Il
giorno seguente fu, per noi, fin dal risveglio, una festa felice. La luce si
era levata così limpida, che pareva d’essere in aprile, invece che al 23
novembre; e, dopo aver dormito fino al tardo mattino, io feci una corsa alle
spiagge e al molo, risalendo poi dalla parte della piazzetta. Il mare, l’aria e
tutte le cose che incontravo sulla strada dividevano la mia felicità, quasi che
l’intero universo fosse la mia famiglia. I giardini sui lati della strada, che,
ieri notte, sembravano dei miraggi desertici, che si scostassero da me, oggi mi
festeggiavano fedeli. E di nuovo io mi sentivo innamorato della mia isola,
tutto ciò che sempre m’era piaciuto tornava a piacermi, perché Nunz. non era
morta. Come se, fin dal tempo che eravamo piccoli, e io stavo qua a Procida, e
lei a Napoli, fosse lei che metteva un pensiero di confidenza, per me,
nell’indifferenza delle cose; e senza farmisi conoscere, al modo d’una gran
signora.
Quel
mattino stesso, lei con la creatura si trasferirono dalla stanzetta in una
camera più grande: la medesima che mio padre. aveva già destinato a lei il
giorno dell’arrivo, e dov’essa, allora, non aveva voluto dormire. Adesso, però,
con la venuta della creatura, era finito per lei lo spavento di star sola la
notte. E in quanto alla camera nuziale, questa rimase di nuovo proprietà
indivisa di mio padre; giacché lei prevedeva che, al suo ritorno, egli non
potrebbe sopportare ogni notte il pianto della creatura e altri simili disagi,
che invece alle madri non dispiacciono.
E
così, quella famosa stanza del primo giorno ritorna agli onori delle cronache,
come dicono gli scrittori. Senz’altro, si provvide a trasportarvi un nuovo
letto, scelto per l’occasione fra i molti fuori uso esistenti nel castello. Era
un lettone matrimoniale di legno massiccio, dipinto con figure come usano fare
a Sorrento (paesaggi, barche, la tarantella ecc.), e abbastanza elegante. Esso
fu fornito di due materassi e di molti cuscini, che le donnette amiche di lei,
subito accorse a visitarla, sbatterono e sprimacciarono con cura. E qua lei,
simile a una regina, riceveva i complimenti delle altre.
Portava
i capelli semplicemente legati da una fettuccia, come di solito li teneva per
la notte; e sulle spalle aveva il suo scialletto di lana, chiuso da una comune
spilla di merceria. Appariva fiera, e perfino lievemente pomposa (ma anche, in
fondo, confusa), per essere al centro di tanti onori; e manteneva sempre, con
le amiche, la sua attitudine di donna grave, piena di riserbo. Se poi qualcuna
di loro si metteva a deplorare: — Poverina, vi siete sgravata sola sola, senza
nessuno, senza nemmeno lo sposo vicino, come una gatta! Lo sposo vostro vi
lascia sempre sola, eh, donna Nunzià! — essa rispondeva soltanto con un
silenzio severo, come per ammonire quell’intrigante a badare ai fatti suoi.
Quando
le sue amiche alzavano dal letto il bambino per soppesarlo e vezzeggiarlo,
subito un’ombra di apprensione le velava lo sguardo, nel dubbio che gli facessero
male. Ma tuttavia, al vederlo là, levato in trionfo come un eroe, aveva una risatina
di piacere gioioso e ancora incerto, quasi domandandosi: «Davvero esso è MIO? è
proprio MIO?»
Nell’allattarlo,
badava a coprirsi il seno con lo scialletto; e se per caso in quel momento
vedeva i miei occhi posarsi su di lei, arrossiva e si copriva meglio. (Adesso
non era più come una volta, che non provava vergogna di me. E invece io,
adesso, sentivo che, seppure lei non si fosse vergognata, non me ne sarei offeso).
A intervalli, nella giornata, io ritornavo a visitarla, nella nuova camera, e
mi sedevo sulla cassapanca, indugiandomi là. Credo che in quel giorno sarei
stato contento pure di farle da servo, se lei ne avesse avuto bisogno; ma c’era
sempre almeno una delle sue amiche, spesso parecchie, e io senza parlare me ne
stavo imbronciato da una parte. Ora che s’erano abituate alla mia presenza, le
sue amiche non s’intimidivano più di me, e ciarlavano di continuo; e io mi
seccavo di udire le loro stupidaggini. Quanto poi a Carmine Arturo, mi pareva
così brutto, con quella faccia di mutria che non sapeva nemmeno ridere, che,
nella mia opinione, egli valeva meno dell’asso di coppe.
Intanto lei, pure fra
tanta gente, non si dimenticava mai di me. Talora, in mezzo ai discorsi di
quelle donne, senza badare a loro si volgeva soltanto a me, che stavo muto da
una parte, e mi diceva, in una specie di timida confidenza: — Eh, Artù?... —
Forse, intendeva chiedermi perdono per gli spaventi che m’aveva procurato la
notte avanti! non mi diceva altro che questo: — Eh, Artù?... — La sua voce,
pure adesso ch’essa era madre di una creatura, aveva serbato il noto sapore un
po’ agrettino, quasi stonato, da ragazza che non ha ancora finito di crescere.
E all’udire quella solita vocina che diceva: "Artù", quando poche ore
avanti l’avevo già creduta morta, io provavo una felicità così impetuosa,
turbolenta, che mi facevo ancora più cupo in faccia. Era il mio carattere. Non
mi sarebbe dispiaciuto di dirle almeno queste due parole: SONO FELICE! Più
volte, nella giornata, mi ripromettevo di presentarmi in camera e di
dichiararle senz’altro: «Sono felice», sia pure in tono indifferente. Ma in
conclusione, nemmeno una simile frase di due parole, non ebbi voglia di
dirgliela
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