L'ultimo viaggio di Ulisse - Giovanni Pascoli
IV
le gru guerriere
Dicean, Dormi, al nocchiero, Ara, al villano,
di su le nubi, le raminghe gru.
Ara: la stanga dell’aratro al giogo
lega dei bovi; ché tu n’hai, ben d’erbe
sazi, in capanna, o figlio di Laerte.
Fatti col cuoio d’un di loro, ucciso,
un paio d’uose, che difenda il freddo,
ma prima il dentro addenserai di feltro;
e cucirai coi tendini del bove
pelli de’ primi nati dalle capre,
che a te dall’acqua parino le spalle;
e su la testa ti porrai la testa
d’un vecchio lupo, che ti scaldi, e i denti
bianchi digrigni tra il nevischio e i venti.
Arare il campo, non il mare, è tempo,
da che nel cielo non si fa vedere
più quel branchetto delle sette stelle.
Sessanta giorni dopo volto il sole,
quando ritorni il conduttor del Carro,
allor dolce è la brezza, il mare è calmo;
brilla Boote a sera, e sul mattino
tornata già la rondine cinguetta,
che il mare è calmo e che dolce è la brezza.
La brezza chiama a sé la vela, il mare
chiama a sé il remo; e resta qua canoro
il cuculo a parlare al vignaiolo.
Questo era canto che mordeva il cuore
a chi non bovi e sol avea l’aratro;
ch’egli ha bel dire, Prestami il tuo paro!
Son le faccende, ed ora ogni bifolco
semina, e poi, sicuro della fame,
ode venti fischiare, acque scrosciare,
ilare. E intanto esse, le gru, moveano
verso l’Oceano, a guerra, in righe lunghe,
empiendo il cielo d’un clangor di trombe.
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