Renato Guttuso - Due carrettieri di notte
da Feria d’agosto – Cesare Pavese
Vecchio mestiere
A quei tempi ero
occupatissimo e vivevo con dei carrettieri. La testa mi risuona ancora degli
urli grossi di comando e del cigolio delle martinicche. Tenevamo il nostro
raduno nel cortile e sotto l'androne di un certo stallaggio che, le sere di
partenza, era una bolgia di lanterne e di voci irose come staffilate. Fantesche
e garzoni che ci davano l'avvio, anelavano a vederci in strada, perché soltanto
allora potevano fermarsi sulla soglia a respirare: lo schiocco delle nostre
fruste era la loro liberazione.
Anche per noi la
staffilata larga, sparata fuori dell'androne sul fianco dei cavalli, era il
segnale che cominciavano la condotta e la notte. Di primo buio ci si
accompagnava, se faceva stellato, a due a tre sulla banchina della strada,
avendo l'occhio al cavallo di testa e alle biforcazioni, perché la carovana va
come un treno e tutto sta che sia incamminata bene. Poi cominciavano i più
vecchi a restare indietro e montare sui vari carri; noi giovanotti s'aveva
sempre qualche discorso da finire e un'ultima sigaretta da chiedere. Ma si
saltava sui sacchi anche noi alla fine e il dormiveglia cominciava.
Quante notti passai
così accovacciato sui sacchi, dondolandomi negli occhi la lanterna che nel
dormiveglia non distinguevo più se era appesa sotto il carro precedente o se
fosse per caso la mia. Ci si sentiva trasportare, si sentiva tutto il carro e
il cavallo muoversi e stirarsi sotto; certi tratti dello stradale li
riconoscevo ai sobbalzi. Secondo che il carro passava sotto una costa, o in
mezzo a un campo, davanti a un portico, a un muro, o sopra un ponte, l'eco
dello strepito delle ruote variava: era una voce che teneva compagnia più della
sonagliera che i cavalli agitavano dimenando il capo. Era una voce che, appena
il freddo dell'alba ci svegliava, tornava a farsi sentire incessante, mutata
secondo la strada percorsa; e prima ancora che un'occhiata alla campagna o alle
case ci dicesse dov'eravamo, ci tranquillava con la sua monotonia. Disteso sui
sacchi, ciascuno di noi non ascoltava che il suo carro, ma indovinava nei vari
cigolii che l'accompagnavano la presenza degli altri; e in certi momenti che nella
campagna tutto taceva, si levava la testa dal sacco e si stava sospesi finché
non si vedeva una lanterna dondolare a fìor di terra, o un tintinnio e lo
strepito delle altre ruote sulla polvere non giungeva a rassicurare.
Con tanta strada che
feci in quegli anni, dormii quasi sempre. Dormii di notte e dormii di giorno,
sotto il sole, sotto la pioggia, raggomitolato o seduto. I vecchi conducenti
dicono che da giovani si dorme volentieri sul carro perché si è più forti e più
sani e si cede al sonno: a me piaceva viaggiare in carovana perché c'era sempre
qualche vecchio che vegliava e pensava lui alla strada. Che cosa c'era di più
bello che svegliarsi avanti giorno in vista dell'abitato e non avere il tempo di
stirarsi che i carri si fermavano e tutti si scendeva a bere una volta e
mangiare un boccone? Intanto veniva chiaro, e all'osteria pareva che lo
sapessero: spalancavano le imposte di legno e si sporgevano le donne, a braccia
larghe, chiamando i garzoni. Secondo con chi eravamo in condotta, si faceva la
tavolata o si caricava di aglio o di acciuga la pagnotta e via subito. L'uno e
l'altro aveva il suo bello. Ma si capisce che fermarsi era meglio; tanto più
quando davanti all'osteria ci aspettavano altri carri che avevano già fatto
accendere il fuoco. Allora si mangiava forte, seduti intorno alla tavola,
dicendo ognuno la nostra; si facevano tappe di mezz'ora, si andava e veniva nel
cortile a dare il fieno e abbeverare; le ragazze dell'osteria venivano sullo
scalino a contarci. Allora sì che aver dormito faceva piacere: veniva voglia di
cantare (gli altri cantano la sera, noialtri si cantava al mattino).
I vecchi dicono che
tutto piace di quegli anni perché allora si è giovani, ma io, che di mestieri
ne ho fatto qualcuno, sono sicuro che niente è più bello di una condotta ben
pagata. Le strade, le osterie, i cavalli e le campagne sembravano messi lì
soltanto per noi. Quel mangiare appena giorno, prima che gli altri fossero in
piedi, dopo una nottata di strada, era una gran cosa, e adesso che non faccio
più questa vita ci vuol altro che il canto del gallo per farmi saltar su con
tanta smania di mangiare, di andare e discorrere, quanta ne avevo allora. È
vero che adesso sono grigio, ma se il mondo fosse quello di una volta e potessi
disporre, saprei io su che carro montare e arrivare appena giorno all'osteria,
svegliare tutti quanti e far la tappa. Se ci sono ancora le osterie e le tappe.
Ma ormai devono
essere morti anche i cavalli. È da un pezzo che non vedo più per le strade i
tiri rinterzati di una volta. Di notte, adesso, quando non prendo sonno
neanch'io, posso sì tendere l'orecchio quanto voglio, eppure mai che mi succeda
di sentire rotolare una condotta e avvicinarsi i cavalli e un carrettiere
gridare. Adesso di notte si sentono passare le macchine, e la roba la
spediscono col treno: faranno più presto ma non è più un mestiere. Finirà che
sulle strade crescerà l'erba, e le osterie chiuderanno.
Nessun commento:
Posta un commento