazzie passate, mettere loro alla gogna e così tentare di rimanere a galla.
La sera del 25 luglio accadde proprio ciò che era dalla generalità desiderato e avvenne nella maniera più semplice, la più senza gloria, senza sangue, la più anonima, come condannare in pretura un ladro di polli.
C’era poi un altro fatto accuratamente taciuto, d’accordo tutti a non confessarlo: c’era il senso di colpa.
Tutti gli italiani – al di fuori di un’esigua e imbattibile schiera che col suo comportamento, anche davanti ai Tribunali speciali, era riuscita a sopravvivere e ad alimentare proseliti – tutti gli italiani erano responsabili di quella guerra. Le distinzioni tra i comuni cittadini erano pallide. Molti durante i vent’anni di dittatura dentro di sé o tra fidati amici avevano imprecato o avevano scherzato sopra il fascismo, ma era un fatto di nessuna importanza, erano soltanto parole. Moltissimi poi avevano applaudito, avevano ufficialmente osannato alle vittorie, nelle adunate si erano messi la maschera di invincibili guerrieri.
Poi era venuta la guerra mondiale e allora si era capito che la gloria era un affare ben diverso.
Le “oceaniche” adunate, le pacifiche e fiere parate militari, le divise di ogni forma e colore, la inebriante voce di Mussolini, i balilla, i moschettieri del Duce, erano stati una bella commedia, proprio congeniale alla generalità degli italiani. Anche i favorevoli tempi degli abissini, quei comodissimi e disarmati nemici, erano lontani. Ora la gloria costava la morte.
Allora, con la furbizia di Pulcinella si calcolò che il grande alleato, la Germania, avrebbe provveduto lei alla vittoria; l’Italia per il momento si metteva sotto la sua ala. Poi a guerra finita, le cose ben calme, ci avrebbe pensato il Duce, che era un genio, che avrebbe tramescolato ogni cosa e avrebbe fatto apparire anche gli italiani trionfanti eroi. Ci sarebbero state altre adunate, nuove sfolgoranti divise.
Se non che un giorno la cruda realtà si presentava, le notizie dal fronte di guerra erano nere, si moriva, si perdeva, quella furbizia non serviva a niente e quando cominciarono i bombardamenti aerei sulle città italiane allora piovve molto scetticismo persino sopra il genio del Duce; la sua sacra figura, che a tutto provvedeva, si appassì di delusione.
Quando col passare dei mesi si vide che anche i tedeschi erano piegati dal ferro anglo-americano, allora gli italiani cominciarono a desiderare che questa situazione a fondo cieco nella quale stupidamente si erano ingolfati trovasse in qualsiasi modo una via di soluzione. E la via – dimenticando tutto il passato – più illuminata sembrò la caduta del fascismo, rinnegare il Duce, mandarlo via, dare a lui e ai suoi gerarchi la colpa di tutto.
Passarono altri mesi, le vicende avanzarono più nere, la verità fu più vicina. Gli anglo-americani sbarcarono in Sicilia, i bombardamenti sulle città furono più fitti; gli alleati tedeschi combattevano con eroico furore, ma erano ormai avvolti dalla sconfitta, anche i più tonti l’avevano capito.
Come un bambino che ha preso imprevedutamente una cosa che scotta e balla, ansioso di posarla purchessia e possibilmente senza romperla, gli italiani volevano staccarsi da quella guerra che era legata al fascismo e ai nazisti, dividersi dal Duce e dai suoi gerarchi, scaricare su di loro le pazzie passate, mettere loro alla gogna e così tentare di rimanere a galla.
La sera del 25 luglio accadde proprio ciò che era dalla generalità desiderato e avvenne nella maniera più semplice, la più senza gloria, senza sangue, la più anonima, come condannare in pretura un ladro di polli.
Se qualche volta ti chiede di me – Patricija Dodič
Kenton Nelson - "Why Not", Color lithograph on paper under Plexiglas
Se qualche volta ti chiede di me – Patricija Dodič
Se qualche volta ti chiede di me
Dille che sono un cofanetto con gioielli antiquati.
Fronte d’argilla e sulle labbra l’eterno sorriso.
Che sono il resto di un viale e un meridiano lineare.
Permango inabitabile nell’accorato silenzio.
Cancellando l’angoscia da grinzosi interrogativi.
Detergendomi come la nebbia le ultime gocce
dai fili elettrici prima del nuovo giorno.
Sì.
Dille soltanto questo.
Trad. Jolka Milič
da Fili d’aquilone
Se qualche volta ti chiede di me
Dille che sono un cofanetto con gioielli antiquati.
Fronte d’argilla e sulle labbra l’eterno sorriso.
Che sono il resto di un viale e un meridiano lineare.
Permango inabitabile nell’accorato silenzio.
Cancellando l’angoscia da grinzosi interrogativi.
Detergendomi come la nebbia le ultime gocce
dai fili elettrici prima del nuovo giorno.
Sì.
Dille soltanto questo.
Trad. Jolka Milič
da Fili d’aquilone
L'odore del mare - Eduardo De Crescenzo
Kenton Nelson - Seascape
L'odore del mare - Eduardo De Crescenzo
Se penso al mondo come a un'armonia
Tutto è giusto sia così
Se ogni strada è la strada mia
Il mio posto è stare qui
L'odore del mare mi calmerà
La mia rabbia diventerà
Amore amore è l'unica per me
Né dare né avere la vita va da sé
Né bene né male intorno a me non c'è
Né luna né sole è tutto nel mio cuore
Tutto questo cercare che amore poi diventerà
L'odore del mare mi calmerà, la mia rabbia diventerà
Amore amore e mi sorriderà
Un giorno normale illuminerà, né falso né vero
Intorno a me non c'è né bianco né nero
è tutto nel mio cuore
E tutto questo cambiare che amore poi diventerà
Penso a quanta gente c'è quante stelle di città
Che in questo istante proprio come me
Vivono l'immensità
L'odore del mare mi calmerà...
La doccia è il luogo - Mariangela Gualtieri
La doccia è il luogo - Mariangela Gualtieri
La doccia è il luogo
dove una forza scende in gocce
a consolare. La gabbietta
a proteggersi dal secco mondo
che infetta, la zolla unica su cui tenere i piedi
in questo amaro che dilaga.
Dentro il suo raggiare
c’è antichità profonda
calda che traspare da quel tempo
dove anche noi eravamo
mare – solamente – e in lei disciolto stava
il grigio cerebrale.
Gocce e fiotti
nel suo liquido sale. Tutte le parole
ammucchiate sul fondo
un silenzio abissale le corona
separate e strette nelle valve
di madreperla. Perfette e levigate.
La doccia è il luogo
dove una forza scende in gocce
a consolare. La gabbietta
a proteggersi dal secco mondo
che infetta, la zolla unica su cui tenere i piedi
in questo amaro che dilaga.
Dentro il suo raggiare
c’è antichità profonda
calda che traspare da quel tempo
dove anche noi eravamo
mare – solamente – e in lei disciolto stava
il grigio cerebrale.
Gocce e fiotti
nel suo liquido sale. Tutte le parole
ammucchiate sul fondo
un silenzio abissale le corona
separate e strette nelle valve
di madreperla. Perfette e levigate.
Canzone della mela - Jorge Carrera Andrade
Kenton Nelson - The Ordinary Endeavor
Canzone della mela - Jorge Carrera Andrade
Cielo della sera in miniatura:
giallo, verde, rosso,
con una stella di zucchero
e nuvolette di raso,
mela di seno duro
con nevi morbide al tatto,
fiumi dolci al gusto,
cieli fini per l’olfatto.
Simbolo della conoscenza.
Portatrice di un messaggio superiore:
La legge della gravitazione
o quella del sesso innamorato.
Ricordo del paradiso
è la mela nelle nostre mani.
Un minuscolo cielo: nel suo tornio
un angelo di profumo sta volando.
Cielo della sera in miniatura:
giallo, verde, rosso,
con una stella di zucchero
e nuvolette di raso,
mela di seno duro
con nevi morbide al tatto,
fiumi dolci al gusto,
cieli fini per l’olfatto.
Simbolo della conoscenza.
Portatrice di un messaggio superiore:
La legge della gravitazione
o quella del sesso innamorato.
Ricordo del paradiso
è la mela nelle nostre mani.
Un minuscolo cielo: nel suo tornio
un angelo di profumo sta volando.
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