opera di Alighiero Boetti
Eugenio Montale – Elegia di Pico Farnese
Le
pellegrine in sosta che hanno durato
tutta la
notte la loro litania
s’aggiustano
gli zendadi sulla testa,
spengono i
fuochi, risalgono sui carri.
Nell’alba
triste s’affacciano dai loro
sportelli
tagliati negli usci i molli soriani
e un cane
lionato s’allunga nell’umido orto
tra i frutti
caduti all’ombra del melangolo.
Ieri tutto
pareva un macero ma stamane
pietre di
spugna ritornano alla vita
e il cupo
sonno si desta nella cucina,
dal grande
camino giungono lieti rumori.
Torna la
salmodia appena in volute più lievi,
vento e
distanza ne rompono le voci, le ricompongono.
‘Isole del santuario,
viaggi di vascelli sospesi,
alza il sudario,
numera i giorni e i mesi
che restano per finire’.
Strade e
scale che salgono a piramide, fitte
d’intagli,
ragnateli di sasso dove s’aprono
oscurità
animate dagli occhi confidenti
dei maiali,
archivolti tinti di verderame,
si svolge a
stento il canto dalle ombrelle dei pini,
e indugia
affievolito nell’indaco che stilla
su anfratti,
tagli, spicchi di muraglie.
‘Grotte dove scalfito
luccica il Pesce, chi sa
quale altro segno si perde,
perché non tutta la vita
è in questo sepolcro verde’.
Oh la pigra illusione.
Perché attardarsi qui
a questo
amore di donne barbute, a un vano farnetico
che il
ferraio picano quando batte l’incudine
curvo sul
calor bianco da sé scaccia? Ben altro
è l’Amore –
e fra gli alberi balena col tuo cruccio
e la tua
frangia d’ali, messaggera accigliata!
Se urgi fino
al midollo i diòsperi e nell’acque
specchi il
piumaggio della tua fronte senza errore
o distruggi
le nere cantafavole e vegli
al trapasso
dei pochi tra orde d’uomini-capre,
(‘collane di
nocciuole,
zucchero
filato a mano
sullo spacco
del masso
miracolato
che porta
le preci in
basso, parole
di cera che
stilla, parole
che il seme
del girasole
se brilla
disperde’)
il tuo
splendore è aperto. Ma più discreto allora
che
dall’androne gelido, il teatro dell’infanzia
da anni abbandonato,
dalla soffitta tetra
di vetri e
di astrolabi, dopo una lunga attesa
ai balconi
dell’edera, un segno ci conduce
alla radura
brulla dove per noi qualcuno
tenta una
festa di spari. E qui, se appare inudibile
il tuo
soccorso, nell’aria prilla il piattello, si rompe
ai nostri
colpi! Il giorno non chiede più di una chiave.
È mite il
tempo. Il lampo delle tue vesti è sciolto
entro
l’umore dell’occhio che rifrange nel suo
cristallo
altri colori. Dietro di noi, calmo, ignaro
del
mutamento, da lemure ormai rifatto celeste,
il
fanciulletto Anacleto ricarica i fucili.
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