25 ottobre 2019

Eugenio Montale – Tempi di Bellosguardo

opera di Carla Badiali
Eugenio Montale – Tempi di Bellosguardo

I
Oh come là nella corusca
distesa che s’inarca verso i colli,
il brusìo della sera s’assottiglia
e gli alberi discorrono col trito
mormorio della rena; come limpida
s’inalvea là in decoro
di colonne e di salci ai lati e grandi salti
di lupi nei giardini, tra le vasche ricolme
che traboccano,
questa vita di tutti non più posseduta
del nostro respiro;
e come si ricrea una luce di zàffiro
per gli uomini
che vivono laggiù: è troppo triste
che tanta pace illumini a spiragli
e tutto ruoti poi con rari guizzi
su l’anse vaporanti, con incroci
di camini, con grida dai giardini
pensili, con sgomenti e lunghe risa
sui tetti ritagliati, tra le quinte
dei frondami ammassati ed una coda
fulgida che trascorra in cielo prima
che il desiderio trovi le parole!

II
Derelitte sul poggio
fronde della magnolia
verdibrune se il vento
porta dai frigidari
dei pianterreni un travolto
concitamento d’accordi
ed ogni foglia che oscilla
o rilampeggia nel folto
in ogni fibra s’imbeve
di quel saluto, e più ancora
derelitte le fronde
dei vivi che si smarriscono
nel prisma del minuto,
le membra di febbre votate
al moto che si ripete
in circolo breve: sudore
che pulsa, sudore di morte,
atti minuti specchiati,
sempre gli stessi, rifranti
echi del batter che in alto
sfaccetta il sole e la pioggia,
fugace altalena tra vita
che passa e vita che sta,
quassù non c’è scampo: si muore
sapendo o si sceglie la vita
che muta ed ignora: altra morte.
E scende la cuna tra logge
ed erme: l’accordo commuove
le lapidi che hanno veduto
le immagini grandi, l’onore,
l’amore inflessibile, il giuoco,
la fedeltà che non muta.
E il gesto rimane: misura
il vuoto, ne sonda il confine:
il gesto ignoto che esprime
se stesso e non altro: passione
di sempre in un sangue e un cervello
irripetuti; e fors’entra
nel chiuso e lo forza con l’esile
sua punta di grimaldello.

III
Il rumore degli émbrici distrutti
dalla bufera
nell’aria dilatata che non s’incrina,
l’inclinarsi del pioppo
del Canadà, tricuspide, che vibra
nel giardino a ogni strappo –
e il segno di una vita che assecondi
il marmo a ogni scalino come l’edera
diffida dello slancio solitario
dei ponti che discopro da quest’altura;
d’una clessidra che non sabbia ma opere
misuri e volti umani, piante umane;
d’acque composte sotto padiglioni
e non più irose a ritentar fondali
di pomice, è sparito? Un suono lungo
dànno le terrecotte, i pali appena
difendono le ellissi dei convolvoli,
e le locuste arrancano piovute
sui libri dalle pergole; dura opera,
tessitrici celesti, ch’è interrotta
sul telaio degli uomini. E domani...

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