una
volta ch’ebbi compreso come stava la faccenda, cominciai a ricercare il piacere
scientemente, di proposito. Vennero messi in atto i principi della selezione e
dell’adattamento. Quando la composizione di un’immagine in un fascicolo d’avventure
risultava manchevole, la copiavo da prima con le matite colorate, e poi la correggevo
secondo il mio gusto. Allora prendeva le fattezze di un giovane artista del
circo equestre che cadeva in ginocchio premendo la mano su una ferita d’arma da
fuoco alla mammella; o d’un funambolo precipitato dal filo spaccandosi il
cranio, che adesso giaceva a terra morente, con mezza faccia intrisa di sangue.
Spesso a scuola mi angustiava talmente la paura che si potessero scoprire in
mia assenza quelle truculente vignette celate a casa in fondo a un cassetto
della libreria, che non udivo neppure la voce dell’insegnante. Sapevo che avrei
dovuto distruggerle subito dopo averle disegnate, ma il mio giocattolo si era
così affezionato che mi riusciva assolutamente impossibile attuare quel
provvedimento.
In
questa maniera il mio giocattolo trascorse veramente molti giorni e mesi, senza
nemmeno adempiere al suo fine secondario – quello che chiamerò “la mia brutta
abitudine – a tacere del suo fine principale, supremo.
Intanto
vari cambiamenti avevano avuto luogo intorno a me. La famiglia si era divisa in
due e, lasciata la casa in cui ero nato, si era trasferita in due case
separate, ma che non distavano più di mezzo isolato nella stessa strada. in una
stavano i nonni con me, nell’altra i miei genitori e i miei fratelli. Durante
quel periodo mio padre fu inviato all’estero in missione ufficiale, e prima di rientrare
in patria visitò parecchie nazioni d’Europa. non passò molto tempo, che già i
miei genitori facevano un nuovo trasloco. Alla fine mio padre aveva preso la
decisione inspiegabilmente differita di esigere ch’io ritornassi a vivere in
casa sua, e approfittò del momento opportuno per attuarla. Dovetti sorbirmi una
scena d’addio con la nonna – un “melodramma moderno,” com’ebbe a definirla mio
padre – e così alla buon’ora andai a vivere con i miei. Questa volta mi
separavano dal domicilio dei nonni parecchie stazioni della ferrovia
metropolitana e della linea tranviaria municipale. Giorno e notte la nonna si
stringeva al petto la mia fotografia sciogliendosi in lacrime, e un attacco
isterico la coglieva istantaneamente se violavo il patto stipulato fra noi due,
che mi obbligava a passare da lei una notte di ogni settimana. A dodici anni
ero oggetto dell’amore di una tenera fidanzata sessantenne.
Di
lì a poco mio padre fu trasferito a Osaka. Ci andò solo, il resto della
famiglia rimase a Tokyo.
Un
giorno approfittando di un leggero raffreddore che mi aveva impedito di andare
a scuola, pescai alcuni volumi di riproduzioni d’opera d’arte che mio padre
aveva riportato in patria come ricordo dei suoi viaggi in terre straniere, e
rifugiatomi in stanza da letto li esaminai con grande attenzione. Mi
affascinarono in special modo le fotoincisioni di sculture greche nelle guide
dei vari musei italiani. Quando mi trovai davanti alle rappresentazioni del
nudo, fra le molteplici riproduzioni di capolavori furono queste tavole in
bianco e nero che appagarono la mia fantasia a preferenza d’ogni altra. Ciò era
dovuto probabilmente al semplice fatto che, anche riprodotta, la scultura mi
pareva vicina alla vita.
Era
la prima volta che vedevo dei libri di quella specie.
Quel
taccagno di mio padre, insofferente all’idea che mani infantili avessero a
toccare e a insudiciare quelle figure, e temendo per giunta – come a torto! –
ch’io potessi venir attratto dalle donne ignude dei capolavori, aveva riposto i
volumi nei più profondi recessi di uno stipo. Quanto a me, non mi ero mai
sognato fino a quel giorno che potessero essere più interessanti delle vignette
dei giornalini da ragazzi.
Trad. Marcella Bonsanti
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