5 ottobre 2019

L’attesa - Jorge Luis Borges

René Magritte - La Victoire, 1939
L’attesa - Jorge Luis Borges

La espera - 1950.
La vettura lo lasciò al numero quattromilaquattro di quella via del nordovest Non erano ancora le nove della mattina; l’uomo notò approvando i platani maculati, il quadrato di terra ai piedi di ciascuno di essi, le decorose case con balconcino, la vicina farmacia, le scritte scolorite dei negozi di colori e cornici e di ferramenta. Un lungo e cieco muro d’ospedale chiudeva la strada di fronte; il sole riverberava, più lontano, in una serra. L’uomo pensò che quelle cose (allora arbitrarie e casuali e in un ordine qualunque, come quelle che si vedono nei sogni) sarebbero divenute col tempo, se a Dio fosse piaciuto, invariabili, necessarie e familiari. Sulla porta a vetri della farmacia si leggeva a grandi lettere: Breslauer; gli ebrei stavano prendendo il posto degli italiani, i quali avevano preso il posto dei nati nel paese. Meglio così; preferiva non trattare con gente del suo sangue.
L’autista l’aiutò a calare il baule; una donna dall’aria distratta o stanca apri la porta. Dal sedile, l’autista gli restituì una delle monete, un ventino uruguayano che gli era rimasto in tasca da quella notte nell’albergo di Melo.
L’uomo gli dette quaranta centesimi e subito pensò: “Ho l’obbligo d’agire in modo che tutti mi dimentichino. Ho commesso due errori: ho dato una moneta d’un altro paese, ho fatto vedere che lo sbaglio m’importa. ” Preceduto dalla donna, attraversò l’ingresso e il primo cortile. La stanza che gli avevano riservata dava, fortunatamente, sul secondo. Il letto era di ferro, che l’artefice aveva deformato in curve fantastiche, in figure di rami e di pampini; c’era inoltre un alto armadio di pino, un tavolino, una scansia con libri al livello del suolo, due sedie spaiate e un lavabo col catino, la brocca, la saponiera e un bottiglione di vetro opaco. Una mappa della provincia di Buenos Aires e un crocifisso adorna vano le pareti; la carta era paonazza, con grandi pavoni a coda spiegata che si ripetevano. L’unica porta dava sul cortile.
Bisognò variare la collocazione delle sedie per fare entrare il baule.
L’inquilino approvò tutto; quando la donna gli chiese come si chiamasse, disse Villari, non come una sfida segreta, né per mitigare un’umiliazione che in realtà non sentiva, ma perché quel nome l’ossessionava, perché gli fu impossibile pensare a un altro. Non lo sedusse, certamente, l’immaginazione letteraria che assumere il nome del nemico potesse essere un’astuzia.
Il signor Villari, al principio, non lasciava la casa; passate alcune settimane prese ad uscire per un poco, all’annottare. Qualche sera entrò nel cinematografo che si trovava tre isolati più avanti. Restò sempre nell’ultima fila, e s’alzava un po’ prima della fine dello spettacolo. Vide tragiche storie della malavita, che racchiudevano errori, ma anche immagini che avevano appartenuto alla sua vita anteriore; ma Villari non se ne accorse, perché l’idea d’una coincidenza tra l’arte e la realtà gli era estranea.
Docilmente cercava di far si che le cose gli piacessero; voleva prevenire l’intenzione con cui gliele mostravano. A differenza di coloro che hanno letto romanzi, non si vedeva mai come personaggio artistico.
Non gli giunse mai una lettera né un foglietto pubblicitario, ma leggeva con imprecisa speranza una delle sezioni del giornale. La sera, accostava alla porta una delle sedie e sorbiva con gravità il male, gli occhi sulla pianta rampicante del muro della casa di fronte. Anni di solitudine gli avevano insegnato che i giorni, nella memoria, tendono a uguagliarsi, ma che non c’è un giorno, neppure di carcere o d’ospedale, che non porti una sorpresa, che non sia, controluce, una rete di minime sorprese. In altre reclusioni aveva ceduto alla tentazione di contare i giorni e le ore, ma quella reclusione era diversa, perché non aveva termine a meno che il giornale, una mattina, recasse la notizia della morte di Alessandro Villari.
Era anche possibile che il Villari fosse già morto, e allora quella vita era un sogno. Tale possibilità l’inquietava, perché non riusciva a capire se somigliasse alla salvezza o alla sventura; si disse ch’era assurda e la respinse. In giorni lontani, meno per il corso del tempo che per alcuni fatti irrevocabili, aveva desiderato molte cose, con amore senza scrupoli; quella volontà poderosa che aveva mosso l’odio degli uomini e l’amore di una donna, non voleva più cose particolari; voleva solo durare, non finire.
Il sapore della bevanda, il gusto del tabacco, la crescente linea d’ombra che guadagnava il cortile, erano stimoli sufficienti. Nella casa c’era un cane lupo, ormai vecchio. Villari fece amicizia con esso. Gli parlava in spagnolo, in italiano e con le poche parole che gli restavano del rustico dialetto dell’infanzia. Cercava di vivere nel puro presente, senza ricordi né previsioni; i primi gl’importavano meno delle ultime. Oscuramente, credette d’intuire che il passato è la sostanza di cui è fatto il tempo; perciò questo diviene subito passato.
La sua stanchezza, un giorno, fu simile alla felicità; in tali momenti non era molto più complesso del cane. Una sera, lo lasciò sgomento e tremante un’intima scarica di dolore in fondo alla bocca. L’orribile miracolo si ripete pochi minuti dopo, e di nuovo verso l’alba. Il giorno seguente, Villari fece chiamare una vettura che lo portò a un gabinetto dentistico del quartiere dell’Undici. Là gli strapparono il molare. In tale circostanza non fu più codardo né più animoso di altre persone.
Un’altra sera, tornando dal cinematografo, senti che lo urtavano. Con ira, con indignazione, con segreto sollievo, affrontò l’insolente. Gli sputò contro un’ingiuria volgare: l’altro, attonito, balbettò una scusa. Era un uomo alto, giovane, dai capelli neri, e l’accompagnava una donna di tipo tedesco; Viilari, quella sera, si ripete che non li conosceva. Lasciò passare, tuttavia, quattro o cinque giorni prima di uscire.
Tra i libri della scansia c’era una Divina Commedia, col vecchio commento di Andreoli. Spinto meno dalla curiosità che da un sentimento di dovere, Villari intraprese la lettura del poema; prima di mangiare leggeva un canto, e poi, in ordine rigoroso, le note. Non giudicò inverosimili o eccessive le pene infernali e non pensò che Dante l’avrebbe condannato all’ultimo girone, dove i denti di Ugolino rodono senza fine la nuca di Ruggieri.
I pavoni della carta paonazza sembravano destinati ad alimentare incubi tenaci, ma il signor Villari non sognò mai una pergola mostruosa fatta d’inestricabili uccelli vivi.
All’alba faceva un sogno di fondo uguale e circostanze variabili. Due uomini e Villari entravano armati di rivoltelle nella stanza o lo aggredivano all’uscita del cinematografo o erano, tutti e tre, lo sconosciuto che lo aveva urtato o l’aspettavano con aria triste nel cortile e sembravano non conoscerlo. Alla fine del sogni, egli estraeva la rivoltella dal cassetto del tavolino (ed effettivamente teneva lì la rivoltella) e la scaricava contro gli uomini. Il fragore dell’arma lo destava, ma non era che un sogno, e in un altro sogno l’aggressione si ripeteva ed egli doveva di nuovo ucciderli.
Una fosca mattina del mese di luglio, la presenza di gente sconosciuta (non il rumore della porta quando l’aprirono) lo svegliò. Alti nella penombra della stanza, stranamente semplificati dalla penombra (nei sogni della paura erano stati sempre più chiari), vigili, immobili e pazienti, gli occhi bassi come se li chinasse il peso delle armi, Alessandro Villari e uno sconosciuto l’avevano finalmente raggiunto. Con un cenno chiese loro di aspettare e si girò contro la parete, come per riprender sonno.
Lo fece per destare la pietà di coloro che lo uccidevano, o perché è meno duro sopportare un avvenimento spaventoso che immaginarlo e attenderlo senza fine, o - e forse è questa l’ipotesi più verosimile - perché gli assassini fossero un sogno, come lo erano stati tante altre volte, nello stesso luogo, alla stessa ora?
Stava in quella magia quando la scarica lo cancellò.

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