L'ultimo viaggio di Ulisse - Giovanni Pascoli
VI
il fuso al fuoco
E per nove anni ogni anno udì la voce,
di su le nubi, delle gru raminghe
che diceano, Ara, che diceano, Dormi;
ed alternando squilli di battaglia
coi remi in lunghe righe battean l’aria:
mentre noi guerreggiamo, ara, o villano;
dormi, o nocchiero, noi veleggeremo.
E il canto il cuore dell’Eroe mangiava,
chiuso alle genti come un aratore
cui per sementa mancano i due bovi.
Sedeva al fuoco, e la sua vecchia moglie,
la bene oprante, contro lui sedeva,
tacita. E per le fauci del camino
fuligginose, allo spirar de’ venti
umidi, ardeano fisse le faville;
ardean, lievi sbraciando, le faville
sul putre dorso dei lebeti neri.
Su quelle intento si perdea con gli occhi
avvezzi al cielo il corridor del mare.
E distingueva nel sereno cielo
le fuggitive Pleiadi e Boote
tardi cadente e l’Orsa, anche nomata
il Carro, che lì sempre si rivolge,
e sola è sempre del nocchier compagna.
E il fulgido Odisseo dava la vela
al vento uguale, e ferme avea le scotte,
e i buoni suoi remigatori stanchi
poneano i remi lungo le scalmiere.
La nave con uno schioccar di tela
correa da sé nella stellata notte,
e prendean sonno i marinai su i banchi,
e lei portava il vento e il timoniere.
L’Eroe giaceva in un’irsuta pelle,
sopra coperta, a poppa della nave,
e, dietro il capo, si fendeva il mare
con lungo scroscio e subiti barbagli.
Egli era fisso in alto, nelle stelle,
ma gli occhi il sonno gli premea, soave,
e non sentiva se non sibilare
la brezza nelle sartie e nelli stragli.
E la moglie appoggiata all’altro muro
faceva assiduo sibilare il fuso.
VI
il fuso al fuoco
E per nove anni ogni anno udì la voce,
di su le nubi, delle gru raminghe
che diceano, Ara, che diceano, Dormi;
ed alternando squilli di battaglia
coi remi in lunghe righe battean l’aria:
mentre noi guerreggiamo, ara, o villano;
dormi, o nocchiero, noi veleggeremo.
E il canto il cuore dell’Eroe mangiava,
chiuso alle genti come un aratore
cui per sementa mancano i due bovi.
Sedeva al fuoco, e la sua vecchia moglie,
la bene oprante, contro lui sedeva,
tacita. E per le fauci del camino
fuligginose, allo spirar de’ venti
umidi, ardeano fisse le faville;
ardean, lievi sbraciando, le faville
sul putre dorso dei lebeti neri.
Su quelle intento si perdea con gli occhi
avvezzi al cielo il corridor del mare.
E distingueva nel sereno cielo
le fuggitive Pleiadi e Boote
tardi cadente e l’Orsa, anche nomata
il Carro, che lì sempre si rivolge,
e sola è sempre del nocchier compagna.
E il fulgido Odisseo dava la vela
al vento uguale, e ferme avea le scotte,
e i buoni suoi remigatori stanchi
poneano i remi lungo le scalmiere.
La nave con uno schioccar di tela
correa da sé nella stellata notte,
e prendean sonno i marinai su i banchi,
e lei portava il vento e il timoniere.
L’Eroe giaceva in un’irsuta pelle,
sopra coperta, a poppa della nave,
e, dietro il capo, si fendeva il mare
con lungo scroscio e subiti barbagli.
Egli era fisso in alto, nelle stelle,
ma gli occhi il sonno gli premea, soave,
e non sentiva se non sibilare
la brezza nelle sartie e nelli stragli.
E la moglie appoggiata all’altro muro
faceva assiduo sibilare il fuso.
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