Fernando Botero - The Wall (Execution)
da Cent’anni di
solitudine – Gabriel Garcìa Màrquez
(…)
All’alba,
dopo un consiglio di guerra sommario, Arcadio fu fucilato contro il muro del
cimitero. Nelle ultime ore della sua esistenza non riuscì a capire perché era
scomparsa la paura che lo aveva tormentato fin dall’infanzia. Impassibile,
senza nemmeno preoccuparsi di far mostra del suo recente coraggio, ascoltò gli
interminabili capi d’accusa. Pensava a Ursula, che a quell’ora doveva essere
sotto il castagno a prendere il caffè con Josè Arcadio Buendìa. Pensava a sua
figlia di otto mesi, che non aveva ancora nome, e a quello che sarebbe nato in
agosto. Pensava a Santa Sofia de la Piedad, che la sera prima aveva lasciato
mentre salava un cerco per il pranzo del sabato, e gli mancarono i suoi capelli
sciolti sulle spalle e le sue ciglia che embravano artificiali. Pensava alla
sua gente senza sentimentalismi, in un severo rendiconto della vita,
cominciando a capire quanto amava in realtà le persone che più aveva odiato. Il
presidente del tribunale di guerra iniziò il suo discorso finale, prima che
Arcadio si rendesse conto che erano trascorse due ore. “Anche se i capi d’accusa
comprovati non fossero sufficienti” diceva il presidente, “la temerarietà
irresponsabile e criminale con la quale l’accusato ha spinto i suoi subordinati
a una morte inutile basterebbe per fargli meritare la pena capitale.” Nella
scuola semidistrutta dove aveva la prima volta la sicurezza del potere, a pochi
metri dalla stanza dove aveva conosciuto l’incertezza dell’amore, Arcadio trovò
ridicolo il formalismo della morte. In realtà non gli importava la morte ma la
vita, e per questo la sensazione che provò quando pronunciarono la sentenza non
fu una sensazione di paura ma di nostalgia. Non parlò non gli chiesero quale
fosse la sua ultima volontà.
“Dite
a mia moglie” rispose una voce alta e chiara, “che dia alla bambina il nome di
Ursula.” Fece una pausa e confermò: “Ursula, come la nonna. E ditele anche che
se quello che deve nascere nasce maschio, lo dovranno chiamare Josè Arcadio,
non per lo zio, ma per il nonno”.
Prima
che lo portassero al muro, padre Nicanor cercò di assisterlo. “Non ho niente di
cui pentirmi disse Arcadio, e si mise agli ordini del plotone dopo aver bevuto
una tazza di caffè neo. Il capo del plotone, specialista in esecuzioni
sommarie, aveva un nome che era assai
più di una fatalità: capitano Roque Carnicero. Cammin facendo verso il
cimitero, sotto la pioggerella persistente, Arcadio osservò che all’orizzonte
spuntava un mercoledì radioso. La nostalgia svaniva con la nebbia e lasciava il
posto a una immensa curiosità. Solo quando gli ordinare di mettersi con le
spalle al muro, Arcadio vide Rebecca coi capelli bagnati e un vestito a fiori
rosa, che apriva finestre e porte in tutta la casa. Fece uno sforzo perché si
accorgesse di lui. In effetti, Rebecca guardò per caso verso il muro e restò
paralizzata dallo stupore, riuscì appena a reagire per rivolgere ad Arcadio un
cenno di addio con la mano. Arcadio le rispose nello stesso modo. In quell’istante
gli puntarono contro le bocche affumicate dei fucili, e udì distintamente le
encicliche cantate di Melquìades, e sentì i passi perduti di Santa Sofia de la
Piedad, vergine, nell’aula, e provò nel naso la stessa durezza di ghiaccio che
aveva notato nelle narici del cadavere di Remedios. “Ah, cazzo!” riuscì ancora
a pensare, “mi sono dimenticato di dire che se nasceva femmina la chiamassero
Remedios.” Allora, come accumulato in una zampata lacerante, tornò a sentire il
terrore che lo aveva tormentato durante la vita. Il capitano diede l’ordine di
fuoco. Arcadio ebbe appena il tempo di gonfiare il petto e sollevare il capo,
senza capire da dove sgorgava il liquido ardente che gli bruciava le cosce.
“Cornuti!”
gridò. “Viva il partito liberale!”
(…)
Nessun commento:
Posta un commento