23 luglio 2020

Il clandestino – Mario Tobino

 Il clandestino – Mario Tobino

C’era poi un altro fatto accuratamente taciuto, d’accordo tutti a non confessarlo: c’era il senso di colpa.
Tutti gli italiani – al di fuori di un’esigua e imbattibile schiera che col suo comportamento, anche davanti ai Tribunali speciali, era riuscita a sopravvivere e ad alimentare proseliti – tutti gli italiani erano responsabili di quella guerra. Le distinzioni tra i comuni cittadini erano pallide. Molti durante i vent’anni di dittatura dentro di sé o tra fidati amici avevano imprecato o avevano scherzato sopra il fascismo, ma era un fatto di nessuna importanza, erano soltanto parole. Moltissimi poi avevano applaudito, avevano ufficialmente osannato alle vittorie, nelle adunate si erano messi la maschera di invincibili guerrieri.
Poi era venuta la guerra mondiale e allora si era capito che la gloria era un affare ben diverso.
Le “oceaniche” adunate, le pacifiche e fiere parate militari, le divise di ogni forma e colore, la inebriante voce di Mussolini, i balilla, i moschettieri del Duce, erano stati una bella commedia, proprio congeniale alla generalità degli italiani. Anche i favorevoli tempi degli abissini, quei comodissimi e disarmati nemici, erano lontani. Ora la gloria costava la morte.
Allora, con la furbizia di Pulcinella si calcolò che il grande alleato, la Germania, avrebbe provveduto lei alla vittoria; l’Italia per il momento si metteva sotto la sua ala. Poi a guerra finita, le cose ben calme, ci avrebbe pensato il Duce, che era un genio, che avrebbe tramescolato ogni cosa e avrebbe fatto apparire anche gli italiani trionfanti eroi. Ci sarebbero state altre adunate, nuove sfolgoranti divise.
Se non che un giorno la cruda realtà si presentava, le notizie dal fronte di guerra erano nere, si moriva, si perdeva, quella furbizia non serviva a niente e quando cominciarono i bombardamenti aerei sulle città italiane allora piovve molto scetticismo persino sopra il genio del Duce; la sua sacra figura, che a tutto provvedeva, si appassì di delusione.
Quando col passare dei mesi si vide che anche i tedeschi erano piegati dal ferro anglo-americano, allora gli italiani cominciarono a desiderare che questa situazione a fondo cieco nella quale stupidamente si erano ingolfati trovasse in qualsiasi modo una via di soluzione. E la via – dimenticando tutto il passato – più illuminata sembrò la caduta del fascismo, rinnegare il Duce, mandarlo via, dare a lui e ai suoi gerarchi la colpa di tutto.
Passarono altri mesi, le vicende avanzarono più nere, la verità fu più vicina. Gli anglo-americani sbarcarono in Sicilia, i bombardamenti sulle città furono più fitti; gli alleati tedeschi combattevano con eroico furore, ma erano ormai avvolti dalla sconfitta, anche i più tonti l’avevano capito.
Come un bambino che ha preso imprevedutamente una cosa che scotta e balla, ansioso di posarla purchessia e possibilmente senza romperla, gli italiani volevano staccarsi da quella guerra che era legata al fascismo e ai nazisti, dividersi dal Duce e dai suoi gerarchi, scaricare su di loro le pazzie passate, mettere loro alla gogna e così tentare di rimanere a galla.
La sera del 25 luglio accadde proprio ciò che era dalla generalità desiderato e avvenne nella maniera più semplice, la più senza gloria, senza sangue, la più anonima, come condannare in pretura un ladro di polli.

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