22 giugno 2019

I fiori blu - Raymond Queneau

I fiori blu - Raymond Queneau

Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Eudeno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo.
I Normanni bevevan calvadòs.
Il Duca d’Auge sospirò pur senza interrompere l’attento esame di quei fenomeni consunti. Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano Greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano le persiane.
I Normanni bevevan calvadòs.
– Tutta questa storia, – disse il Duca d’Auge al Duca d’Auge, – tutta questa storia per un po’ di giochi di parole, per un po’ d’anacronismi: una miseria. Non si troverà mai via d’uscita? Affascinato, continuò per alcune ore a osservare quei rimasugli che resistevano allo sbriciolamento; poi, senz’alcuna ragione apparente, lasciò il suo posto di vedetta e scese ai piani inferiori del castello, dando di passata sfogo al suo umore cioè alla voglia che aveva di picchiare qualcuno. Picchiò, non la moglie, inquantochè defunta, bensì le figlie, in numero di tre; battè servi, tappeti, qualche ferro ancora caldo, la campagna, moneta, e, alla fine, la testa nel muro. Ciò fatto, gli venne voglia di un viaggetto, e decise di recarsi nella Città Capitale in umile arnese, accompagnato solo dal paggio Mouscaillot.
Scelse tra i palafreni il suo roano favorito, chiamato Demostene perché parlava, pur col morso tra i denti.
– Ah, mio buon Demò, – disse il Duca d’Auge con voce lamentosa,
– quanta tristezza, quanta melanconia m’opprimono!
– Sempre la storia? – domandò Sten.
– Non c’è gaudio che in me lei non dissecchi,
– rispose il Duca.
– Coraggio! Vossignoria si metta in sella, e andiamo a spasso!
– La mia intenzione era ben questa, e altra ancora.
– Qual mai?
– Andar via per qualche giorno.
– Così sì che mi piace! Dove vuole che la porti, signoria?
– Lontano! Qui il fango è fatto dei nostri fiori.
– … dei nostri fiori blu, lo so. E allora?
– Scegli.
Il Duca d’Auge montò in groppa a Sten che fece la seguente proposta:
– Che ne direbbe vostra signoria d’andare a vedere a che punto sono i lavori della chiesa di Notre-Dame?
– Come? – esclamò il Duca, – non sono ancora terminati?
– È quel che andremo a controllare.
– Se la tirano tanto in lungo, quei franchi muratori finiranno per metter su una mahomeria.
– Perché non un buddistero? o un batti-lao-tsero? o un confusionale? Non bisogna veder tutto così nero, signoria! In strada! Coglieremo l’occasione per porgere il nostro feudal omaggio al santo Re Luigi nono del suo nome.
Senz’attendere la risposta del padrone, Sten si mise a trottare verso il ponte levatoio che s’abbassò funzionalmente. Mouscaillot, che non proferiva verbo per paura di prendersi un rovescio di manopola sulle gengive, veniva appresso, montato su Stéphane, così chiamato perché di poche parole. Dato che il Duca rimasticava la sua amarezza e che Mouscaillot, seguendo la sua politica prudente, perseverava nel silenzio, solo Sten continuava a ciarlare allegramente e lanciava ameni frizzi a quelli che lo guardavano passare, i Celti con aria gallicana, i Romani con aria cesarea, i Saraceni con aria cerealicola, gli Unni con aria univoca, i Franchi con aria sorniona, i Vandali con aria vigile e urbana. I Normanni bevevan calvadòs.
Nell’inchinarsi al passaggio del loro beneamato signore, i villici bofonchiavano oscure minacce, ma sapendo che sarebbero rimaste senza seguito non le spingevano più lontano dei propri baffi, chi li aveva.
Sulla strada maestra, Sten andava di buon passo e stava zitto: non c’era traffico e lui non trovava più interlocutori; non voleva importunare il suo cavaliere, che sentiva sonnecchiare; dato che Stef e Mouscaillot condividevano tale riserbo, il Duca d’Auge finì per addormentarsi.

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