da L’oro di Napoli – Giuseppe Marotta
Il ragù
Alle sette di mattina ecco don Ernesto Acampora che sceglie il suo pezzo di carne dal macellaio. Sa tutto su questo pezzo di carne, lo identifica a colpo sicuro, come se lo avesse tenuto d’occhio fin da quando esso cominciò a crescere addosso alla bestia. Un pezzo di carne per il ragù non deve essere magro e non deve essere grasso; è indispensabile che abbia cessato di vivere da almeno quarantotto ore; bisogna assicurarsi che il taglio sia stato dolce, che abbia seguito e non contrariato il corso delle fibre o l’impercettibile diramarsi dei nervi. Bene. Don Ernesto ha il suo impeccabile pezzo di carne, scaccia tutti dalla cucina e inizia l’esecuzione del ragù. Non escludo che egli si sia fatto un furtivo segno di croce: libera dal male, Signore, questo ragù. È un lavoro degno di chiunque; Ferdinando di Borbone lo prediligeva, mani di re sono ora le mani di don Ernesto. Egli gradua il fuoco e sorveglia ogni cosa; sente gli umori che si sciolgono, l’acqua che abbandona in vapore la carne e quella che diluisce o assimila i grassi, confortandone il bruciore; sente l’arrosolatura; sente l’attimo in cui col cucchiaio di legno bisogna rivoltare il pezzo di carne, o, con la delicatezza di chi agisce in una viva e sensibile materia, spalmarvi il primo velo di conserva. Qui don Ernesto ha i gesti gravi e assorti di un officiante; egli non cuoce ma celebra il ragù. Uscendo dalla finestra, l’odore del ragù di don Ernesto incontra quello di altri innumerevoli ragù, purissimi o bastardi, se li annette o li abolisce; è un fatto che le narici degli angeli palpitano, il profumo di quel solo supremo ragù li ha raggiunti e persuasi. Ora, immessa la conserva di pomodoro a scientifici intervalli, l’ultima, lunghissima parola è al fuoco e al cucchiaio. Il ragù non bolle, pensa; bisogna soltanto rimuovere col cucchiaio i suoi pensieri più profondi, e aver cura che il fuoco sia lento, lento. Nulla induce alla riflessione come l’accudire a un insigne ragù; anzi poiché siamo a questo, su che cosa ormai medita un uomo come don Ernesto, senza età e senza camicia?
Il ragù
Alle sette di mattina ecco don Ernesto Acampora che sceglie il suo pezzo di carne dal macellaio. Sa tutto su questo pezzo di carne, lo identifica a colpo sicuro, come se lo avesse tenuto d’occhio fin da quando esso cominciò a crescere addosso alla bestia. Un pezzo di carne per il ragù non deve essere magro e non deve essere grasso; è indispensabile che abbia cessato di vivere da almeno quarantotto ore; bisogna assicurarsi che il taglio sia stato dolce, che abbia seguito e non contrariato il corso delle fibre o l’impercettibile diramarsi dei nervi. Bene. Don Ernesto ha il suo impeccabile pezzo di carne, scaccia tutti dalla cucina e inizia l’esecuzione del ragù. Non escludo che egli si sia fatto un furtivo segno di croce: libera dal male, Signore, questo ragù. È un lavoro degno di chiunque; Ferdinando di Borbone lo prediligeva, mani di re sono ora le mani di don Ernesto. Egli gradua il fuoco e sorveglia ogni cosa; sente gli umori che si sciolgono, l’acqua che abbandona in vapore la carne e quella che diluisce o assimila i grassi, confortandone il bruciore; sente l’arrosolatura; sente l’attimo in cui col cucchiaio di legno bisogna rivoltare il pezzo di carne, o, con la delicatezza di chi agisce in una viva e sensibile materia, spalmarvi il primo velo di conserva. Qui don Ernesto ha i gesti gravi e assorti di un officiante; egli non cuoce ma celebra il ragù. Uscendo dalla finestra, l’odore del ragù di don Ernesto incontra quello di altri innumerevoli ragù, purissimi o bastardi, se li annette o li abolisce; è un fatto che le narici degli angeli palpitano, il profumo di quel solo supremo ragù li ha raggiunti e persuasi. Ora, immessa la conserva di pomodoro a scientifici intervalli, l’ultima, lunghissima parola è al fuoco e al cucchiaio. Il ragù non bolle, pensa; bisogna soltanto rimuovere col cucchiaio i suoi pensieri più profondi, e aver cura che il fuoco sia lento, lento. Nulla induce alla riflessione come l’accudire a un insigne ragù; anzi poiché siamo a questo, su che cosa ormai medita un uomo come don Ernesto, senza età e senza camicia?
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