da L’oro di Napoli – Giuseppe Marotta
Gli spaghetti
Visitai e non visitai, in Liguria, un grande pastificio. Per qualche ora il mare mi aveva accompagnato da lontano e da vicino: in certi punti seguiva il treno come uno strascico; visto dai fianchi delle colline, all’uscita di ogni galleria, pareva fissato all’orizzonte e alla riva, senza una piega, con gli spilli. È un mare che amo perché viene da Napoli, ma quassù diventa signorile, perde il suo aspro odore di alghe, di viscidi cesti in cui troppi pesci si sono voltati e rivoltati per morire, di vele in cui ha troppo sudato lo scirocco: oso dire che in Liguria il mare è biondo mentre a Napoli è bruno, altro carattere, altri pensieri, altra forza. Ma sempre mare è, sempre luce consegna, sempre ci si sente, allontanandosene, come la giovinetta quando volta, dopo un’ultima occhiata, le spalle allo specchio e s’avvia. Dunque visitai e non visitai questo grande, grandissimo pastificio settentrionale. Vidi i bianchi edifici, le tettoie, le ciminiere, i cortili, i saloni pieni di operai, le macchine, anzi la macchina che le comprende tutte, la “continua” che riassume l’impastatrice e la gramola, la pressa e la trafila, e dalla quale gli spaghetti escono precisi e completi e ininterrotti come stampe dalla rotativa. Gli spaghetti. (Non so spiegarmi. Fui, di colpo, un veterano quando vede la bandiera.) Ne hanno fatta della strada, pensai, per trovare qui la loro apoteosi, il loro Pantheon. Non erano nel 1912 a Napoli con me? Avevo dieci anni e gli spaghetti stavano in pochi metri di terrazza, su pertiche, ad asciugarsi al sole. Parevano una pianta; nei vicini giardinetti le viti ne ripetevano il motivo; filare dorato aspettami, esco da un supremo pastificio ligure che tu hai scolorito e dissolto, mi voglio rompere il collo per raggiungerti.
Gli spaghetti
Visitai e non visitai, in Liguria, un grande pastificio. Per qualche ora il mare mi aveva accompagnato da lontano e da vicino: in certi punti seguiva il treno come uno strascico; visto dai fianchi delle colline, all’uscita di ogni galleria, pareva fissato all’orizzonte e alla riva, senza una piega, con gli spilli. È un mare che amo perché viene da Napoli, ma quassù diventa signorile, perde il suo aspro odore di alghe, di viscidi cesti in cui troppi pesci si sono voltati e rivoltati per morire, di vele in cui ha troppo sudato lo scirocco: oso dire che in Liguria il mare è biondo mentre a Napoli è bruno, altro carattere, altri pensieri, altra forza. Ma sempre mare è, sempre luce consegna, sempre ci si sente, allontanandosene, come la giovinetta quando volta, dopo un’ultima occhiata, le spalle allo specchio e s’avvia. Dunque visitai e non visitai questo grande, grandissimo pastificio settentrionale. Vidi i bianchi edifici, le tettoie, le ciminiere, i cortili, i saloni pieni di operai, le macchine, anzi la macchina che le comprende tutte, la “continua” che riassume l’impastatrice e la gramola, la pressa e la trafila, e dalla quale gli spaghetti escono precisi e completi e ininterrotti come stampe dalla rotativa. Gli spaghetti. (Non so spiegarmi. Fui, di colpo, un veterano quando vede la bandiera.) Ne hanno fatta della strada, pensai, per trovare qui la loro apoteosi, il loro Pantheon. Non erano nel 1912 a Napoli con me? Avevo dieci anni e gli spaghetti stavano in pochi metri di terrazza, su pertiche, ad asciugarsi al sole. Parevano una pianta; nei vicini giardinetti le viti ne ripetevano il motivo; filare dorato aspettami, esco da un supremo pastificio ligure che tu hai scolorito e dissolto, mi voglio rompere il collo per raggiungerti.
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