René Magritte - La magia nera
Crediamo pure all’inizio della Stagione Fredda - Forough FarrokhzadE questa sono io,
una donna sola
sul margine di una stagione fredda,
adesso che comprendo l’essenza sporca della terra
e la semplice triste disperazione del cielo
e l’impotenza di queste mani di cemento.
Passato è il tempo,
passato è il tempo e l’orologio ha suonato quattro volte.
Ha suonato quattro volte.
Oggi è il primo giorno dell’inverno,
io conosco il segreto delle stagioni,
e comprendo la lingua dei momenti.
Sotto terra dorme colui che porterà salvezza
e la terra, la terra tutta che accoglie a sé,
è un segno di riposo.
Passato è il tempo e l’orologio ha suonato quattro volte.
Soffia il vento in strada,
soffia il vento in strada.
E io penso all’unione dei fiori
penso ai piccoli fiori dai magri steli esangui
e a questo stanco tempo malsano,
e un uomo passa accanto agli alberi bagnati,
un uomo dalle vene come linee azzurre
come serpenti morti si arrampicano
su per le pareti del suo collo
e ripetono e ripetono nelle sue tempie riverse
quelle sillabe di sangue
-Salve!
-Salve!
E io penso all’unione dei fiori.
Sul margine di una stagione fredda,
nella riunione di lutto degli specchi
e nel raduno tristissimo delle esperienze pallide
e questo tramonto ormai fertile nella saggezza del silenzio.
Come si può, come si può fermare chi
paziente,
pesante,
disperso
così procede?
Come si può dire all’uomo che lui non vive, che lui non ha mai vissuto?
Soffia il vento in strada
gli appartati corvi della solitudine
volteggiano nel vecchio giardino del malessere,
e la scalinata,
quanto poco ancora si eleva la scalinata…
Tutta l’ingenuità di un cuore, loro,
hanno portato al castello delle favole.
Ma come, come si può adesso
elevare una persona nella danza,
e immergere i suoi capelli infantili
nelle acque correnti
e calpestare, sotto i piedi,
quella mela ormai raccolta
e annusata?
Tu, amico, tu, unico solo amico,
quali nere nuvole attendono il giorno di festa del sole?
Come se un sentiero di ritorno alla carne
fosse il volo di quell’uccello un giorno manifesto.
Come se le foglie nuove, che respirano nel desiderio della brezza,
fossero tra i verdi versi del sogno.
Come se
quella viola fiamma che bruciava nel pensiero puro delle finestre
non fosse altro che l’innocente riflesso della lampada.
Soffia il vento in strada
è questo il principio della rovina,
e anche quel giorno c’era il vento
quando le tue mani poco a poco si rovinarono.
Care stelle,
care stelle di carta
come si può, quando in cielo prende forte il vento di menzogna,
come si può trovare riparo negli sgraziati versetti dei profeti?
Noi come i morti da mille anni insieme giungiamo all’incontro, e solo
allora
il sole giudicherà la rovina dei nostri corpi.
Mi penetra il freddo,
il freddo,
forse mai più il caldo troverà il mio corpo.
Tu, amico, tu unico solo amico
- quanto vecchio era quel vino?
Soppesa, guarda adesso
il peso del tempo,
e come faranno i pesci a rodere le nostre carni,
come mai di continuo stretta mi tieni al fondo del mare?
Mi penetra il freddo,
e odio gli orecchini come conchiglie,
mi penetra il freddo e so bene
che null’altro resta,
se non qualche goccia di sangue,
delle rosse illusioni di un papavero selvatico.
Libererò infine i versi
e sarò così, libera dallo scorrere dei numeri
e dal mezzo delle forme rinchiuse geometriche
troverò riparo fra le distese superfici del sentire.
Sono nuda, e nuda, e nuda,
come i silenzi tra le parole d’amore sono nuda
e di tutte le ferite sono mie le ferite d’amore
d’amore, d’amore, d’amore.
Ho trasportato quest’isola errante
fra i tumulti degli oceani
e l’esplosione della montagna,
e il lacerarsi era segreto dell’esistenza unica
di cui i grani più sottili portarono il sole al mondo.
Buongiorno, notte innocente!
Buongiorno, notte che trasformi gli occhi dei lupi della piana
in ossuti fossi di fede e fiducia,
e accanto ai tuoi ruscelli, le anime dei salici
annusano le gentili anime delle asce.
Io vengo dal mondo indistinto di pensieri, parole e voci,
da questo mondo simile a nido di vipere
da questo mondo pieno del rumore dei passi della gente
che nell’ora del bacio
tesse in testa la corda del mio patibolo.
Buongiorno, notte innocente!
Sempre tutta questa distanza,
tra la finestra e lo sguardo.
Perché non ho guardato?
Come nel tempo in cui un uomo passava accanto agli alberi bagnati.
Perché non ho guardato?
Forse mia madre aveva pianto quella notte,
quella notte che io venni al dolore e lo sperma prese forma
quella notte che andai in sposa alle acacie
quella notte che le moschee di Isfahan brillavano
di maioliche azzurre.
E quella persona, che era la mia metà,
quella notte ritornò dentro il mio seme.
E io la vedevo nello specchio
che come specchio era puro, e luminoso,
e mi chiamò d’improvviso
e così andai,
io, in sposa alle acacie…
Forse mia madre aveva pianto quella notte.
Quale effimero chiarore si era acceso in quella soglia serrata?
Perché non ho guardato?
Ogni attimo dell’ebbrezza felice sapeva
che le tue mani si sarebbero disfatte.
E io non ho guardato
finché non si spalancò la finestra dell’orologio
e quel triste canarino suonò quattro volte.
Suonò quattro volte.
E io incontrai quella piccola donna
dagli occhi come vuoti nidi di fenici
e tanto era il movimento delle sue cosce
come se la verginità del suo sogno glorioso
mi portasse con sé, nel letto della notte.
Pettinerò di nuovo i miei capelli nel vento?
Pianterò di nuovo le viole in giardino?
E lascerò di nuovo i gerani
nel cielo dietro la finestra?
Danzerò di nuovo sui bicchieri?
I rintocchi della porta mi condurranno
di nuovo all’attesa di una voce?
Dissi a mia madre:
E’ finita, accade sempre prima che tu ci possa pensare,
dobbiamo spedire le condoglianze al giornale.
L’uomo cavo,
l’uomo cavo e pieno di fiducia,
guarda come i suoi denti
cantano quando masticano
e i suoi occhi,
come divorano i suoi occhi
quando prendono a fissare.
E come passa lui accanto agli alberi bagnati,
paziente,
pesante,
disperso.
Alle quattro,
nell’ora in cui dalle sue vene come linee azzurre
come serpenti morti si arrampicano
su per le pareti del suo collo
e ripetono e ripetono nelle sue tempie riverse
quelle sillabe di sangue
- Salve!
- Salve!
Forse tu
non hai mai annusato
quei quattro nidi azzurri?
Passato è il tempo,
passato è il tempo e la notte è calata sui rami nudi dell’acacia,
scivola la notte dietro i vetri della finestra,
e con la sua lingua fredda
nasconde i resti del giorno ormai trascorso.
Da dove vengo io?
Da dove vengo io?
Io così intrisa dell’odore della notte?
Ancora fresca è la terra della sua tomba,
parlo della tomba di quelle due giovani acerbe mani…
Tu amico, quanto eri amoroso, unico solo amico
quanto amoroso eri nelle tue bugie
quanto amoroso eri quando serravi le palpebre degli specchi
e coglievi i bagliori dagli steli d’argento
e nel buio crudele mi conducevi al pascolo d’amore
fin quando il fumo di tormento che segue l’incendio di sete
si posò sul prato del sonno.
E quelle stelle di carta
che ruotavano nel cerchio infinito.
Perché hanno chiamato parole la voce?
Perché hanno invitato lo sguardo alla casa dell’incontro?
Perché hanno condotto la carezza
al pudore dei capelli di verginità?
E adesso guarda come qui
alle pertiche dell’illusione
hanno crocifisso l’anima di quella
che ha parlato con parole
e carezzato con lo sguardo,
ed ecco i segni sulle sue guance,
delle cinque tue dita, che erano come le cinque lettere del c e r t o.
Cos’è il silenzio, cos’è, cos’è, solo unico amico?
Cos’è il silenzio se non le parole non dette?
Resto muta della parola, ma la lingua dei passeri
è la lingua viva delle frasi fluenti e della festa nella natura.
La lingua dei passeri è primavera, foglia, primavera.
La lingua dei passeri è brezza, profumo, brezza.
Muore la lingua dei passeri nel luogo dell’opera.
Chi è questa persona che sul sentiero dell’eternità
procede verso l’ora dell’incontro
e accorda il suo orologio
alla matematica logica di sottrazioni e discordie?
Chi è questa persona che non riconosce nel canto del gallo
il cuore del giorno
e vede nel mattino solo l’ora della colazione?
Chi è questa persona che indossa in testa la ghirlanda d’amore
e che marcisce nel suo vestito di sposa?
E infine il sole, unico sole,
non splende sui due poli di sconforto.
Svuotato sei, del luccichio delle maioliche azzurre.
E io così piena
che pregano al suono della mia voce…
Spoglie fortunate
Spoglie tristi
Spoglie di silenzio tra pensieri
Spoglie del felice incontro, eleganti e appetitose
sulle pause dei momenti precisi
delle luci effimere,
e la passione di comprare i marci frutti della vanità…
Ah,
chi è questa gente che s’arresta preoccupata agli incroci
e il suono di questi fischi d’arresto
nell’ora in cui un uomo deve, e deve, e deve
essere schiacciato sotto le ruote del tempo,
un uomo che passava accanto agli alberi bagnati…
Da dove vengo io?
Dissi a mia madre:
E’ finita, accade sempre prima che tu ci possa pensare,
dobbiamo spedire le condoglianze al giornale.
Buongiorno mia strana solitudine,
qui ti cedo la mia stanza.
Perché le nere nuvole di sempre
sono i profeti dei versetti nuovamente purificati.
E nel martirio di una candela
c’è un segreto luminoso
che conosce bene quella fiamma ultima fiamma che resiste.
Crediamo pure
crediamo pure all’inizio della stagione fredda
crediamo pure alla rovina dei giardini del sogno
alle falci riverse ed intonse,
e ai grani imprigionati.
E guarda adesso, come nevica…
Forse verità erano quelle due giovani mani, quelle due giovani mani
sotterrate dal peso della neve senza sosta.
E il prossimo anno, quando la primavera
abbraccerà nel sonno il cielo dietro la finestra,
e nel suo corpo ingialliranno e rifioriranno
i verdi zampilli di steli leggeri, o, amico, o unico solo amico
crediamo pure all’inizio della stagione fredda…
trad. Domenico Ingenito
https://www.youtube.com/watch?v=_9FdVV11-Lc
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