4 ottobre 2019

La nonna – Enzo Montano

Antonio Donghi – Paesaggio, 1946, olio su tavola, cm 45x44,8

La nonna* – Enzo Montano
Mia nonna paterna è il faro della mia vita, la persona che è sempre stata parte della mia vita fin dalla nascita. Le voglio un bene sterminato, intenso, profondo, riconoscente, inesauribile come solo alle nonne se ne può volere.
È una donna austera, burbera, direbbe qualcuno, non a torto. Una donna dai modi bruschi che io sapevo essere una specie di corazza dentro cui si celava la donna più buona del mondo, che mai si tirava indietro quando c’era da aiutare qualcuno. E lo faceva sempre con estrema discrezione perché un altro aspetto del suo carattere è la riservatezza. Gli aspetti caratteriali che la facevano apparire persino scontrosa si sono sviluppati soprattutto dopo la scomparsa di suo marito, nonno Nicola che non ho conosciuto, morto a seguito di un incidente sul lavoro, durante la costruzione di un ponte. Era ingegnere, uno dei primi  del circondario. Da allora nonna Maria divide la grande casa con la signora Melinda e suo marito signor Balan. Melinda le fa compagnia e le dà una mano per le faccende domestiche, il disbrigo delle incombenze e la spesa, Balan coltiva i tre ettari rimasti intorno alla casa rimasti di proprietà della nonna oltre a provvedere alla manutenzione dell’attrezzatura e della casa. A casa mia, quindi, c’era sempre grande abbondanza di frutta, verdura e ortaggi di stagione.
Quando arrivai io, ventisette anni fa, la nonna mi fece da seconda mamma e ne fu felicissima. Ritornò giovane, ai tempi in cui lei diventò madre, spesso infatti mi chiamava col nome di sua figlia, Giovanna, mia madre. Poi mi chiedeva scusa rammaricandosi oltre il dovuto, pensando di farmi un torto. Ma io ero troppo piccola per comprendere le implicazioni della vedovanza e della solitudine. Tutte cose che avrei dimenticato, come tanti altri episodi dell’infanzia, se non fosse stata lei stessa a ricordarmele.
“Hai ridato pienezza ai mie giorni” mi diceva sempre “ mi fai sentire una giovinetta”.
Voglio un mondo di bene anche agli altri nonni, alle zie e agli zii, ma nonna Maria mi ha cresciuta. Nonna Maria è sempre stata con me, mi ha coccolata, mia ha fatto superare i momenti più difficili, mia ha insegnato l’allegria e mi ha insegnato anche a piangere.
“Piangi – mi diceva quando non riuscivo a sopportare l’assenza dei miei genitori – piangi, non devi vergognarti, il pianto è amico dell’allegria, se non sai essere triste non potrai gioire dei momenti felici”. E mentre piangevo torrenti di lacrime lei mi accarezzava dolcemente senza mai stancarsi.
Mai mi ha fatto un rimprovero gratuito, mai ha perso la pazienza, anche quando ne avrebbe avuto tutte le ragioni del mondo soprattutto nel periodo dell’adolescenza.
La mia mamma è insegnante e ha dovuto anteporre il lavoro a tutto il resto dopo la morte del mio papà, stroncato dal male della nostra epoca, il cancro, quando io avevo poco più di un anno. Mamma ha dovuto accudire il marito durante la malattia nel tempo che le rimaneva dopo il lavoro.  Papà non voleva arrendersi, ha combattuto senza paura fino all’ultimo giorno, fino all’ultimo respiro.
“Devo farcela – diceva alla mamma – devo vivere per lei, per la nostra bimba bellissima, devo raccontarle la bellezza della vita. Se non dovessi riuscire a sconfiggere il mostro devi dirle che lei mi ha dato l’energia fino alla fine, dille che lei è il più bel dono che potessi mai ricevere, dille che non deve abbattersi mai, per nessun motivo…”.
Si, mio padre voleva continuare a vivere ma non gli è stato concesso, e a me non è stato concesso di avere un padre.  Mia madre ha dovuto continuare al lavorare per lei ma soprattutto per me, per darmi una vita che non si discostasse molto dalla vita degli altri. Il lavoro però non gli ha mai lasciato il tempo per dedicarsi a me come avrebbe voluto, per questo ho vissuto molto tempo con la nonna che ha dovuto farmi da madre, da padre e da nonna.
E nonna mi ha insegnato la vita, mi ha aiutato a impadronirmi di tutte quelle cose che formano una persona. Non smetteva mai di raccontarmi di mio padre, della sua infanzia, dei giochi che faceva, delle storie che amava farsi raccontare, di come sorrideva, come si pettinava, le canzoni che ascoltava, i libri che leggeva. Grazie a lei, si può dire, ho conosciuto mio padre, ne ho sentito la vicinanza, ho realizzato perfino la sua voce, il sorriso, le carezze,  anche se di lui non ho nessun ricordo diretto, se non delle immagini sfuocate di cui non so dire se sono sogni o ricordi confusi avvolti da coltri di nebbia e del tempo dei mie primi mesi di vita, oppure entrambe le cose.
Questo preambolo per dire che appena il test di gravidanza mi dato conferma di quello che già sapevo sono corsa da nonna Maria per darla la bella notizia.
Salto in macchina e vado da lei, nella grande casa di campagna dove vive da sempre, dove hanno vissuto i suoi genitori e i genitori dei suoi genitori. In quella grande casa circondata da una specie di parco con alberi centenari dove c’è fresco anche nei giorni più caldi dell’estate, ho vissuto io fin dai primi mesi di vita. Svolto a sinistra, oltrepasso il cancello, percorro il vialetto di ghiaino bianco fino al portico e freno bruscamente. Apro la portiera e urlo:
- Nonna! Nonna! Nonna Maria!.
Non contenta pigio a lungo il clacson fin quando la nonna compare nell’apertura del vecchio portone.
- Cos’è tutta questa furia, bambina mia.  Dammi il tempo, io sono vecchia e mi muovo con cautela, è successo qualcosa?
- Si, nonna, è successa una cosa importante.
- Vieni qua, fatti abbracciare prima.
Ci abbracciammo a lungo, le diedi cento o duecento baci sulla fronte e le guance solcate da rughe che ornavano il suo bel viso e lo rendevano prezioso, sempre più bello, sempre più nonna. La mia nonna saggia e perfetta.
- Sono incinta, nonna, aspetto un bambino, avrai di nuovo un piccolo per casa.
- Che meraviglia, mia piccola Mariateresa, che meraviglia!
- Sono molto contenta.
- Anche io bambina mia, anche io sono felice.
- Sono corsa da te appena ho avuto la conferma. La mamma e Carlo attendono solo la conferma ma ho voluto dirlo subito a te, non ho resistito.
- Vieni qua bella, lasciati abbracciare ancora
Mi abbracciò ancora più forte, mi accarezzava, mi stringeva la faccia tre le mani e piangeva la sua gioia, e anche io piangevo la mia gioia e la sua. Con la voce rotta dall’emozione disse:
- Sono contenta che tu abbia pensato subito a me adesso, però, chiama subito tuo marito e la mamma. Adesso!
- Ma nonna, loro già ne sono al corrente, appena tornano a casa avranno la conferma di quello che già sanno. Non è il caso di disturbarli sul lavoro, avevo voglia di condividere con te questa mia gioia ma se lo desideri scrivo un messaggio alla mamma e a Giuseppe così appena possono lo leggono.
- Va bene piccola mia, scrivi il messaggio mentre io preparo la nostra bella tazza di tè e i biscotti che ti piacciono da sempre, quelli che portavi alla scuola materna e che ti volevi offrire sempre alle maestre.
Prendemmo il nostro buonissimo tè sedute al tavolo sotto il portico che immetteva alla porta di casa,  la nonna era insuperabile nel preparare il migliore tè del mondo, era una vera esperte di miscele, aromi, infusione, persino più brava di miss Marple. Il tè era un rito, per prepararlo aveva un armamentario di filtri, pentolini dalle forme più strambe, contenitori a tenuta stagna, ecc., la nonna non è una vera cultrice e, devo dire, il risultato era sempre ottimo.
- Vedi quell’albero?
Mi chiese indicando un bel ciliegio che ad ogni primavera arrivava puntuale col suo carico abbondante e dolcissimo di frutti rossi che la sapienza sue e quella di Melinda trasformavano in squisite marmellate, canditi, ciliegie sciroppate o sotto spirito. L’albero era in coda a una fila dei tre grandi gelsi che ombreggiavano la facciata della casa, anch’essi sempre generosi di dolci bacche che, quando mature, avevano un bel colore ambrato, ed era seguito da un giovane susino, anch’esso generosissimo di frutti succosi destinati allo stesso trattamento delle ciliegie.
- Si che lo vedo. – Dissi.
- Sai quanti anni ha quell’albero?
- Non lo so, io lo ricordo da sempre.
- Ha la tua stessa età, lo misi io stessa a dimora lo stesso giorno della tua nascita, subito dopo averti vista in ospedale, bella, rosea e piccolina, tra le braccia della tua orgogliosa mamma, sempre bellissima come una regina.
- Che bello, nonna, non lo sapevo, è una cosa bellissima avere un albero. Perché posso dire che il ciliegio è il mio albero?
- Mia cara, certo che è il tuo albero, per me fu una specie di rito propiziatorio, gli alberi sono forti, e impiantarne uno era come augurarti di crescere forte come il ciliegio.
- Che dici, sono cresciuta forte?
- Si, forte, bella e dolce proprio come l’albero e i suoi frutti.
- Allora pianterai un altro albero tra nove mesi?
- Certamente, e tu mi aiuterai ad accudirlo con la stessa devozione che il piccolo principe ha per la sua rosa.
- Si, Il piccolo principe, quante volte ti ho chiesto di leggerlo, e  quante volte l’ho riletto io, l’ultima volta solo pochi giorni fa, presagendo l’arrivo di un principino una principessina.
Andai indietro nel tempo, a quando con la nonna pasticciavo nell’orto, tra pomodori, zucchine e melanzane. Ogni foglia nuova di una pianta era una scoperta, i frutti delle piante mi emozionavano ogni volta. Ricordo le ore trascorse ad osservare i grandi alberi intorno alla casa: i gelsi, il vecchio carrubo, i fichi contorti dalle grandi e la tenacia inarrivabile, l’altissimo eucalipto che quando soffiava lo scirocco sovrastava ogni altro profumo, un bel ginepro fenicio, gli ulivi, i melograni e tante altri alberi su cui si nidificavano passerotti, gazze e tortore. In estate intorno alla casa c’era sempre un coro ininterrotto di cicale e quando il sole di agosto le stroncava a me il silenzio sembrava irreale.
Ricordai, in compagnia della mia bella nonna le giornate dedicate al pane e alle focacce che ricordo come le feste più belle. mai dimenticherò il profumo intenso del pane che cuoce, delle focacce appena sfornate, talmente invitanti da non riuscire ad attendere che si raffreddassero.
La grande casa di campagna era la storia della mia famiglia, avvolta da ricordi incancellabili. Nonna mi raccontava le cose e mi insegnava la semplicità dell’infallibile logica contadina basata sul rispetto della natura e delle tradizioni. “Gli alberi sono alberi – mi diceva – e noi dobbiamo rispettarli per quello che sono, piante forti e possenti ma fragili se non accuditi; le case sono case e pretendono altre attenzioni altrimenti decadono, i muri si sbreccano, le finestre marciscono, dal tetto penetra l’acqua della pioggia; i fiori sono la gioia dei nostri giorni, la poesie dei campi, la bellezza che attira le farfalle e le api, sono fragili e delicati come i bambini piccoli; il pane è il cibo sacro non per argomentazioni religiose ma perché è il primo frutto del sudore dei contadini, del grano che indora i nostri campi; il latte è l’atro cibo sacro della tradizione, senza latte non esiste nutrimento per i cuccioli, tutti i cuccioli di tutte le specie”.
Quante volte la mia nonna mi aveva ripetuto questi concetti, apparentemente semplici, ma con l’età ho capito il mondo sterminato dietro le semplici parole.
- Mi raccomando – disse come se stesse leggendo i miei pensieri – quando nascerà il piccolino, non lasciarti convincere a rinunciare all’allattamento.
- Non ci penso nemmeno, nonna.
- Brava. Lascia perdere il latte in commercio di cui tutti raccontano meraviglie.
- Lo sai che sono determinata, non mi lascerò convincere da nessuno specie dopo le tue raccomandazioni e quelle della mamma.
- Sento dottori dire che il latte che vendono in farmacia è migliore del latte materno. Non credere a queste scempiaggini, quando mai i bambini non hanno allattato al seno materno? Quando mai i cuccioli degli animali sono riusciti a sopravvivere senza l’allattamento? Io credo si solo un vantaggio commerciale poiché nessun prodotto industriale può essere migliore del latte che sgorga naturalmente dal seno di una mamma.
- Condivido ogni cosa che dici, nonna, stai tranquilla che io non mi lascerò affascinare dalle sirene del consumismo, dopotutto discendo da una famiglia di contadini e mi piace rispettare le mie radici.
Mentre si chiacchierava il silenzio venne interrotto dal rumore di un auto che aveva imboccato frettolosamente il vialetto d’ingresso. Era la mamma.
- Ma che brave – disse appena scesa – volevate festeggiare da sole la bella notizia.
Venne ad abbracciarmi forte, qualche lacrima luccicava sul suo bel viso.
- Auguri piccola mia, sono felicissima.
- Grazie mamma, ma non è una novità per te.
- No, ma l’ufficialità è altra cosa.
Andò a salutare la nonna che amava come amava sua madre.
- Sapevo che sarebbe venuta da te per darti la bella notizia, appena ho letto il messaggio ho chiesto il permesso di avere il resto della giornata libera e sono corsa qui certa di trovarvi.
- Hai fatto bene Giovanna è un giorno che merita una festa, adesso…
La nonna non finì la frase perché fu interrotta da uno sgommare violento di un’altra automobile che aveva svoltato bruscamente nel vialetto che portava alla casa. Era Giuseppe. Scese rapidamente e venne a baciarmi e accarezzarmi con la delicatezza di chi ha paura di rompere qualcosa di infinitamente fragile.
- Anche tu eri certi di trovarci qui – disse la nonna – non hai avuto bisogno di telefonare.
- Non poteva che venire da te, io avrei fatto lo stesso, e lo stesso avrebbe fatto anche Giovanna. Ho preso un giorno di permesso per festeggiare.
- Bene. Che festa sia.
Disse nonna Maria con gli occhi lucidi.
 
*Racconto per l'Associazione AnimaMundi APS di Matera

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