Berthe Morisot - Il balcone
L'ombrello – Luigi Pirandello
— «Pue le bacchette,
pue le bacchette» — ripeteva Mimí, sgambettando e cercando di pararsi davanti
alla mamma che la teneva per mano sotto
l'ombrello.
All'altro lato
Dinuccia, la sorellina maggiore, andava come una vecchina, seria e precisa, reggendo
a due mani un altro ombrello, già vecchio, sforacchiato, che presto, comperato
il nuovo, sarebbe passato alla serva.
— «E pue l'ombello»,
— seguitava Mimí, — «due ombelli, due tappotti, quatto bacchette.»
— Sí, cara; le
barchette e tutto; ma andiamo, sú! — la esortava la mammina impaziente, che
voleva andare spedita tra il confuso viavai della gente che spiaccicava pur lí
sul marciapiedi, sotto lo spruzzolío incessante d'una lenta acquerugiola.
Con sordi ronzíi, tra
accecanti sbarbagli le lampade elettriche già s'accendevano, opaline,
rossastre, gialligne, davanti alle botteghe.
Pensava, andando,
quella mammina frettolosa, che le stagioni non avrebbero dovuto mutar mai, e
l'inverno, sopra tutto, mai venire. Quante spese! E per i libri di scuola, che
sempre ogni anno di nuovi; e ora per riparare dal freddo, dal vento, dalla
pioggia quelle due povere piccine rimaste orfane prima che l'ultima avesse
avuto il tempo d'imparare a dir babbo. Carnucce tènere! che strazio vederle
andar fuori cosí sprovviste di tutto, certe
mattine!
Lei s'adoperava in
tutti i modi; ma come bastare, con quel po' di pensioncina lasciata dal marito,
quando poi il crollo viene inatteso, e da tant'anni s'ha l'abitudine di viver bene?
Quest'anno anche Mimí
aveva cominciato a frequentare il giardino d'infanzia, ed erano altre sei lire
al mese di tassa; perché… ma sí, non aveva saputo togliere Dinuccia, la
maggiore, dalle scuole a pagamento per mandarla a quelle pubbliche; e le
toccava di pagare per due, adesso. E le tasse erano il meno! Tutte alunne per
bene, in quella scuola, e le sue piccine non dovevano sfigurare.
Non si perdeva lei,
no: morto il marito, che aveva vent'anni piú di lei, pur dovendo attendere a
quelle due creaturine, aveva avuto la forza di ripigliare gli studii interrotti
all'ultimo anno; aveva preso il diploma; poi, avvalendosi del buon nome
lasciato dal marito e delle molte aderenze ch'egli aveva, facendo anche
considerare le sue tristi condizioni, era riuscita a ottenere una classe aggiunta
in una scuola complementare. Ma la retribuzione, insieme con la pensioncina del
marito, non bastava o bastava appena appena.
Se avesse voluto… Non
vestiva bene; non si curava piú per nulla di sé; si pettinava, là, alla svelta,
ogni mattina; s'appuntava un cappellino che non era piú neanche di moda; e via
alla scuola, senza guardare mai nessuno; eppure, se avesse voluto, già due
partiti. Chi sa perché, anche quella sera là, mentre andava frettolosa fra le
sue
bambine, tutti si
voltavano a mirarla; e pioveva! Figurarsi, però, se lei avrebbe voluto mai dare
un altro babbo a Dinuccia e a Mimí. Pazzie! pazzie!
Quell'ammirazione,
intanto, quegli sguardi ora arditi e impertinenti, ora languidi e dolci, colti
a volo per via, con apparente fastidio o anche, certe volte, con sdegno, le
cagionavano in fondo una frizzante ebbrezza; le ilaravano lo spirito; davano
quasi un sapore eroico a quella sua rinunzia al mondo, e le facevano stimar
bello e lieve il sacrifizio per il bene delle due figliuole.
Era un po' il piacere
dell'avaro, il suo; dell'avaro che non soffre tanto delle privazioni a cui
s'assoggetta, pensando che, se volesse, potrebbe godere senz'alcuna difficoltà.
Ma che sarebbe
dell'avaro, se da un momento all'altro l'oro del suo forziere perdesse ogni
valore?
Ebbene, certi giorni,
senza saper perché, o meglio, senza volersene dire la ragione, ella cadeva in
una cupa irrequietezza; era agitata da una sorda irritazione, che cercava in
ogni piú piccola contrarietà (e quante ne trovava, allora!) un pretesto per
darsi uno sfogo. Le erano mancati per via quegli sguardi, quell'ammirazione. E
segnatamente sulla maggiore delle figliuole, su Dinuccia, si scaricava allora
la maligna elettricità di quelle torbide giornate. La piccina, senza saperlo,
attirava quelle scariche col suo visino pallido, silenziosamente vigile, coi suoi
sguardi attoniti e serii, che seguivano la mammina furiosa, la mammina che si
sentiva spiata e credeva di scorgere un rimprovero in quell'attonimento penoso
e in quello sguardo serio e indagatore.
— Stupida! — le
gridava.
Stupida, perché?
Perché non capiva la ragione per cui la mammina era cosí nervosa, quel giorno,
e cattiva? Ma se non voleva capirla neanche lei, questa ragione! Era soltanto
meravigliata, la piccina, di non vederla gaja come gli altri giorni, ecco.
Meravigliata? Si meravigliava a torto; perché non tutti i giorni si può essere
gaj; e non era mica gioconda per la mammina quella vita di stenti e d'angustie.
Lo sapeva bene lei sola, quanti pensieri
e quanti bisogni e
quante difficoltà.
Soffocava cosí il
rimorso d'aver maltrattato e fatto piangere ingiustamente la bambina. Erano pur
veri sí, i pensieri, gli stenti, i bisogni, le angustie, le difficoltà; ma il
non voler confessare a se stessa la vera ragione della sua tristezza e della
sua nervosità la rendeva ancora piú triste e nervosa.
Per fortuna, c'era
l'altra piccina, Mimí, che faceva ogni volta il miracolo di rasserenarla tutt'a
un tratto, con qualcuno de' suoi vezzi infantili, pieni di grazia,
irresistibili.
Mimí prima la
guardava, la guardava per un pezzo, ma non con quegli occhi vigili e serii
della maggiore; con occhi ingenui e amorosi la guardava; poi faceva parlare
quello sguardo, soffiando coi labbruzzi di ciliegia:
— Mammina bella!
Si alzava,
s'inchinava con le manine a tergo e domandava, scotendo tutti i riccioli neri
della testina:
— Vuoi bene?
Cosí. Non diceva: — «Mi
vuoi bene» — ma per tutti, semplicemente: — «Vuoi bene?». — E allora ella
le tendeva le braccia e appena quel batuffoletto le saltava al collo, se lo
stringeva forte forte al seno, rompendo in pianto; chiamava subito a sé anche
Dinuccia; le abbracciava tutt'e due, con fremente tenerezza, carezzando anche di
piú la piccina poc'anzi maltrattata; e godeva di sentirsi inebbriare da
quest'altra gioja pura, che nasceva
dal suo dolore e
dalla sua bontà, che nasceva veramente dal suo sacrifizio, imposto dalla
crudeltà della sorte, e ch'ella era felice, felice di compiere per quelle due
creaturine, unicamente per loro.
Quella sera, intanto,
la mammina era molto gaja. — Sú, Mimí! Ecco, è qua: siamo arrivate!
La bambina era
restata a bocca aperta davanti a certe grandi vetrine abbarbaglianti in capo a
via Nazionale.
Tirata dalla mamma,
entrò nella bottega, ripetendo ancora una volta:
— «Le bacchette! Pima
le bacchette!»
— Ecco, sí, zitta! —
le gridò la madre, a cui s'era fatto innanzi un commesso di negozio. — Barch…
cioè, vedi? lo fai dire anche a me. Mi dia due paja di…
— «Bacchette!»
— E dàlli! «Calosce»,
per queste bambine. Le chiama barchette la mia piccina. Veramente, si
potrebbero anche chiamare cosí, per non usare quella parolaccia forestiera.
— Soprascarpe, —
suggerí asciutto, con aria di sufficienza
il commesso, marcando
le ciglia.
— Barchette però
sarebbe piú carino.
— «Pima a me! Pima a
me!» — gridava intanto Mimí, arrampicatasi sul divano, agitando i piedini.
— Mimí! — la sgridò
la mamma, guardandola severamente e cangiandosi in volto.
Subito Dinuccia notò
questo repentino cambiamento, e assunse, con gli occhi attoniti e serii,
quell'aria di attonimento penoso, che tanto urtava la madre. E nessuna delle
due badò alla gioja di Mimí, a cui quell'antipatico commesso aveva già provato
la prima «barchetta». Voleva subito subito scendere dal divano per camminarci, senz'aspettare
l'altra.
— Qua, ferma, Mimí! O
via a casa! Troppo larga, non vedi? Qua!
Il commesso, prima
d'andare a prendere un altro pajo d'ultima misura, avrebbe voluto provare
quelle alla maggiore; ma Dinuccia si schermí, indicando la sorellina:
— Prima a lei.
— Stupida, è lo
stesso! — le gridò la madre, prendendola sotto le ascelle e sedendola con mal
garbo sul divano. Intanto, per quietare Mimí, disse al commesso che gliel'avrebbe
calzate lei, quelle, alla maggiore; e che egli per piacere andasse nel
frattempo a prendere il pajo per la piccola.
Dinuccia, calzata,
rimase a sedere sul divano; Mimí invece ne scivolò via lesta, battendo le mani,
e si mise a saltare, a girare su se stessa come una trottolina, cacciando gridi
di gioia; e ora levava un piede, ora l'altro, per guardarselo. Dal divano,
Dinuccia la guardava, e sorrideva pallidamente. Si rifece seria, udendo la
madre esclamare:
— Quaranta lire?
Venti il pajo?
— Fabbrica americana,
signora, — rispose il commesso, opponendo alla maraviglia della compratrice la freddezza
dignitosa di chi conosce il valore della merce che si vende in bottega. —
«Articolo» indistruttibile. Lei lo può stringere in un pugno, guardi!
— Capisco, ma… scusi,
per un piedino cosí, venti lire?
E il commesso:
— Due soli prezzi,
signora: per i piccoli, venti lire; per i grandi, trentacinque. Un po' piú lunghe,
un po' piú corte, capirà, ciò che conta è la fattura.
— Non me lo sarei mai
aspettato! — confessò allora, afflitta, la mammina. — Avevo calcolato, al piú
al piú, venti lire per tutt'e due.
— Uh, non lo dica
nemmeno! — protestò il commesso, quasi inorridito.
— Guardi, — si provò
ad allettarlo la mammina, — dovrei comperare altra roba: due «loden», pure per
le piccine; due ombrelli.
— Abbiamo tutto.
— Lo so; sono venuta
qua apposta. Mi faccia qualche riduzioncina.
Il commesso alzò le
mani, inflessibile:
— Prezzi fissi,
signora. Prendere o lasciare.
La mammina gli lanciò
uno sguardo torbido, di sdegno. Facile a dire, lasciare! Come togliere dai
piedini a Mimí le barchette? La solita furia. Avrebbe dovuto prima contrattare,
ecco. Ma poteva mai supporre che gliene domandassero tanto? E poi, se erano
prezzi fissi… Aveva calcolato di spendere in tutto centoventi lire: piú non poteva.
— I «loden», — disse,
— mi faccia vedere. Che prezzo hanno?
— Ecco, favorisca di
qua.
— Dinuccia! Mimí! —
chiamò la mammina irritata.
— Buona, sai, Mimí, o
ti levo le calosce! Vieni qua. Lasciami vedere! Non ti vanno troppo larghe
anche queste?
Voleva tentare di
levargliele per provare se le riuscisse di trovarne a minor prezzo in qualche
altra bottega. Le veniva ormai di schiaffeggiarlo quel commesso.
— «Lagghe? No,
belle!» — gridò Mimí, ribellandosi.
— E lasciami vedere!
— Belle no, belle!
tanto belle! — seguitò Mimí, scappando via.
E si mise a soffiare,
gonfiando le gote, e ad agitare i braccini e a sgambettare, come se fosse in
mezzo all'acqua e vi passasse sicura, con quelle barchette ai piedi.
La degnò di un
sorriso, alla fine, quel commesso di negozio. Ma non l'avesse mai fatto! Vedendolo
ridere come per compassione, la mammina sentí rimescolarsi tutto il sangue.
Pensò che aveva soltanto centotrentacinque lire nella borsetta. I «loden»,
quaranta lire l'uno; quaranta le due paja di soprascarpe; non ne restavano che
quindici, poche per due ombrelli: sí e no, avrebbe potuto comperarne uno, e
d'infima qualità.
Ora, il piacere delle
bambine era appunto d'avere un ombrello per ciascuna, l'ombrello e le barchette.
A quei cappotti impermeabili, grevi, grigi, pelosi, non fecero alcuna festa: e
quando seppero che di ombrelli non se ne poteva comperar che uno, cominciarono
le liti.
Dinuccia sosteneva
con ragione che toccava a lei, ch'era la piú grande; ma Mimí non voleva
sentirla questa ragione, poiché un ombrello era stato promesso anche a lei; e
invano la mamma, per metter pace, badava a ripetere che non sarebbe stato né
dell'una né dell'altra, ma di tutt'e due in comune, dovendo andare a scuola
insieme.
— «Pelò, lo lleggio
io!» — protestò Mimí.
— No, io! — si
ribellò Dinuccia.
— Un po' l'una, un
po' l'altra, — troncò la madre, e rivolgendosi a Mimí: — Tu non potrai; non
saprai reggerlo.
— «Sí che lo
lleggio!»
— Ma se è piú alto di
te, non vedi?
E, per fargliene la prova,
la mammina glielo pose accanto. Subito Mimí se lo strinse al petto con tutte e
due le braccia. Questa parve a Dinuccia una prepotenza, e stese le mani per
strapparglielo.
— Vergogna! — gridò
la mamma. — Che spettacolo! che bambine per bene! Qua, a me l'ombrello! Non
l'avrà nessuna delle due!
Per via, benché coi
«loden» addosso e le barchette ai piedi, le due bambine andarono taciturne,
imbronciate, con gli occhietti sfavillanti, fisso il pensiero a quell'ombrello,
per cui la lite si sarebbe certo riaccesa, appena varcata la soglia di casa. La
proprietà, in comune: va bene; ma a chi lo avrebbe affidato, la mattina
appresso, la mamma? Tutto era qui: portarlo aperto per via, quell'ombrello, sotto
la pioggia! E Dinuccia pensava che toccava a lei, a lei di diritto: non solo
perché la maggiore, ma anche perché… ecco qua: si poteva dare una prova migliore
di quella che dava lei, in quello stesso momento, di saper reggere ombrelli per
via? E per quella prova, cosí ben disimpegnata anche nell'andare, non si meritava
adesso di reggere l'ombrello nuovo? Perché lo aveva comperato la mamma? per
tenerlo chiuso sotto il braccio? Se la mamma riparava col suo Mimí, perché
lasciar lei intanto con quello vecchio, della serva? Il castigo, se mai, doveva
essere per quella Mimí soltanto, per quella Mimí prepotentona, che mai e poi
mai avrebbe saputo reggere un ombrello come lei. Eh, avrebbe voluto vederla!
Cosí pensando,
Dinuccia si provava a lanciare un'occhiatina alla mamma, di sotto l'ombrello,
senza perdere l'equilibrio, per vedere se ella si accorgesse di quella sua bravura.
Ma scorse, invece, piú che mai torbido e aggrondato il volto della mamma; e
l'ombrello tentennò tra le due manine che lo sorreggevano.
Uscita dalla bottega
in preda a una rabbiosa mortificazione, la mammina lottava in quel momento per espungere
dall'animo il piú cattivo dei pensieri contro la sua Dinuccia: un pensiero
orribile, ch'ella non voleva assolutamente le si riflettesse neppure per un
attimo sulla coscienza, dove sarebbe rimasto, al minimo contatto, come una
macchia, come una piaga.
Eppure, a ogni urto
anche lieve contro la dura realtà, in certi momenti, quel pensiero odioso le si
riaffacciava all'improvviso. E il pensiero odioso era questo: che se lei,
Dinuccia, non ci fosse stata (non che dovesse morire, Dio, no!; ma se non ci
fosse stata, ecco, se non l'avesse avuta), ella, con Mimí soltanto, ch'era
d'indole cosí gaja e aperta, sempre contenta, con Mimí soltanto, ella si
sarebbe rimaritata. Mimí, senza dubbio, si sarebbe fatta amare da colui ch'ella
avrebbe scelto per compagno, gli sarebbe subito saltata al collo, domandando anche
a lui, con la solita grazia, scotendo la testina ricciuta: «Vuoi bene?». E come
non volerle bene? Dinuccia invece, con quegli occhi, sempre attoniti e serii… Ecco,
se li immaginava, quegli occhi, rivolti penosamente al patrigno e… no, no, mai!
sentiva che con lei e per lei ella non lo avrebbe mai fatto, quel passo, non avrebbe
potuto farlo.
La guardò, e subito,
come le soleva avvenir sempre, sentí un acuto rimorso e un'angosciosa tenerezza
per quella sua povera piccina. La vide ancora tutta intenta a dare quella sua
prova di bravura e non poté fare a meno di sorridere. Lei, no; ma avrebbe
voluto che qualcuno per via esclamasse «Ma brava! Guardate come sa regger bene
l'ombrello quella pupetta!». L'ombrello vecchio, poverina… Chi sa che gioja, se
le avesse dato il nuovo!
Già: ma l'altra
allora? Eh, l'altra… Tutte vinte? Se aveva fatto male a promettere anche a lei
un ombrello tutto per sé, se non aveva potuto comperarne due, doveva andarci di
mezzo la povera piccina? Mimí non doveva far capricci, e Dinuccia, che sapeva
regger cosí bene l'ombrello, doveva reggere il nuovo e non il vecchio.
Glielo diede. Ma la
piccina non lo accolse con quella festa ch'ella s'era immaginata. Non perché
avesse indovinato il tristo pensiero della mamma (come avrebbe potuto mai
indovinarlo?); ma, subito dopo che le aveva scorto quel volto torbido e
aggrondato, aveva sentito un brivido alla schiena, Dinuccia, e gli occhietti le
si erano infoscati, e s'era messa a pensare che non la sola Mimí era cattiva,
ma anche la mamma cattiva, la mamma che
riparava Mimí e non
badava a lei, e la lasciava sola, con quell'ombrellaccio vecchio della serva,
che sgocciolava e che pesava tanto, ormai, tanto che lei se ne sentiva tutt'e due
i braccini indolenziti; e non poteva e non sapeva reggerlo piú.
Ora, il nuovo pesava
meno, e Dinuccia ringraziò la mamma soltanto con un sorriso. Parve poco alla
mamma, e si rivolse subito a Mimí:
— Tu stai qua sotto con
me, buona buona, è vero? Dinuccia si ripara da sé. Che direbbe la gente
vedendola con quest'ombrellaccio vecchio? «Uh, che poverella!», direbbe. «È
forse la servetta?» E tu non vorresti, è vero? che si dicesse cosí della tua
sorellina.
Mimí non fiatò: aveva
una sua idea. Appena arrivate al portone di casa, s'affrettò a pregare la
mamma:
— «Oa, mamma, io
pelle ccale! Lo lleggio io pelle ccale!»
E cosí entrò in casa,
dove si sentiva piú sicura, con l'ombrello in suo potere; e non volle cederlo,
salite le scale, perché la mamma lo riponesse, con la scusa che Didí lo aveva
tenuto tanto tempo per istrada. La lite – inevitabile – scoppiò, mentre la
mamma si svestiva di là. Dinuccia strappò l'ombrello a Mimí e la fece cadere per
terra con un urtone. Strilli di Mimí; restituzione a lei dell'ombrello; e
Dinuccia castigata senza cena.
Sul tardi però,
quando la mamma andò a cercare Dinuccia che s'era rincantucciata in un angolo
dietro l'armadio, e la trovò che dormiva, comprese perché la piccina non aveva
accolto con festa, per via, l'ombrello nuovo, e perché poi, contro il solito,
lei che come una
vecchina compativa
sempre i capricci di Mimí, l'aveva fatta piangere quella sera: Dinuccia
scottava dalla febbre!
La mamma restò un
pezzo, sgomenta, a contemplarla; poi se la tolse in braccio, gridando:
— Oh Dio, no,
Dinuccia mia! No, no, no!
La svestí, la mise a
letto e le si sedette accanto, con l'anima vuota e sospesa, come intronata
dalla pioggia, che scrosciava furiosa di fuori.
Piovve tutta quella
notte, e piovve per sei giorni di fila quasi senza interruzione.
Il pensiero di Mimí,
la mattina dopo, allo svegliarsi, fu per l'ombrello, per le barchette e il
cappotto nuovo.
L'ombrello se l'era
messo accanto al lettino, e se lo trovò subito in mano; scappò per le barchette
e per il cappotto. Pioveva; e dunque festa! sarebbe andata a scuola munita di
tutto punto, le barchette ai piedi, il cappotto addosso, e l'ombrello in mano,
aperto, sotto l'acqua!
No? Non si andava a
scuola? Perché? Dinuccia era malata? Che peccato! Pioveva cosí bene…
Avrebbe voluto
chiedere alla mamma, perché non mandava a scuola lei sola, con la serva. Ma la
mamma non le badava; piangeva. Lo chiese alla serva; ma questa, già lí lí per
uscire in fretta in furia in cerca d'un medico, nemmeno si voltò per
risponderle.
Mimí rimase un pezzo
dietro la vetrata della finestra a guardare la bell'acqua scrosciante,
impetuosa; poi andò a pararsi davanti allo specchio dell'armadio col «loden» e
con le barchette; si tirò sulla testina il cappuccetto fin su le ciglia; aprí
con molto stento l'ombrello, e si contemplò beata nello specchio, tutta
ristretta nelle spallucce, coi piedini giunti, ridendo e tremando dei brividi
che le comunicava quella pioggia immaginaria.
Per cinque giorni,
ogni mattina, Mimí fece quella prova davanti allo specchio. E dopo essersi
contemplata per piú d'un'ora, a piú riprese, toltisi il cappotto e le
barchette, andava a nascondere l'ombrello in un certo posto che sapeva lei
sola. Ah, quell'ombrello era suo, ormai, tutto suo, suo unicamente, e mai lo
avrebbe ceduto, neppure alla mamma! Che pena, intanto, che tutta quella pioggia
andasse sprecata…
La sera del sesto
giorno, Mimí fu condotta dalla serva nel quartierino accanto, abitato da due
vecchie signore, amiche della mamma, che in quei giorni parecchie volte aveva
veduto per casa, affaccendate tra la camera da letto e la cucina. Era tanto
presa di quei suoi tesori, che non ci badò; non badava a nulla da sei giorni;
ed era anzi contenta che la mamma fosse tutta intenta alla sorellina malata e
non si curasse affatto di lei, perché cosí
poteva «fare
l'inverno» («l'invenno», diceva lei) a suo agio e con la massima libertà. Era
del resto di cosí facile natura, che s'accomodava subito e si sentiva a posto, ovunque
la mettessero: traeva da sé la vita e la spandeva intorno festosamente,
popolando di meraviglie ogni cantuccio, fosse anche il piú nudo e il piú
oscuro. Cenò in casa delle vicine, giocò, chiacchierò a lungo con la serva, saltando
di palo in frasca, e finalmente le si addormentò in grembo.
Si svegliò a notte
alta, di soprassalto, sbalordita da un formidabile fragore, che aveva scosso
tutta la casa e che ora s'allontanava con cupi rimbombi tra lo scroscio
violento della pioggia. La bambina si guardò attorno, smarrita. Dov'era? Quella
non era la sua casa; quello non era il suo lettino… Chiamò la serva due o tre
volte, si liberò della coperta in cui era avvolta e balzò a sedere sul letto. Era
ancora vestita. Guardò il lettino accanto, intatto, e si raccapezzò: quella era
la camera in cui dormivano le due vecchie signore: v'era entrata tante volte!
Scivolò dal letto; attraversò una stanza al bujo; trovò la porta aperta, e uscí
sul pianerottolo della scala, atterrita dal fragorío della pioggia che cadeva
sul lucernario, e dal palpitante bagliore dei lampi. Aperta era anche la porta
della sua casa; e
Mimí cacciò dentro e corse alla camera da letto, gridando:
— Mamma! mamma!
Una delle due vecchie
signore, che se ne stava accanto al lettuccio della bambina agonizzante, le
corse subito incontro, per fermarla sulla soglia.
— Va', va', piccina
mia, — le disse, — la mamma è di là.
— Didí? — domandò
allora la bimba sbigottita, intravedendo al debole chiarore della lampada il
viso cereo della sorellina sul letto.
— Sí, cara — le
rispose quella, — il Signore la vuole per sé. Se ne va in cielo Didí…
— In cielo?
E Mimí uscí, senza
aspettare risposta; si fermò nella saletta al bujo, un po' perplessa; udí
novamente, attraverso la porta aperta, il tremendo fragorío della pioggia sul
lucernario della scala: intravide dalla finestra a un nuovo palpito di luce il
cielo sconvolto, e scappò via, lungo il corridojo.
Poco dopo, le due
vecchie signore che vegliavano l'agonia di Dinuccia, se la videro venire
innanzi con quell'ombrellone piú grosso di lei tra le braccia, balbettando:
— «L'ombello… a Didí…
in cielo… piove».
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