Siamo al 1836, un bel
mattino del mese di aprile, Donato, mio fratello maggiore ed io eravamo tornati
dalla scuola dello zio Martino. Pochi minuti dopo entrati in casa Donato fu
mandato a raccoglier l'erba per i conigli, io a comprar del sale per la cucina.
Ratti come l'ape
corremmo uno a levante, l'altro a ponente ed un quarto d'ora dopo eravamo di
ritorno; avendo fatto ognuno il proprio dovere per bene, non ci furono busse,
poiché al piccolo sbaglio correvano schiaffi e scappellotti. Per me le busse
della mamma erano tanto saporite che qualche volta per averne sbagliavo
appositamente.
Venne l'ora del
pranzo e seduti attorno ad un tavolo con gran scodellone di minestra fumante ci
ponemmo a mangiare, mentre la mamma dava il latte al suo figlioletto. Questo
gruppo, che nella miseria era pur felice, fece invidia a Satana, che volle
guastarlo e per sempre; in un altro cantuccio della stanzetta eravi un altro gruppo
felice di bestioline, conigli e galline che mangiavano l'erba portata da
Donato, e il Diavolo, forse geloso anche delle bestie, volle turbare quella
felicità; anzi si servì di quelle bestie per portare la sventura in casa
nostra.
Inaspettatamente un
magnifico cane levriero entrò con un salto nella nostra stanza ed afferrato un
coniglio se ne fuggì fuori. A quella vista noi piccini cominciammo a strillare
ed uscimmo fuori per togliere la preda a quella bestia, che veniva a turbare la
nostra gioia, ma pur troppo il coniglio non fu lasciato che morto.
Donato, che era corso
ad armarsi di un randello, assestò un formidabile colpo sulla testa del cane,
ed il magnifico levriero cadde morto sul colpo.
Disgrazia volle che
questo cane appartenesse ad un ricco signore, certo Vincenzo C... il quale non
vedendo presso di sé la sua bestia tornò sui suoi passi e trovatala morta sul
limitare della casa nostra, scagliò all'indirizzo di mia madre un milione di
vituperi, e col frustino cominciò a picchiare noi di santa ragione. Mia madre cercava
scusa, perdono, invocava pietà, ma era tutto fiato sprecato, che l'altro, il signorotto,
volendo assolutamente sapere chi aveva ucciso il cane, continuava a tempestar
di pugni il povero Donato, tenendolo fermo per un braccio. Allora mia madre
vedendo flagellare suo figlio, corse in sua difesa; posò il piccino, che aveva
in braccio, per terra e si scagliò furibonda verso quell'aguzzino, ma lo
scellerato imbestialito le assestò un vigoroso calcio nel ventre, che la fece
cadere semiviva per terra.
L'uomo brutale, dopo
che ha commesso il delitto, dopo di aver dato sfogo all'infame sua rabbia,
piange come il più vile degli esseri. Così fu per Don Vincenzo.
Dopo aver quasi
uccisa una donna incinta di 5 mesi, si chiuse nella sua camera, e incominciò a
piangere. Egli piangeva non per paura della legge, per timore della giustizia,
di una condanna, che a noi poveri sarebbe toccata di certo; egli ben sapeva che
la giustizia abita i milioni e milioni di metri lontana dalle case dei ricchi e
dei potenti, ma piangeva per l'onta e per il rimorso.
Corsero i parenti
spaventati, venne il medico, ma mia madre non rinveniva; come Dio volle aprì
gli occhi. Ma sarebbe stato meglio non li avesse aperti mai!
Dall'aprile del 1836
al maggio 1839 la povera donna fu costretta a guardare il letto. Chi può dire
quante lacrime spargemmo noi cinque creature, il più grande ottenne, il più
piccolo di due anni! Chi pensava più a noi? Chi ci puliva, pettinava, rassettava
i panni? Chi ci accarezzava? Oh quante volte ho sospirato gli amorosi scappellotti
della mamma!
Mio padre non poteva
lasciare il lavoro, che saremmo morti di fame. Una zia ladra e ghiottona ebbe
l'incarico della casa; essa rubava tutto ciò che le capitava sottomano,
divorava quello che trovava di buono, lasciando per noi la roba fradicia e puzzolente.
Addio scuole, addio zio Martino, parenti, compagni, amici, addio tutti! Disperazione
e miseria sono con noi. La morte ed il carcere è serbata ai miseri!
Eppure abbiamo un
padrone in cielo, Iddio, un signore in terra, il Re: in quei tempi avevamo
Francesco II per Re, Maria Cristina per Regina; i santa ed il Re buono dei Napoletani;
ma essi pensavano alle feste ed alla gloria, mentre, noi morivamo di fame.
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