L'ultimo viaggio di Ulisse - Giovanni Pascoli
VIII
le rondini
E per nove anni egli aspettò la morte
che fuor del mare gli dovea soave
giungere; e sì, nel decimo, su l’alba,
giunsero a lui le rondini, dal mare.
Egli dormia sul letto traforato
cui sosteneva un ceppo d’oleastro
barbato a terra; e marinai sognava
parlare sparsi per il mare azzurro.
E si destò con nell’orecchio infuso
quel vocìo fioco; ed ascoltò seduto:
erano rondini, e sonava intorno
l’umbratile atrio per il lor sussurro.
E si gittò sugli omeri le pelli
caprine, ai piedi si legò le dure
uose bovine: e su la testa il lupo
facea nell’ombra biancheggiar le zanne.
E piano uscì dal talamo, non forse
udisse il lieve cigolìo la moglie;
ma lei teneva un sonno alto, divino,
molto soave, simile alla morte.
E il timone staccò dal focolare,
affumicato, e prese una bipenne.
Ma non moveva il molto accorto al mare,
subito, sì per colli irti di quercie,
per un vïotterello aspro, e mortali
trovò ben pochi per la via deserta;
e disse a un mandriano segaligno,
che per un pioppo secco era la scure;
e disse ad una riccioluta ancella,
che per uno stabbiolo era il timone:
così parlava il tessitor d’inganni,
e non senz’ali era la sua parola.
E poi soletto deviò volgendo
l’astuto viso al fresco alito salso.
Le quercie ai piedi gli spargean le foglie
roggie che scricchiolavano al suo passo.
Gemmava il fico, biancheggiava il pruno,
e il pero avea ne’ rosei bocci il fiore.
E di su l’alto Nerito il cuculo
contava arguto il su e giù de l’onde.
E già l’Eroe sentiva sotto i piedi
non più le foglie ma scrosciar la sabbia;
né più pruni fioriti, ma vedeva
i giunchi scabri per i bianchi nicchi;
e infine apparve avanti al mare azzurro
l’Eroe vegliardo col timone in collo
e la bipenne; e l’inquieto mare,
mare infinito, fragoroso mare,
su la duna lassù lo riconobbe
col riso innumerevole dell’onde.
VIII
le rondini
E per nove anni egli aspettò la morte
che fuor del mare gli dovea soave
giungere; e sì, nel decimo, su l’alba,
giunsero a lui le rondini, dal mare.
Egli dormia sul letto traforato
cui sosteneva un ceppo d’oleastro
barbato a terra; e marinai sognava
parlare sparsi per il mare azzurro.
E si destò con nell’orecchio infuso
quel vocìo fioco; ed ascoltò seduto:
erano rondini, e sonava intorno
l’umbratile atrio per il lor sussurro.
E si gittò sugli omeri le pelli
caprine, ai piedi si legò le dure
uose bovine: e su la testa il lupo
facea nell’ombra biancheggiar le zanne.
E piano uscì dal talamo, non forse
udisse il lieve cigolìo la moglie;
ma lei teneva un sonno alto, divino,
molto soave, simile alla morte.
E il timone staccò dal focolare,
affumicato, e prese una bipenne.
Ma non moveva il molto accorto al mare,
subito, sì per colli irti di quercie,
per un vïotterello aspro, e mortali
trovò ben pochi per la via deserta;
e disse a un mandriano segaligno,
che per un pioppo secco era la scure;
e disse ad una riccioluta ancella,
che per uno stabbiolo era il timone:
così parlava il tessitor d’inganni,
e non senz’ali era la sua parola.
E poi soletto deviò volgendo
l’astuto viso al fresco alito salso.
Le quercie ai piedi gli spargean le foglie
roggie che scricchiolavano al suo passo.
Gemmava il fico, biancheggiava il pruno,
e il pero avea ne’ rosei bocci il fiore.
E di su l’alto Nerito il cuculo
contava arguto il su e giù de l’onde.
E già l’Eroe sentiva sotto i piedi
non più le foglie ma scrosciar la sabbia;
né più pruni fioriti, ma vedeva
i giunchi scabri per i bianchi nicchi;
e infine apparve avanti al mare azzurro
l’Eroe vegliardo col timone in collo
e la bipenne; e l’inquieto mare,
mare infinito, fragoroso mare,
su la duna lassù lo riconobbe
col riso innumerevole dell’onde.
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