“Dominivobisco.”
“Ettcummi
spiri totò” risposero una decina di voci sperse nello scuro profondo della
chiesa, rado rado punteggiato da qualche lumino e da cannìle di grasso fetente.
“Itivìnni,
la missa è.”
Ci
fu una rumorata di seggie smosse, la prima messa del mattino era finita. Una
fìmmina ebbe una botte di tosse, patre Artemio Carnazza fece una mezza
inginocchiata davanti all’altare maggiore, scomparse di prescia nella sacrestia
dove il sacrestano, morto di sonno com’era sempre, l’aspettava per aiutarlo a
spogliarsi dai paramenti. I fedeli abituali della prima messa lasciarono tutti
la chiesa, cizziòn fatta di donna Trisìna Cìcero, la ìmmina che aveva
tussuculiàto, la quale se ne ristò in ginocchio, sprofondata nella preghiera.
Donna Trisìna s’appresentava alla prima messa da una quindicina di matine, non
era di fatto conosciuta come chiesastica,
in chiesa compariva solamente la domenica e le sante feste comannàte. Si vede
che le era capitato di fare piccàto e ora voleva farsi perdonare dal
Signiruzzo. Donna Trisìna era una trentina mora, con gli occhi verdi
sperluccicanti e due labbra rosse come le fiamme dell’inferno. Mischineddra,
era rimasta vedova da tre anni. Da allora si vestiva tutta di nìvuro, a lutto stretto,
lo stesso però gli òmini quando che la vedevano passare facevano cattivi
pinsèri, tanta grazia di Dio senza che ci fosse un màscolo a governarla. Ma in
paìsi c’era chi sosteneva che quel campo era stato invece arato e
abbondantemente seminato da almeno due volenterosi: l’avvocato don Gregorio
Fasùlo e il fratello del delegato, Gnazio Spampinato.
Donna
Trisìna aspettò che il sacrestano se ne niscisse dalla chiesa, poi si fece la
croce, si susì e s’avviò verso la sacristìa. Trasì cautelosa. La luce primentìa
del giorno le bastò per assicurarsi che nel locale non c’era anima criàta.
Proprio allato al grande armuàr di piscipàino dove stavano i paramenti, una
porticina si apriva su una scala di legno che portava al quartino in dove il
parrino ci aveva abitazione.
Patre
Artemio Carnazza era omo che stava amezzo tra la quarantina e la cinquantina,
rosciano, stacciùto, amava mangiari e bìviri. Con animo cristiano era sempre
pronto a prestare dinaro ai bisognevoli, e doppo, con animo pagano, si faceva
tornare narrè il doppio e macari il triplo di quello che aveva sborsato.
Soprattutto, patre Carnazza amava la natura. Non quella degli aciddruzzi, delle
picorelle, degli àrboli, delle arbe e dei tramonti, anzi di quel tipo di natura
egli altissimamente se ne stracafotteva. Quella che a lui lo faceva nèscire
pazzo era la natura della fìmmina che, nella sua infinita varietà, stava a
cantare le lodi alla fantasia del Criatore: ora nìvura come la inca, ora rossa
come il foco, ora bionda come la spica del frumento, ma sempre con sfumature di
colore diverse, con l’erbuzza una volta alta che sontuosamente oscillava al soffio
del suo fiato, un’altra volta corta corta corta come appena falciata, un’altra
volta ancora fitta e intrecciata come un cespuglio spinoso e sarvaggio. Sempre
si meravigliava quanno che ne vedeva una nova, perché nova novissima era
veramente con tutto il suo particolare da scoprire, da percorrere centilimetro appresso
cintilimetro fino alla grotticella càvuda e ùmita dintra alla quale trasìre a
lento, adascio, che doppo era la grotti cella istessa ad afferrarti stretto, a
inserrarti le sue pareti intorno, a portarti fino al fondo più fondo in dove
che stimpagna l’acqua di vita.
Donna
Trisìna acchianò la scala di legno un piede leva e l’altro metti, attenta a non
fare rumorata perché il legno, di gradino in gradino, aumentava di strùscio,
faceva come un lamento.
“Meglio
accussì” le aveva spiegato il parrino “pirchì se qualichiduno mi viene a
cercare, io lo sento che sta arrivando.”
Intanto
donna Trisìna acchianava, patre Carnazza si era levato la tonaca e sopra la
maglia e le mutanne aveva indossato la vestaglia che gli era stata regalata da
una delle sue parrocchiane, di seta rossa e arricamata d’oro che manco il
vìscovo.
Visto
che il parrino non stava nella càmmara di mangiare (doppo la prima messa faceva
colazioni con mezzo litro di latte di capra e mezza dozzina d’ova fritte),
donna Trisìna s’accostò alla porta della càmmara di letto e taliò dintra,
sporgendo appena la testa. Le persiane erano accostate, ma trapelava la luce di
una giornata che avrebbe portato calura. non vide nisciuno manco lì. Si fece
pirsuasa che patre Artemio era stato necessitato di chiudersi nel cammarìno di
còmmodo per dare soddisfazione a un bisogno naturale. Avanzò d’un passo. E il
parrino, che stava riparato darrè la porta tenendon il respiro, niscì di colpo,
l’abbrancò per dietro, la spingì contro il letto, l’obbligò a mettersi a affaccia
bocconi. donna Trisìna riniscì a non fare voci per lo scanto che si era
pigliata, ma quanno sintì la mano libera di patre Artemio (l’altra gliela
teneva premuta sulla schiena per mantenerla ferma nella posizione) decisamente
infilarsi sotto la gonna, la contro gonna e la fodetta per calarle le mutanne,
reagì gridando un “no!” secco come una scopettata. Il parrino parve non averla
sentita, respirava accussì forte che pareva gli dovesse venire un sintòmo da un
momento all’altro. Donna Trisìna capì che la posizione nella quale il parrino
la teneva era assai perigliosa, isò un piede e sparò un càvucio all’urbigna.
pigliato in pieno nei cabasisi, patre Artemio lassò la presa e si piegò in due,
la bocca spalancata a cercare aria.
Trisìna
ne approfittò per susìrsi dal letto e riaggiustarsi il vestimento.
“Ci
dissi di no!” fece arraggiata. “Ci dissi che l’atto intero non lo voglio fare!
Ancora Càvudo nella tomba è il mio pòviro marituzzo mio!”
Patre
Carnazza era ancora intordonuto per il dolore, ma nelle parole di donna Trisìna
si dentì acchianare il sangue alla testa.
“Ma
che minchiate mi vieni a contare! Macari Lazzaro doppo due jorna di tomba
feteva! Che mi vieni a dire di càvudo e càvudo doppo che quel grandissimo
cornuto di tò matito è morto da tre anni!”
Senza
degnarlo di una parola di risposta, la fìmmina tornò nella càmmara da mangiari,
pigliò una seggia, s’assittò. Il parrino, doppo canticchia, fece l’istesso: se
Trisìna non se n’era andata sdignata, veniva a dire che le trattative potevano
continuare.
Quella
storia durava da una decina di jorna, Trisìna doppo la messa s’appresentava nel
suo quartino, ma appena lui ci metteva una mano sopra quella s’arrivoltava come
la vipera che era. Quant’era beddra, però, la pìpera! non ci sapeva resistere.
Si fece persuaso che ancora una volta, per ottenere qualche cosuzza da lei,
doveva pagare.
Fino
a quel momento, la taliàta di una minna nuda gli era costato cento grammi di cafè
bono; la taliàta di tutt’e due le minne nude, trecento grammi di zùccaro; una
vasata senza lingua, mezzo chilo di farina, una vasata con la lingua, un chilo di
pasta fina di Napoli; una vasata con la lingua e le due minne nude, tre tazzine
di porcellana e relative sottotazze; una passata di mano a lèggio a lèggio
sopra le minne nude, un cucchiarino di vero argento; una vasata per ogni
capezzolo, un rotolo ti tela matapollo finissima per fare camicie. Trisìna era
fìmmina di agevole stato, il marito le aveva lasciato case e terreni, ma veva,
in prìmisi, un istinto di gazza latra, in secùndisi, una testa di vera buttana
alla quale piaceva farsi pagare.
“Questa
troia mi sta spogliando la casa” pinsò amaramente il parrino “ e mi permette di
traffichiare solo nei piani alti!”
E
fu allora che gli venne l’idea di come alloggiare meglio in quei piani alti.
Trisìna
intanto si taliàva torno torno.
“Quant’è
bello quel lume!” esclamò.
E
lo contemplò con le labbra mezzo aperte, che si vedeva la punta della lingua. A
qella vista, il fiato del parrino sonò come un mantice.
“Ti
piace?”
“Essì”
fece Trisìna tirando fora la lingua e passandosela sopra le due vampe di foco
che erano le sue labbra. Si era leccata, proprio come una gatta davanti a un
pezzo di carne.
“E
io tel’arregalo. Mi chiange il core pirchì è un ricordo caro. Apparteneva amia
sorella Agatina che il Signoruzzo chiamò.”
“E
io lo voglio” fece la fìmmina con la boccuccia stretta, a culo di gaddrina.
“Prima
però facciamo un joco” disse il parrino, cominciando a mettere in posta l’idea
che gli era venuta.
“Quali
joco? Non ho gana di giocare.”
Patre
Carnazza, si sisì, raprì una porticedda, scomparse dintra la dispensa dove ci
teneva la robba di mangiari e bìviri.
“Lo
sapi, parrì” fece Trisìna ad alta voce. “una casa affittai, quella di Vigàta,
quella quasi a ripa di mare.”
“Ah,
si? E achi?” spiò il parrino tornando nella càmmara e tenendo la mano dritta
darrè la schina.
“Il
sinisàle mi disse che serve a un forastèri, il novo ispettori capo ai molini.
Travaglia ccà, a Montelusa. io di Pirsòna non lo conoscio.”
Patre
Crnazza, con un sorrisino, quello che aveva pigliato dalla dispensa. Trisìna
taliò, certamente erano frutti, ma non li aveva mai veduti prima.
“Banane,
si chiamano” spiegò il parrino. “Stanno in Africa. Me le portò aieri
doppopranzo un amico mio che nevica. Una me la mangiai. Una cosa di paradiso. E
con queste due ci facciamo ci facciamo il joco che ti dissi.”
S’assittò
davanti alla fìmmina, sbucciò una banana.
appena
ch’ebbe finito, Trisìna allungò la mano. il parrino la scansò.
“Ti
civo io” disse “come si fa con i picciliddri.”
Obbediente,
Trisìna serrò gli occhi e raprì la voccuzza. Patre Carnazza
le
introdusse delicatamente tra le labbra la punta della banana che la fìmmina
decapitò di netto. Il parrino sussultò. trisìna mastichiò, agliuttì, raprì gli
occhi.
“Ancora.”
Finita
la banana, si mostrò delusa.
“Chisto
era il joco?”
“No,
ora lo facciamo” rispose il parrino pigliando la banana che aveva posata sul
tavolo e principiando a sbucciarla “io ora mi suso e mi metto davanti a tia con
la banana in mano. Tu te ne resti assittata con gli occhi serrati. Tu devi devi
dare una volta un morso
alla
banana e un’altra volta invece una bella vasata. Se sbagli, se dai due vasate o
due morsi di seguito, paghi pegno. E il pegno lo stabilisco io. Se c’inzerti,
ti regalo il lume.”
“E
va bene” fece Trisìna, serrando gli occhi e inumidendosi le labbra con la
lingua. Aveva capito benissimo il joco del parrino.
A
pensare ai denti che Trisìna aveva, patre Carnazza sudò freddo: se quella si
sbagliava, sarebbe stato un guaio grosso.
(…)
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