L'ultimo viaggio di Ulisse - Giovanni Pascoli
VII
la zattera
E gli dicea la veneranda moglie:
Divo Odisseo, mi sembra oggi quel giorno
che ti rividi. Io ti sedea di contro,
qui, nel mio seggio. Stanco eri di mare,
eri, divo Odisseo, sazio di sangue!
Come ora. Muto io ti vedeva al lume
del focolare, fissi gli occhi in giù.
Fissi in giù gli occhi, presso la colonna,
egli taceva: ché ascoltava il cuore
suo che squittiva come cane in sogno.
E qualche foglia d’ellera sul ciocco
secco crocchiava, e d’uno stizzo il vento
uscia fischiando; ma l’Eroe crocchiare
udiva un po’ la zattera compatta,
opera sua nell’isola deserta.
Su la decimottava alba la zattera
egli sentì brusca salire al vento
stridulo; e l’uomo su la barca solo
era, e sola la barca era sul mare:
soli con qualche errante procellaria.
E di là donde tralucea già l’alba,
ora appariva una catena fosca
d’aeree nubi, e torbide a prua l’onde
picchiavano; ecco e si sventò la vela.
E l’uomo allora udì di contro un canto
di torte conche, e divinò che dietro
quelle il nemico, il truce dio del mare,
venìa tornando ai suoi cerulei campi.
Lui vide, e rise il dio con uno schianto
secco di tuono che rimbombò tetro;
e venne. Udiva egli lo sciabordare
delle ruote e il nitrir degli ippocampi.
E volavano al cielo alto le schiume
dalle lor bocche masticanti il morso;
e l’uragano fumido di sghembo
sferzava lor le groppe di serpente.
Soli nel mare erano l’uomo e il nume
e il nume ergeva su l’ondate il torso
largo, e scoteva il gran capo; e tra il nembo
folgoreggiava il lucido tridente.
E il Laertiade al cuore suo parlava,
ch’altri non v’era; e sotto avea la barra.
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